Due parole sui ghiacciai italiani di Sergio Cecchi

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downloadAnnuario 2014 – Per cominciare, alcune definizioni … eh sì, perché noi sappiamo di non sapere e vogliamo partire dall’A-B-C; per questo, riprendo alla lettera da Wikipedia:

«Un ghiacciaio è una grande massa di ghiaccio, formatasi dalle nevi sotto l’azione del gelo e che scorre lentissimamente verso il basso per gravità.

Perché si cominci a formare un ghiacciaio, è necessario che la quantità di neve che cade nell’arco di un anno superi la quantità di quella che viene persa per fusione o sublimazione cioè vi sia un effettivo accumulo nell’intero anno. La neve si accumula nel tempo al di sopra di una quota detta “limite delle nevi permanenti”; questo limite, sulle Alpi, varia tra i 3.100 m della Valle d’Aosta, dove le precipitazioni sono più scarse, e i 2.500 m del Friuli, dove invece sono più abbondanti.

I fiocchi di neve soffici e leggerissimi (densità 0,19 g/cm3) col tempo si compattano sotto l’azione combinata del proprio peso e del processo di metamorfismo dei cristalli di ghiaccio, la quale porta a espellere l’aria contenuta negli interstizi e a formare aggregati più densi: prima la neve granulare (0,30 g/cm3) e poi, dopo una estate, il “firn” (0,50 g/cm3). La completa trasformazione in ghiaccio (0,90 g/cm3) è un processo ancora più lento che può richiedere anche più di 100 anni e avviene per compattazione della neve sotto accumuli di decine di metri di spessore. Occorrono comunque in media cinque anni perché, sotto un accumulo di neve spesso una ventina di metri, si formi ghiaccio

Visto Da Est

Adesso è necessario spiegare il significato di “firn” che è neve trasformata e granulare, quantomeno dell’anno precedente; spesso definita semplicemente “neve vecchia”; può evolvere in ghiaccio se la densità aumenta. Mi scuso con i veri esperti per avere qui di seguito scritto delle informazioni sicuramente approssimative, magari inesatte e per avere eccessivamente semplificato, ma mi pareva necessario non usare un linguaggio troppo tecnico.

Sergio Cecchi
Sergio Cecchi

Bene, adesso che abbiamo ricapitolato i fondamentali, andiamo avanti: un ghiacciaio si può dividere in bacino collettore, che è la parte superiore, e area di ablazione, che alle nostre latitudini è la parte allungata che si può chiamare anche lingua glaciale. La parte proprio finale della “lingua” prende il nome di fronte del ghiacciaio e spesso produce, con la fusione delle acque, un torrente oppure un lago. Fra il bacino e l’area di ablazione si può immaginare una linea di equilibrio, infatti la parte superiore è di accumulo e la parte inferiore è di riduzione per fusione e evaporazione.

Classificazioni
Scusate se sarò noioso, ma insisto con le definizioni … si possono distinguere due principali tipi di ghiacciaio; uno sono le calotte glaciali, l’altro sono i ghiacciai montani o locali. Tralasciando le prime, questi secondi a loro volta si possono distinguere così:
* alpini, formati da un unico bacino collettore e una lingua glaciale
* pirenaici, di forma approssimativamente circolare senza una lingua glaciale evidente
* andini, tipo i precedenti ma con maggiore estensione e spessore
* scandinavi, con un solo bacino da cui defluiscono due o più lingue glaciali sugli opposti versanti della montagna
* himalayani, il contrario dei precedenti, cioè lingue glaciali provenienti da due o più bacini collettori che poi convergono in una sola lingua
* alaskani, simili ai precedenti ma lingue glaciali parallele e separate per buona parte del percorso prima di unirsi
* patagonici, che arrivano fino al livello dell’oceano
* equatoriali, presenti solo sulle cime, come sul Kilimangiaro.
Un’altra importante distinzione è fra ghiacciaio classico, nero, nevato, ecc. ma ci torneremo dopo. Le caratteristiche geomorfologiche dei ghiacciai sono dovute principalmente al loro scorrimento verso valle: la forza di gravità causa la spinta verso il basso e l’attrito sulle rocce vi si oppone. Diciamo che tutto il ghiacciaio si muove verso valle, ma se fondamentalmente è l’intera massa glaciale che scorre verso il basso, ogni singolo punto si può spostare a velocità diverse; questa differenza è dovuta a vari fattori.

Ghiacciaio del Miage (Agosto 2011)
Ghiacciaio del Miage (Agosto 2011)

Il ghiaccio in generale si può comportare in due maniere diverse: agisce come un solido fragile se il suo spessore non raggiunge i 50 metri (ripeto: 50 metri!) al di sopra di questa misura e specialmente se le pendenze sono considerevoli, si muove come un fluido di viscosità elevata. Il ghiaccio è costituito da strati sovrapposti, con legami non molto forti fra di loro e, quando la forza peso esercitata dallo strato superiore supera la forza di connessione fra un livello e l’altro, lo strato inferiore va più lentamente; questo si ripete in misura maggiore rispetto alla profondità. Si generano così fenditure o spacchi dette crepacci, seracchi (che invece sono dei blocchi di ghiaccio che si formano fra due o più crepacci) e depositi di materiale detti morene, cioè delle colline allungate costituite da detriti trasportati dai ghiacciai; con questo termine si intende di solito (ma sarebbe sbagliato) anche il materiale roccioso che viene trasportato all’interno o sopra un ghiacciaio …
Continuo a essere pedante e vado avanti.

Un altro tipo di movimento, tipico dei ghiacciai dei climi temperati, è lo slittamento basale, in cui è l’intero ghiacciaio che si sposta sopra il terreno; si ha fusione del ghiaccio causata dalla pressione del peso sovrastante, alla base si forma uno strato di acqua su cui scorre l’intera massa. Se lo spessore del ghiaccio aumenta, di conseguenza cresce la pressione e la temperatura a contatto e anche la fusione basale; lo spessore si misura in due modi, uno diretto attraverso perforazioni, ma con elevati costi, e l’altro indiretto attraverso onde elettromagnetiche. Il moto di scivolamento e l’azione di attrito sul substrato roccioso sono causa di erosione, che si definisce “esarazione” e tende a scavare le valli e a formare accumuli di detriti e spostamento di massi.

Il ritiro dei ghiacciai
Non è un segreto il fenomeno di ritiro dei ghiacciai specialmente alle nostre latitudini, con l’allarme che ci sarebbe addirittura il rischio di estinzione. L’aumento della temperatura globale fa salire infatti la quota delle nevi perenni e determina una più rapida fusione del manto nevoso; quelli più a rischio sono i ghiacciai piccoli, soprattutto nelle catene montuose non molto elevate oppure a latitudini medie, e questo appare evidente rispetto ai ghiacciai scandinavi, o polari o himalayani che invece soffrono meno.

L’arretramento è stato più volte rilevato, unitamente a una forte diminuzione del loro spessore, a partire da un primo ritiro dei ghiacciai negli anni successivi al 1860. Proprio per questa sensibilità ai cambiamenti climatici, i ghiacciai spesso sono considerati dai climatologi una specie di “barometro della qualità” per quanto riguarda la temperatura media della Terra. In particolare, i ghiacciai delle medie latitudini sono particolarmente sensibili alle ondate di calore durante la stagione estiva pur in presenza di una media termica che, nel lungo periodo, potrebbe non essere fuori dalla norma. Mi spiego meglio: se all’ondata di calore segue un periodo freddo, la media dell’estate si ripristina, ma non tornano precipitazioni nevose (essendo estate) e la neve che si è liquefatta ormai è perduta; l’accumulo dell’anno è compromesso. Sono stati eseguiti degli esperimenti, specialmente da parte degli svizzeri, per ridurre il processo di fusione nei mesi estivi, attraverso opere di geo-ingegneria come rivestimento con dei teli bianchi; queste coperture hanno funzionato e sono state usate anche in Italia, per esempio al Presena per motivi legati allo sci.

Evoluzione Forni 1

Il termine “piccola era glaciale” indica una fase di avanzata glaciale e, in senso lato, di raffreddamento climatico, che ha fatto seguito al periodo caldo medievale. Dal 1300 le temperature medie iniziano a scendere, il ghiaccio polare si espande e, per fare un esempio, diventa impossibile il viaggio per mare dei vichinghi verso la Groenlandia. Tutte le principali catene montuose, fra cui le Alpi, evidenziamo l’avanzata dei ghiacciai. Il punto culminante della “piccola era glaciale” è posto intorno al 1820, la sua fine verso il 1860. Nel complesso, a metà del 19° secolo i ghiacciai occupavano una superficie del 45% superiore a quella di oggi, avevano una massa doppia e scendevano fino a quote più basse di circa 100 metri rispetto all’attualità. Le grandi morene che caratterizzano le testate delle nostre valli alpine sono la documentazione reale di questa fase di avanzata; per esempio, la città di Ivrea, allo sbocco in pianura della Dora Baltea, si trova circondata da un anfiteatro morenico grandioso. In sinistra del fiume è visibile una morena lunga quasi venti chilometri e alta da 600 a 200 metri, con boschi e paesi; la morena di destra, invece, è più articolata e meno appariscente. Anche il lago Viverone è una conseguenza del ritiro del ghiacciaio. Sono stati effettuati diversi studi per analizzare gli apparati glaciali in rapporto alle alterne vicende climatico-ambientali del secolo ventesimo, in altre parole verificare l’entità della “risposta” dei ghiacciai ai cambiamenti del clima. Riporto in bibliografia una tesi di laurea in scienze naturali in cui sono stati studiati in particolare i ghiacciai del gruppo Ortles-Cevedale, ma qui abbiamo la presunzione (sicuramente sbagliata) di estendere le risultanze di questo studio alla situazione generale delle nostre Alpi. Sono state ricostruite le variazioni della lunghezza in relazioni ai periodi climatici, a partire da dati pubblicati su riviste scientifiche già dagli anni ’30.

Come sappiamo, i dati climatici riferiscono di un periodo temperato dal 1924 al 1963; è seguito un periodo che è stato definito “episodio freddo”, dal 1963 al 1989, e poi di nuovo, dopo la fine degli anni ’80, un innalzamento delle temperature medie, che è tuttora in corso. Per avere dati scientifici da confrontare, sono stati presi i dati di precipitazioni e temperature e le coordinate del ghiacciaio; sono stati presi in considerazione i dati di 8 stazioni meteo e inoltre, essendo la carta del ghiacciaio dei Forni un po’ datata, l’autore della tesi ha fatto un rilevamento ex-novo anche utilizzando l’ausilio del GPS.
Sono state eseguite le correlazioni fra i dati climatici e le variazioni del fronte del ghiacciaio e da questi risultati sono stati individuati i tempi di risposta, cioè il periodo che intercorre fra la causa (variazione di temperatura e di precipitazioni) e l’effetto (avanzata o ritiro del fronte) dei vari ghiacciai considerati.

Nel dettaglio, nel periodo 1963-1989 si è avuta una diminuzione della temperatura media annua di quasi un grado (esattamente 0.9° C) che può aver determinato le condizioni favorevoli a una piccola avanzata glaciale, che è stata quantificata in un totale di quasi 300 metri, con una media di 24 metri all’anno. Attenzione, si sta parlando solo di “episodio freddo”, e non di piccola era glaciale, ma a noi anche una media annuale di 24 metri sembra già un ragguardevole allungamento, invece gli esperti lo considerano una piccola cosa. Questa avanzata ha avuto luogo con un ritardo di qualche anno rispetto all’inizio dell’episodio freddo; questo ritardo è da attribuire all’inerzia dell’apparato glaciale, cioè al tempo di risposta proprio di ciascun ghiacciaio. Con la fine degli anni ’80 il clima ha visto un netto aumento delle temperature medie, in particolare è salita la media estiva; quindi, a questo ultimo periodo di limitato avanzamento dei ghiacciai in Italia fra il 1970 e il 1985, è seguito esclusivamente arretramento e in forme anche molto evidenti. Il ghiacciaio della Fradusta, nelle Pale di San Martino, dall’estate del 2003 è diviso in due parti e la metà inferiore non è più alimentata; quanto durerà ?
La regione alpina ha oltre cinquemila ghiacciai, che nel 1970 coprivano una superficie di totale di 2.900 km2, di cui 600 in Italia; i 7 maggiori delle Alpi sono: i due Aletsch, il Gorner, il Fiescher, l’Unteraar, il Grindelwald (tutti in Svizzera) e la Mèr de Glace (Francia). uest’ultimo lo conosciamo, lo abbiamo percorso con gli sci all’inizio del 2014.

L’azione morfologica
I ghiacciai, con il loro lentissimo movimento, sono agenti di modellamento della superficie terrestre, seppure in una zona di limitata estensione. Si è detto che il ghiaccio, se è di uno spessore considerevole, si muove come una cosa semiliquida; ma rispetto alle correnti fluviali, le modalità sono ben diverse a causa della viscosità elevata. In particolare la massa glaciale può superare lievi contropendenze, cioè anche risalire contro la forza di gravità. Altre caratteristiche del movimento:

1. non esiste un livello di base, vale a dire che i grandi ghiacciai sono in grado di scavare il substrato anche scendendo al di sotto del livello del mare e questa azione è impossibile per un fiume;
2. si può verificare una divisione in due rami divergenti a fronte di ostacoli e anche questo un fiume non lo può fare; per portare un esempio basta guardare la carta geografica: i due rami del lago di Como sono il risultato della divisione del grande ghiacciaio che, in tempi preistorici, scendeva dalla Valtellina;
3. c’è un comportamento da “nastro trasportatore” nei confronti del materiale divelto, che è portato a valle (incorporato nel ghiaccio o poggiato sopra) senza rotolare né urtare. Fanno eccezione le pietre che, essendo alla periferia del ghiaccio, sfregano sulla roccia incassante.

Ghiacciaio di Forni
Ghiacciaio dei Forni

Il ghiacciaio in movimento esercita un’intensa azione erosiva che, ripeto, prende il nome di esarazione e che si svolge in due modi diversi; la prima è l’abrasione, dovuta ai frammenti che si trovano incassati nella massa glaciale e che entrano in contatto con il substrato sul quale si muove il ghiacciaio stesso. L’altro è lo sradicamento che, come dice il termine stesso, consiste nella rimozione di interi blocchi che sono “estirpati” dal substrato dalla spinta della massa. In alto, il circo glaciale ha la forma di una conca, circondata in genere su tre lati da creste e con una “soglia” che la raccorda con il resto della valle glaciale; a volte, la soglia è in contropendenza, quindi il ghiacciaio in questo punto sale di quota per poi riprendere la discesa. All’estremità opposta alla soglia, frequentemente compare la “crepaccia terminale”, una fenditura che delimita il ghiacciaio a monte, lungo la linea che separa il ghiaccio “fermo” da quello che defluisce. La valle glaciale, ripeto un concetto che sappiamo fin dalle elementari, presenta un tipico profilo trasversale a forma di “U”, con fondo largo e piatto e fianchi più ripidi, contrariamente a quanto avviene per il fiume, che invece porta a un’erosione della valle con un profilo trasversale a forma di “V”, dovuto a tante piccole frane successive. Le cosiddette “rocce montonate” sono dossi rocciosi allungati e arrotondati, che sono stati modellati dall’erosione del ghiaccio; sono evidenti dei solchi paralleli nella direzione in cui è avvenuto il movimento.

Finora si è parlato delle modalità di erosione da parte dei ghiacciai, ma è arrivato il momento di affrontare le forme di deposito, che sono essenzialmente di due soli tipi: le morene e i massi erratici. Questi ultimi sono, molto semplicemente, enormi blocchi di roccia trasportati a valle dal ghiacciaio e, dopo il ritiro, rimasti abbandonati nella posizione raggiunta in precedenza.
Per le morene, bisogna approfondire un po’; si tratta di depositi formati da materiale di diverso diametro, derivanti da processi di esarazione o da crolli dai versanti, ammassati in modo caotico. A seconda della posizione, è possibile distinguere vari tipi:

1) morena frontale, che è il risultato della confluenza di tutti i detriti che sono stati trasportati alla fine del ghiacciaio e che assume in genere una forma ad arco concavo; l’unica che si può definire propriamente morena, per le altre adotteremo il termine di “morene in movimento” …
2) morena di fondo, che occupa l’interfaccia fra il ghiacciaio e la roccia sottostante;
3) morena intermedia, che è costituita da materiali che sono stati inglobati nello spessore stesso del ghiacciaio;
4) morena laterale, che appare come un doppio nastro sui bordi della lingua glaciale, a contatto con i versanti che la riforniscono (attraverso crolli e frane) di materiale;
5) morena mediana, che si può originare in seguito all’unione di due lingue glaciali con le rispettive morene laterali.

I ghiacciai vallivi, dopo aver raggiunto nell’era quaternaria il loro massimo sviluppo, iniziarono il processo di ritiro (alternando periodi di arretramento veloce e fasi stazionarie) abbandonando sul terreno le morene che avevano trasportato e questo processo ha generato gli anfiteatri morenici che sono dei depositi formati da una serie di “cordoni”; fra i maggiori, in Italia, citiamo le alture che si trovano immediatamente a sud dei grandi laghi come il Garda (colline di Solferino) e il Maggiore, inoltre la pianura di Ivrea come già detto sopra.

Il ghiacciaio del Miage
Adesso si vuole affrontare la descrizione del più grande dei ghiacciai “coperti” delle nostre Alpi e delle sue caratteristiche più peculiari. I “ghiacciai neri” o “debris-covered glacier” sono apparati il cui settore medio-inferiore è quasi completamente ricoperto da detrito, il quale deriva dai crolli da parte delle pareti intorno al bacino collettore e che è trasportato a valle dal flusso del ghiacciaio. Sono apparati diffusissimi sulle catene montuose asiatiche (Karakorum e Himalaya in particolare), dove le loro lingue detritiche si allungano per decine di chilometri (Baltoro, Khumbu). Sul versante italiano delle Alpi si tratta di una tipologia piuttosto rara (Miage, Brenva, Belvedere), ma in aumento a causa dell’incremento in corso delle superfici ricoperte di morenico.

C’è un altro ghiacciaio detto del Miage, secondario direi, che scende verso la Francia. Il ghiacciaio del Miage propriamente detto, sappiamo che si trova nel versante sud del Bianco e che è ben visibile dalla zona sciistica di Courmayeur; è lungo oltre 10 chilometri e ha una superficie di circa 1100 ettari; nasce come proseguimento del ghiacciaio di Bionnassay e lungo il suo percorso riceve, sulla sua sinistra come affluenti, il ghiacciaio del Dome e quello del Bianco. Ha un affluente anche sulla sua destra; infine, anche il ghiacciaio di Brouillard termina sopra il fronte del Miage, anche se adesso non si toccano più a causa del ritiro.
In basso, la parte terminale si divide in tre lingue distinte che scendono fino al fondovalle della Val Veny; a parer mio si potrebbe dire due lingue, perché quella centrale è veramente piccoletta.

Ghiacciaio del Miage
Ghiacciaio del Miage

La parte alta è solcata da crepacci e seraccate, la parte
inferiore è completamente coperta di detriti e per questo si definisce come ghiacciaio nero. Infatti, quasi 500 ettari della lingua di ablazione, da quota 2400 fino ai 1800 del fronte glaciale, sono completamente rivestiti di detrito roccioso per uno spessore che va da alcuni centimetri fino a oltre un metro; questa copertura si forma in seguito ai continui fenomeni di crioclastismo, cioè crolli delle rocce che “incassano” la valle glaciale, a loro volta dovuti a processi di degradazione fisica quali l’alternanza termica. Il ghiacciaio del Miage è caratterizzato da due fatti particolari, il primo è la grande variabilità della fusione del ghiaccio, l’altro è la sorprendente crescita di vegetazione sopra il ghiaccio stesso. Il detrito roccioso dei “ghiacciai neri”, proprio in conseguenza del fatto di essere di colore scuro, ha una capacità di assorbimento della radiazione solare molto maggiore del bianco; se la copertura non supera uno spessore cosiddetto “critico”, la fusione avviene molto più rapidamente, al contrario, un elevato spessore dei detriti può limitare l’intensità dell’ablazione e la sua velocità. Questo avviene principalmente perché, al di sopra di uno spessore critico, il detrito assorbe gran parte della radiazione solare e provoca un rallentamento della fusione; viceversa, al di sotto di questo valore le pietre si scaldano al sole e questo può innalzare la temperatura superficiale e accelerare la fusione del ghiaccio. Lo spessore critico del detrito è diverso per ciascuno dei ghiacciai neri e dipende da diversi fattori: litologia, porosità e granulometria; nel nostro caso, si può ragionare di uno spessore intorno ai 25-30 centimetri e si può concludere che, essendo lo spessore più elevato, nella maggior parte della superficie del Miage si ha una riduzione della fusione e un rallentamento della discesa verso valle.

Questa copertura ha come seconda conseguenza il fatto che, sul detrito stesso, possa prendere piede una vegetazione che i naturalisti chiamano “pioniera”, specialmente se la copertura detritica si stabilizza nel tempo. Si può avere così, nel corso dei decenni, la crescita di una “foresta sul ghiacciaio” che si definisce più propriamente “vegetazione epiglaciale”.

La foresta sul ghiacciaio
In Italia, il ghiacciaio del Miage è l’unico a possedere una copertura arborea ben sviluppata e continua, sulle lingue glaciali in cui si è diviso nella parte terminale; come si può vedere dalle foto, è una copertura piuttosto rarefatta in confronto al bosco che cresce sul terreno propriamente detto. La copertura del Miage è formata da diverse piante, sia erbacee che legnose; in particolare, le specie arboree più diffuse e che crescono meglio sono il larice e alcune specie di salici di montagna. Le radici del larice scendono a grande profondità nel terreno; si riconosce facilmente perché, in Europa, è l’unica conifera che in autunno perde gli aghi.

Che cosa vuol dire vegetazione pioniera: semplicemente che cresce su terreni poveri che contribuisce ad arricchire; pertanto può “colonizzare” un terreno vergine, qual è una frana o, come nel nostro caso, una morena. I primi vegetali a svilupparsi sulle pietraie sono, ovviamente, piante erbacee come la sassifraga “saxifraga aizoides”, dai piccoli fiori gialli, oppure la “linaria alpina”, dalla fioritura viola. Il larice trova in questi terreni le condizioni sufficienti per germogliare, in quanto pianta “eliofila” e quindi amante della luce, a differenza di molte altre conifere quali ad esempio l’abete bianco. In tali condizioni, il larice non ha concorrenti e riesce a colonizzare il terreno sassoso; si vedono spesso strette file di larici che scendono lungo tratti detritici o dirupati, intercalati agli abeti, fino a quote relativamente basse. Si può immaginare, senza paura di andare troppo lontano dal vero, che il bosco circostante abbia disseminato, e continui a farlo, le pietraie superficiali del Miage.

La vita di questi alberi è legata soprattutto all’evoluzione del ghiacciaio; infatti, il movimento glaciale verso valle è ininterrotto e succede che gli alberi esistenti sopra la copertura siano lentamente trasportati fino al “fronte” e a questo punto cadono nell’area anteriore al ghiacciaio stesso formando una specie di cimitero delle piante.
La copertura detritica del Miage ha una morfologia accidentata e complessa, in continua evoluzione, che influisce in modo determinante sulla crescita dei singoli alberi.

Sui ghiacciai neri si formano spesso delle pareti quasi verticali di ghiaccio esposto che interrompono la continuità della copertura detritica; è in questi punti che si concentra il sole e quindi l’attività di ablazione superficiale; di conseguenza, tali “falesie” hanno uno spostamento verso monte che coinvolge gli alberi, i quali scivolano inesorabilmente alla loro base; il caso limite che è stato verificato sul Miage era un arretramento di dimensioni molto grandi che ha portato la morte di circa 70 larici durante la sola estate del 2006. Bisogna aggiungere che, sì, è vero che si sta parlando di una rada copertura, però sono stati misurati anche larici alti oltre 30 metri. Sono stati studiati i larici nel loro accrescimento, è stata studiata la loro distribuzione, che è fortemente influenzata dall’evoluzione della morfologia superficiale; anche la posizione sul ghiacciaio stesso ha un ruolo importante, in quanto è evidente che le zone più interne, più lontane dai boschi perimetrali, sono anche le meno colonizzate.

Ghiacciaio del Miage (gennaio 2014)
Ghiacciaio del Miage (gennaio 2013)

Nel secondo studio citato in bibliografia, alcuni di questi alberi sono stati esaminati per determinarne l’età; il larice più vecchio fra quelli analizzati germinò nel 1943 e si trovava, nel 2006, al fronte del ghiacciaio; il mio parere è che si può supporre, con un certo margine di tranquillità, che è difficile trovare piante di età superiore ai 65 anni. Una seconda analisi è stata di seguire lo spostamento di questi alberi cresciuti sopra il detrito del Miage e la distanza massima rilevata è stata di 700 metri, ovvero un albero è morto in un punto del ghiacciaio che si trova 700 metri più a valle di dove era nato. Esiste inoltre una correlazione inversa fra la velocità del ghiacciaio e l’età massima raggiunta dai larici: l’anzianità, evidentemente, diminuisce all’aumentare del movimento della massa glaciale.
Spesso succede che uno o più alberi prendono una posizione inclinata; negli anni successivi, la pianta tende a recuperare la posizione verticale, producendo legno di reazione. Il movimento del substrato può provocare anche il seppellimento parziale del fusto oppure, viceversa, una forzata esposizione delle radici; le piante possono subire violenti urti meccanici che provocano la formazione di cicatrici, a volte la perdita della cima, infine in casi estremi la morte. Tutti questi processi avvengono continuamente e i fenomeni di reazione avvengono molto rapidamente, nel giro di uno o due anni.
Gli alberi epiglaciali reagiscono ai movimenti del substrato assumendo forme tipiche, contorte oppure a candelabro e così via; l’accrescimento che si registra nelle serie degli anelli delle piante varia in relazione ai cambiamenti della massa detritica. Nella tesi già citata, è stata fatta una comparazione fra i movimenti del substrato (ci sono degli studi della dinamica del Miage) e l’analisi dei campioni degli alberi del ghiacciaio; è stato tenuto conto, per “ripulire” il confronto, di una cronologia degli aventi climatici della Val Veny negli anni fino al 2005. Per fare due esempi, dal 1982 è iniziato un periodo di riscaldamento che ha portato a maggiore crescita degli alberi, viceversa in alcune annate ci sono stati degli attacchi dei lepidotteri parassiti che hanno portato a una sofferenza nei larici. Lo studio ha portato a identificare e datare le anomalie di crescita dovute a movimenti del substrato: gli anni in cui gli alberi hanno sviluppato delle forme perturbate e prodotto legno di reazione (esattamente il 1988, 1990, 1993, 1994, 1997, 1998 e 2001) corrispondono agli anni in cui si sono verificati profondi cambiamenti nella morfologia del ghiacciaio.

Ecco dimostrato lo scopo della tesi di questo dottore in
scienze naturali, cioè l’influenza della dinamica glaciale sull’accrescimento degli alberi.

Bibliografia
Tesi di laurea in scienze naturali di Davide Andrea Ieluzzi “Variazioni frontali e correlazioni climatiche dei ghiacciai del gruppo dell’Ortles-Cevedale negli ultimi trenta anni: un esempio di relazioni tra dinamica glaciale recente e clima”, anno 1998, con il prof. Claudio Smiraglia.
Tesi di laurea in scienze naturali di Daniele Brioschi “Evoluzione recente dei lobi frontali del ghiacciaio del Miage. Influenza sulla vegetazione arborea epiglaciale e uso del larice per indagini dendroglaciologiche”, anno 2007, con la prof. Manuela Pelfini.

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