“Una montagna di Guide – Parte I” di Giorgio Fantechi

Annuario 2008

Ricorrono quest’anno i cento anni dalla pubblicazione del primo volume della collana “Guida Monti d’Italia” che il nostro sodalizio pubblica, seppur con alterne vicende, ininterrottamente dal 1908.
Alzi la mano chi di voi, alpinista o semplice appassionato delle nostre montagne, non si è mai ritrovato tra le mani un volumetto che trattava, con minuziosa precisione corredato di foto e soprattutto di schizzi, la montagna dei suoi sogni. Questi volumi, prima di formato diverso l’uno dall’altro e solo successivamente al 1934 (seconda serie) con una veste editoriale più omogenea, sono tuttora fedeli compagni delle nostre gite, riposti nello zaino e sfogliati magari sotto la flebile luce di un rifugio in attesa della mattutina partenza.
Era il 20 dicembre del 1906 quando l’assemblea dei delegati del CAI, su proposta dei senatori Enrico d’Ovidio e Pippo Vigoni, deliberava l’ambizioso progetto di una collana che descrivesse in maniera sistematica e puntuale tutta l’orografia del nostro paese. Del resto lo statuto, da quello originario fino a quello attuale, recita che lo scopo del Club Alpino è quello di far conoscere le montagne, in special modo quelle italiane.
Per il nome da dare alla collana, rimasto del resto immutato fino ai nostri giorni, venne scomodato nientemeno che Edmondo de Amicis che, interpellato da Giovanni Bobba, lo preferì a “Guida delle montagne Italiane”  e “Guida delle Alpi Italiane” ; quest’ultimo, avrebbe del resto relegato gli Appennini ad un ruolo troppo marginale. Un’attenta riflessione sul significato dei termini “monte” e “montagna” fatta dallo  stesso Bobba, fu pubblicata sulla Rivista Mensile del 1908 pag. 221. Fu deciso inoltre di affidare la responsabilità delle pubblicazioni dei volumi alle singole sezioni motivo per cui, i seguenti, si presenteranno poi in maniera totalmente diversa l’uno dall’altro.
Il frutto del lavoro del Bobba, ALPI MARITTIME, primo volume della nuova collana, venne distribuito ai soci  nel mese di aprile del 1908. La pubblicazione, a cura della sezione di Torino sotto gli auspici della  Sede Centrale, fu edita dalla stamperia reale G.B. Paravia e Comp. Un volumetto in brossura blu di 416 pagine in “papier veline” con una carta topografica nella scala 1:400000, otto carte schematiche, tre panorami e numerose vedute intercalate nel testo, rappresentanti la regione descritta e gli itinerari d’accesso. Scrive l’autore nella prefazione “ Con questo libro il Club Alpino Italiano inizia la stampa d’una Guida dei Monti d’Italia, valendosi della terza edizione, per intero rifatta e di molto aumentata, che la Sezione di Torino fa di quella parte della sua Guida delle Alpi Occidentali che tratta delle Marittime; alpi ricche come forse non altre di ridenti valli, di ardite vette, di ampii laghi e di panorami immensi che dal mare e dal litorale ligure   vanno alla pianura padana e alle Graie e alle Pennine(……)”.  In  effetti Il Bobba riprendeva ed aggiornava la Guida delle Alpi Occidentali, da lui stesso compilata assieme a Luigi Vaccarone, in tre volumi, fra il 1889 e 1896. Qualche curiosità su questo illustre antenato? Parlando a pag 354 del Gran Sometta (modesta vetta della Valle Tournanche m. 3167) si riporta:  “(…..)Quest’ ascensione è raccomandabile anche alle Signore, oltre per la sua facilità, per l’interessantissimo panorama, ammirandovisi i bacini superiori delle valli Tournanche e d’Ayaz, a cui fan corona le bellissime punte di Cian, del Chateau des Dames, la Dent d’Herens, il Cervino, il Teodulo, il Breithorn, il ghiacciaio della Ventina, ecc…(….)”. Interessante, per chi ha la fortuna di possedere i volumi, anche la lettura delle vie di salita alla Gran Becca, la cui vetta era stata violata solo pochi decenni addietro, e che al tempo dominava imponente gli allegri   pascoli del Giomein e non lo scempio turistico dell’attuale Cervinia.
Ma torniamo ai primi del ‘900: c’è da dire che l’assemblea dei delegati del dicembre 1906, aveva altresì deliberato che la pubblicazione delle guide illustrate tascabili descriventi una regione montana d’Italia sarebbe andata alternandosi alla pubblicazione del Bollettino, che sarebbe diventata biennale. Successivamente, la sede centrale, affidava alla sezione di Milano il compito di compilare i volumi della collana relativi alla zona delle Alpi Centrali. La sezione affidò l’incarico a Democrito Prina che di li a poco dovette abbandonare per motivi familiari. La sua opera di coordinamento fu proseguita da Luigi Brasca, che assieme ad altri componenti del GLASG (Gruppo Lombardo Alpinisti Senza Guide) dette avvio alla stesura del lavoro.
Ecco che, nel 1911, usciva per cura della sezione di Milano, ALPI RETICHE OCCIDENTALI. Il volume, che descrive l’ampia zona che va dal Passo del S.Bernardino al Passo del Bernina, è diviso in quattro parti:Parte I:   Regione Spluga Bregaglia, curata da Luigi BrascaParte II:  Regione Codera-Ratti, curata da Guido SilvestriParte III: Regione Albigna-Disgrazia, curata da Romano BalabioParte IV: Regione Bernina, curata da Alfredo Corti
E’ un bel volume in copertina verde, con fregi in oro (titolo e stemma del C.A.I.) che racchiude 550 pagine con 155 illustrazioni (anche più volte ripiegate) e 9 cartine a colori. Edito dallo stabilimento tipografico Luzzago di Brescia, fu venduto ai soci per L.5 (L.3 per i soci della sezione di Milano). Il libro, si sviluppa appunto secondo il concetto dei senza guida cosi caro agli stessi autori: nella prefazione lo stesso Brasca precisa che “una guida alpinistica moderna “(…) deve fin dove possibile, bastare colle sue indicazioni, alle esigenze di un alpinista senza guide”.
Le novità rispetto alle guide tradizionali consistevano, oltre alla sopradescritta separazione fra autori delle ampie zone da descrivere, alla divisione per gruppi e non per vallate, alla presenza di carte originali a più colori con diversi segni convenzionali, ma soprattutto alla presenza di numerose illustrazioni. Ne uscì un lavoro molto dettagliato, destinato soprattutto agli alpinisti, ed a chi muoveva a Brasca la critica di aver tralasciato notizie di carattere geologico e turistiche in genere, egli rispose che le molte righe che per questo sarebbero state necessarie, erano degnamente sostituite dalle molte illustrazioni. Altra novità introdotta, fu la classificazione delle difficoltà, tema al tempo oggetto di vivaci discussioni; per l’occasione, ad ogni itinerario (monte o passo), fu assegnata una delle tre grandi categorie:1) ascensioni alla portata di chiunque (facile)2) ascensioni riservate a buoni alpinisti (alquanto difficile)3) ascensioni riservate ad alpinisti provetti (difficile). Ad ognuna di esse fu attribuito un corrispondente segno convenzionale riportato poi sui singoli itinerari, e nel dubbio si scelse prudentemente la classificazione più grave. Una delle vette più celebri descritte nel volume è senza dubbio il Pizzo Badile, spartiacque fra la Valtellina e la Val Bregaglia, la cui parete NORD EST non conosceva ancora le vie più celebri, prima fra tutte la storica Cassin, aperta nel 1937 dalle cordate Cassin Ratti Esposito e Molteni Valsecchi, la cui discesa, poi, fece scrivere una delle pagine più tragiche della storia alpinistica dell’ultimo secolo. Ovviamente, tale parete, nella guida non è menzionata, se non per evidenziarne la sua verginità alpinistica e la sua altezza di “circa 700 m” . A proposito del Badile, a pag. 232 si dice: “Imponente e severo massiccio a forma di tronco di piramide quadrangolare, dalle pareti verticali e lisce, culminante in una lunga cresta – Ascensione splendida, interessantissima, non banale; frequentata più che pel panorama, (quasi identico a quello del Cengalo), pel puro godimento dell’arrampicata – E’ meritatamente la cima più celebre della Val Masino. – Piccozza e corda necessarie”. Come vie di salita, vengono descritte invece, quella dello spigolo S (Via Baroni), per la parete O (Via Sertori), per la cresta O (Via KlucKer), e per la cresta Est, considerata l’accesso più facile.
Prima di arrivare ai tragici eventi del primo conflitto Mondiale, era il 1913, il Club Alpino Italiano, aveva pubblicato, con la cura del consiglio direttivo, il volume “L’opera del Club Alpino Italiano nel primo suo  cinquantennio” , edito dalle officine grafiche della S.T.E.N. Il volume, in grande formato (cm.23x 33) con tiratura di 8550 copie, venne distribuito gratuitamente ai soci e costò in tutto la bellezza di 21.561,81 Lire. Il libro, di 280 pagine e corredato di 225 fotoincisioni, riscosse ampie lodi anche su numerose recensioni straniere e fu presentato al castello del Valentino durante la storica seduta del XLII congresso, per celebrare degnamente i primi 50 anni di vita del Club Alpino. Lo scoppio della guerra causò, oltre ad un numero elevato di soci caduti, anche notevoli cambiamenti dal punto di vista della stampa sociale.
Nel 1916 il consiglio direttivo decise la sostituzione dell’allora Comitato delle pubblicazioni, con una Commissione per la Rivista, rimasta del resto l’unico organo ufficiale del club. La stessa passò da dodici a nove numeri annuali e successivamente, in seguito al D.L. del 1917 limitante il consumo di carta per riviste e giornali, divenne pubblicazione trimestrale. La stessa “Commissione per la rivista”, causa le reali difficoltà dovute alla guerra, fu sostituita, nel 1918,  da un “Commissario unico per la Rivista Mensile” nella  persona dell’ Avv. Giovanni Bobba.
Per quanto riguarda la “Guida dei Monti d’Italia” il terzo volume (secondo della serie Alpi Centrali) già pronto nel 1915, non potè essere distribuito ai soci, poiché il Comando Supremo dell’Esercito lo classificò “Riservato” impedendone, di fatto, la distribuzione, descrivendo questo zone di intense operazioni militari. Fu così che nel 1919 uscì REGIONE DELL’ORTLER, a cura della tipo-litografia Ripalta di Milano. Ne era autore il conte ing. Aldo Bonacossa che, oltre che profondo conoscitore di queste montagne, aveva in cuor suo anche la speranza che un giorno queste fossero restituite all’Italia. Sul frontespizio, esso riporta la data 1915, e la firma anche di Luigi Brasca, direttore appunto della pubblicazione per la zona delle Alpi Centrali. Il volume, nella stessa veste editoriale del precedente Alpi Retiche Occidentali, consta di 482 pagine, 31 illustrazioni e 9 cartine. Rispetto al precedente, inoltre, ha il non trascurabile vantaggio di essere stato compilato da una sola mano, Aldo Bonacossa, e non da un insieme di autori seppur sotto un’unica direzione. Nella prefazione, non molto lunga in verità poiché molte questioni (difficoltà, tipo di trattazione) erano già trattate nel precedente, Luigi Brasca scrive: “Quando usci il primo volume da me diretto (Alpi Retiche Occidentali) mi attendevo critiche forti, perché ci eravamo discostati troppo dalle vie comuni! E le critiche forti vennero(…)”.
I giudizi furono infatti contrastanti: chi lo considerava un volume alpinistico, chi considerava eccessive le notizie non alpinistiche, chi apprezzò le cartine e chi infine le trovò inutili. Ma gli appunti più forti furono per la mole ed il peso del volume e per le questioni toponomastiche che, come vedremo anche in seguito, saranno al centro di annosi dibattiti e vicende.
Continua Brasca nella prefazione: ” (…) Valgano comunque queste discussioni a persuadere i dubbiosi della enorme importanza che ha pel C.A.I. la Guida dei Monti d’Italia, la quale è l’opera che meglio di ogni altra varrà ad affermare l’importanza del Club Alpino Italiano, l’unica istituzione che possa studiare e far conoscere seriamente  la più bella parte d’Italia(…). Ma un lamento nuovo e più forte si muoverà per aver adottato nomi non italiani in una regione italiana. Colpa del calendario, risponderò. – La Guida è per i soci dell’anno 1914. – e in quell’anno imperavano nella letteratura alpinistica e nel linguaggio parlato delle vallate della regione proprio i nomi Ortler, Königsspitze, Hochjoch, Eissee, ecc; ed anche il Club Alpino Italiano, per «usare le dizioni foneticamente e graficamente meglio accertate nell’epoca di pubblicazione della Guida », non può per difendere la nazionalità, offendere la razionalità (che comprende in se la nazionalità, ben’intende(…)”.
Ed a proposito delle critiche sulla trattazione aggiunge: “(…) E per la scarsa trattazione ed illustrazione dei contrafforti orientali? Ci mancarono fotografie e non furono possibili sopraluoghi. Ci giustificarono le gravi condizioni politiche nelle quali il volume (iniziato quando l’orizzonte era ancora sereno) fu trepidamente condotto a termine, perché potesse dar modo al C.A.I. di concorrere – quando sia necessario – in questo momento storico alla soluzione di un problema nazionale, di cui le questioni sopra accennate sono l’eco lontana(…)”.
E’ presente all’interno del volume anche un primo ipotetico piano della collana Guida Monti d’Italia, che riporta come già pubblicati i 3 volumi nel frattempo descritti (Alpi Marittime, Alpi Retiche Occidentali, Regione dell’Ortler) e come allo studio o in corso di compilazione quelli relativi alle Alpi Retiche Orientali (vol.IV), Dolomiti (vol. V), Alpi Cozie settentrionali e Graie meridionali (vol. VI), Adamello – Presanella (vol. VII). Finita la guerra, la Sezione di Torino, sempre sotto gli auspici della Sede Centrale, pubblicava in successione tre volumi, relativi alle ALPI COZIE SETTENTRIONALI. Più esattamente, nel 1923 vide la luce ALPI COZIE SETTENTRIONALI, nel 1926 ALPI COZIE SETTENTRIONALI Parte II (Sez. I) e nel1927 ALPI COZIE SETTENTRIONALI Parte II (Sez. II). Ne fu autore Eugenio Ferreri, ed i tre volumi con una linea editoriale uniforme (copertina blu in tela o brossura) furono stampati dalla O.P.E.S. (Officina Poligrafica Editrice Subalpina). La sua prefazione è soprattutto un riconoscimento agli amici ed ai colleghi che con lui collaborarono per la stesura.
Ritornano gli schizzi (abbandonati da Brasca) e la carta utilizzata è molto sottile, cosa che, assieme alla suddivisione in tre parti, da riscontro ai suggerimenti ed alle critiche precedenti. E’ curioso notare come nel primo dei tre volumi sia riportato un piano della collana per le Alpi Occidentali. A pagina VI si da notizia, oltre che dei volumi fino allora pubblicati (quattro con il presente Alpi Cozie Settentrionali), che erano in corso di compilazione o allo studio volumi relativi al Gruppo del Gran Paradiso, alle Alpi Graie Occidentali, alla Catena del M.Bianco,  e tre volumi relativi alle Alpi Pennine. Vedremo in seguito che la collana non avrà mai il pieno completamento.
Arriviamo così al quinto volume che venne ad arricchire la collana Guida Monti d’Italia. Sempre sotto gli auspici della Sede Centrale, nel 1926 esce DOLOMITI DI BRENTA, curato da Pino Prati e pubblicato dalla Società Alpinisti Tridentini, che fu messo in vendita a L.15 in brochure e a L.20 in tela. L’autore raccolse notizie fino allora frammentarie e le integrò con quanto da lui verificato direttamente sui luoghi. Il risultato fu un lavoro unico per esattezza ed omogeneità quasi da farlo divenire un’opera, per il tempo, perfetta, corredata da 5 cartine (disegnate da Domenico Locchi), 17 illustrazioni e 31 schizzi. Curiosamente a fine volume, oltre allo spazio per eventuali annotazioni, sono presenti numerose pagine pubblicitarie. Due delle carte, di grande formato e più volte ripiegate, sono contenute in una tasca della penultima di copertina. Oltre ai consueti ringraziamenti, nella sua prefazione il Prati scrive: “Il gruppo di Brenta è uno di quei rarissimi gruppi, che non sono stati ancora rovinati dalle masse dei «pseudo alpinisti».E’ questo un suo speciale pregio, che al   giorno d’oggi rappresenta un valore eccezionale. E difatti, escludendo qualche rara cima che attornia il Rifugio della Tosa, l’alpinista non corre pericolo di trovar eccessiva compagnia, come spesso avviene negli altri gruppi. Le lunghe carovane degli alpinisti ciabattoni e festaioli, che sovente si trovano sul Gartl ed in Sella, o sulle Torri del Vaiolet, qui non esistono. Non si prova quindi il «vivo» piacere, di assistere a dei cordiali colloqui fra singoli alpinisti, come per es. avviene dalla  Delago alla Stabeler (Torri del Vaiolet) o viceversa (…)”.
E, riferendosi alla guida “(…) Essa è stata compilata allo scopo di far notare agli amanti della montagna, delle punte ora quasi ignote, delle regioni alpine d’una  bellezza impareggiabile, che da molti anni attendono gli alpinisti. E tutti devono tenersi bene in mente, che il Gruppo di Brenta non comprende solamente la Tosa od il Campanile Basso, ma esistono moltissime altre cime, forse ancor più belle. E la moda, deve venir lasciata da parte una buona volta. Colui che va in montagna  solo per moda, farà meglio restar al basso; almeno non turberà il religioso raccoglimento degli scrutatori nei grandi misteri della natura. (…)”.
Tanto per andare controcorrente a quanto suggeriva il Prati sulla popolarità delle cime, vi riporto quanto da lui scritto a pag.149 a proposito del Campanile Basso: “(…) E’ situato a N. della Brenta Alta e separato da quest’ultima dalla esile Bocchetta del Campanile Basso, su d’un roccione della quale è infissa una lapide a ricordo d’una delle 4 vittime del Campanile. E’ un fantastico obelisco di roccia, oltremodo audace e senza dubbio il più elegante, il più classico e il più difficile delle Alpi.(…). Il Campanile Basso è una di quelle rarissime cime , che posseggono l’elenco completo, esatto e numerato di tutti i salitori. [Fino a tutto il 1925, 217 comitive].” A pag. 152 la descrizione della via solita (era chiamata così la via normale), che per ovvi motivi di spazio tralascio, ricordando però a chi difetta di memoria, che il Campanile fu vinto il 18 agosto del 1899 da due studenti di Innsbruck, Ampferer e Berger che sfruttarono un tentativo dell’italiano Carlo Garbari, e che la prima salita italiana  fu fatta nientemeno che dal nostro caro Giovanni Battista Piaz di Pera di Fassa. Ed eccoci al 1928. Anche a causa del primo conflitto mondiale, che aveva portato gli stati dell’impero Austro-Ungarico ad una difficile situazione economica e sociale, quella che era stata la completa egemonia degli alpinisti tedeschi e austriaci, specialmente in dolomiti, cominciò a venire meno. Anche in Italia la guerra aveva lasciato gravi problemi, che paradossalmente favorirono la diffusione delle pratiche alpinistiche anche alle classi sociali più povere, che in tale situazione trovarono un fertile terreno di riscatto. Gli anni fra il 1920 e il 1930, ma in generale tutto il primo dopoguerra, segnarono per l’alpinismo un momento di forti successi connesso a grandi trasformazioni. L’avvento dei regimi totalitari favorì l’interpretazione dell’alpinismo come forza ed impeto virile: l’arrampicata diventa una vera e propria arte, un mezzo di espressione in cui conta molto anche la ricerca del tracciato, l’estetica. Sono gli anni dell’avvento del sesto grado, che la maggior parte degli studiosi di storia alpinistica fa coincidere con la salita della NO del Civetta compiuta da Solleder e Lettenbauer (1921) e della nuova classificazione delle difficoltà alpinistiche proposta da Welzenbach (1926).
Abbiamo parlato delle Dolomiti come terreno d’azione: nel 1929 il sesto grado veniva vinto anche da un italiano, Emilio Comici sulla Sorella di Mezzo, e da Renzo Videsott e Domenico Rudatis lungo lo spigolo della cima della Busazza, mentre la guida Luigi Micheluzzi saliva sul pilastro sud della Marmolada. E’ in questo contesto che si inserisce quella che sarà l’ultima guida di questa prima serie, le DOLOMITI ORIENTALI,  la cui compilazione veniva affidata dalla sezione di Venezia ad Antonio Berti.
Mi resta onestamente difficile parlare della figura del Berti in poche righe; la definizione, seppur stringata, di alpinista poeta non è fuori luogo. Questa guida, insieme ad altre sue opere sulle sue crode (Parlano i Monti in primo luogo, antologia poetica, ma anche scritti sulla guerra in Cadore) è senz’altro un piccolo capolavoro, un insieme di notizie alpinistiche vere e proprie, cultura, poesia. Avere “la Berti” fra le mani era, per i giovani alpinisti del tempo, già un ottimo punto di partenza. Sfogliarla, provoca in me ancora oggi forti emozioni.  Come recita la prima pagina, questa guida TURISTICO ALPINISTICA descrive le zone di Agordo, Zoldo, Cadore, Cortina d’Ampezzo, Valli del Gader, di Braies, di Sesto.
E’ ricca di minuziosi e fedeli schizzi, numerose carte, tutto inserito nelle quasi mille sottilissime pagine che ne contengono cosi peso e volume. E’ ricca di citazioni poetiche, le cime sono descritte con molta enfasi, così da renderne piacevole la lettura anche ad un profano dell’alpe; il Campanile di Val Montanaia viene descritto cosi: “(…) Strano, mostruoso ed imponente, sorge isolato nel centro del circo terminale della Val Montanaia, dritto, su dalla larga fiumana di massi e di ghiaie. Le crode si levano nude d’intorno, a corona, più alte, quasi a difendere la cosa meravigliosa. (…)”.
Ai più attenti non sarà senz’altro sfuggito che il nome di Antonio Berti compare anche oggi nelle ultime edizioni delle “Guide Monti” riguardanti le Dolomiti Orientali ed ancora oggi è attiva una Fondazione a lui dedicata. La sua figura e le sue opere sono state senz’altro un punto di congiunzione fra la prima e la seconda ed attuale serie di “Guide dei Monti d’Italia”. Ma questa è un’altra storia…
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