“Un Falco senza più ali” di Sergio Rinaldi

Annuario 2008

… penso che si possa accreditare all’uomo alpinista una fiducia nelle sue azioni consapevoli per la salvaguardia delle bellezze naturali, persone spinte solo dal desiderio di vivere una breve avventura in sintonia e rispetto della natura …

Su quel triangolo montuoso che si estende dall’Alpe di San Benedetto a settentrione e dal Casentino a meridione, delimitato a Nord da Castagno d’Andrea, a Sud dal Valico di Croce a Mori ed a Est dal Passo della Calla e Campigna si elevano quattro principali rilievi dell’Appennino Tosco Romagnolo: il Monte Acuto, il Monte Falterona, il Monte Falco e  il Monte Gabrendo. La civiltà delle popolazioni locali ha caratterizzato nei secoli una differente cultura dei due versanti: quello romagnolo tipicamente contadino e quello casentinese preferibilmente boscaiolo. Ma  ambedue gli abitanti hanno sempre avuto un profondo rispetto per l’ambiente forestale, anche se il versante del Borbotto, rivolto a Nord, è caratterizzato da una conformazione di erosione più diffusa generata da frane e profondi canali o fossi e cascatine, percorsi d’inverno da qualche valanghetta di accumulo e da rigagnoli ghiacciati. Partendo dal Borbotto, a 1210 mt. s.l.m., si può raggiungere il Passo delle Crocicchie, posto tra il M. Acuto e il M. Falterona, da qui si può calare a Capo d’Arno, dove nasce il più importante fiume toscano. Al di là del Falterona, raggiunto da un zizzagante sentiero nella fitta foresta autoctona fatta di abeti di alto fusto nella parte inferiore e da una specie di baranci nella parte alta su cui svetta l’imponente croce della cima, da dove si gode una visione aperta sul Casentino, si scende verso Est per un sentierino fino ad una larga mulattiera che, alternando mediocri dislivelli, conduce alla vetta del Monte Falco che con la sua modesta elevazione di 1657 mt. non emerge, come vorrebbe il suo nome, dai prati circostanti e degradanti dolcemente sul lato casentinese, mentre il versante romagnolo, nei pressi della cima segnalata come punto culminante, precipita verso il Passo di Piancancelli con una veduta aerea, in direzione Nord, sull’Alpe di San Benedetto.
Proseguendo per il crinale, rigorosamente sul sentiero, come avvertano i cartelli ammonitori di rispetto dell’ambiente, si passa presso l’arrivo dello ski-lift della Burraia, quasi sempre funzionante, e si contorna poi un sito militare recintato dalle alte parabole antiestetiche, per calare ad una larga spianatura con poca vegetazione risalente al Monte Gabrendo, dove arrivava un vecchio impianto di risalita abbandonato. Da qui l’escursione della G.E.A. prende a scendere fino al Passo della Calla a 1296 mt. e da dove si potrebbe proseguire fino a Camaldoli e oltre, passando da Poggio Scali.
Questo sentiero 00 di crinale, principalmente nel tratto Falterona-Falco, è normalmente percorso nei due sensi da comitive di escursionisti, da fondisti, da ciaspolatori e da scialpinisti che sono attratti quassù rimanendo ammirati dallo spettacolare mantello della galaverna che d’inverno copre sovente la zona creando fantastiche trine ricamate di cristallo pendenti dai rami degli alberi avvolgendoli di ghiaccio e di luce prima che questa magica atmosfera si dissolva sotto l’azione del sole. Chi transita su questo percorso non incorre in alcuna trasgressione o sanzione ma basta uscire di pochi metri oltre i cartelli intimidatori posti sul Monte Falco, a volte non sempre visibili per la troppa neve accumulata, ecco che si possono presentare guai seri. Da sotto il Falco e fino alla frana  sul crinale prima del Monte Falterona è sito “interdetto” a tutti, posto a rispetto dell’ambiente del Parco Nazionale Foreste Casentinesi.
Nell’inverno un tempo dalla cima del Monte Falco si scendeva sul crinale di circa 200 metri in linea d’aria fino ad un tratto pianeggiante per risalire fino ad un intaglio con  una  piccola roccia, in direzione SO (verso il Falterona). Qui un fitto intrigo di rami di faggio più o meno secchi celava ai profani l’accesso verso destra ad un fantastico canale innevato sul versante Nord. Per i più temerari era l’inizio di una sfida eclatante con se stessi e con l’ambiente ricoperto di neve. Era l’ora di agire e si apriva la danza scostando delicatamente qualche ramo a cui si chiedeva il permesso di transito iniziando così la danza saltata con gli sci per un pendio assai stretto che era sempre superiore ai 45°. Dopo aver perso circa 50 metri di dislivello sullo scivolo iniziale ecco la prima svoltata verso destra delimitata sulla sinistra da una ripida strettoia e da un boschetto di abeti e sulla destra da roccette affioranti risalenti verso l’alto ricoperte da un folto mantello di neve da attraversare con gli sci ponendovi la dovuta attenzione. Poi una serie di curve inebrianti, con gli sci spesso affondati nella neve fino alle ginocchia, permettevano di calarci direttamente in mezzo ad un passaggio naturale sotto festoni trionfali della vegetazione in una atmosfera da wilderness dove l’uomo si sentiva completamente immerso ed esaltato in una natura assolutamente da proteggere e rispettare e che ricordava vagamente quella canadese. Un magico benessere si impadroniva di quei temerari dello sci ripido e libero reprimendo gli urli di ammirazione per non turbare quei momenti speciali. Il loro passaggio era segnato solo da qualche lieve e fugace traccia di sci e dalle impronte dei loto bastoncini, con le orme che si confondevano con quelle degli animali della foresta, ma essi avevano una testa per ragionare e non avevano unghie da affilare o muschio da rubare alle piante. Nella loro esaltazione era come se fossero tornati bambini, immersi per magia in quel metro o due di neve alta, quasi sempre farinosa su quel versante Nord del Monte Falco.
Più in basso, usciti da una strettoia di piante, si apriva ora un tratto più impegnativo che immetteva in un canalino roccioso spesso ghiacciato fino ad una piccola conca dominata da una foresta di faggi di alto fusto non troppo fitti tanto da poterli attraversare facilmente per saltare poi sulla strada forestale proveniente dal Borbotto e che verso destra porta a Piancancelli. Qui si concludeva la loro breve ma inebriante discesa del canale nascosto a Nord del Monte Falco. Negli anni passati, quando non era ancora entrato in vigore il divieto di accesso, questo itinerario è stato percorso numerose volte, sempre d’inverno, da parte di solitari o da gruppi ristretti di sciatori alpinisti locali o cittadini che conoscevano il segreto celiato di quell’ambiente botanico così naturale e intatto. Non erano certo contrabbandieri, né boscaioli, né cacciatori di frodo, né cercatori abusivi di funghi, ma solo persone prive di qualsiasi interesse economico personale, spinti solo dal desiderio di vivere una breve avventura in sintonia e rispetto della natura selvaggia sia faunistica che floreale di cui badavano di non turbare o modificarne l’ecosistema.
Se per le nuove generazioni si vuole tutelare la sopravvivenza animale del selvaggio lupo e delle altre specie faunistiche che qui vivono e godono di una libertà totale non rispettando certamente i divieti imposti dall’uomo col rischio di perdita di buon senso per eccesso di zelo che impone una disciplina repressiva, penso allora che si possa accreditare anche all’uomo alpinista una fiducia nelle sue

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