Versante Sud

Scialpinismo in Toscana al tempo del COVID19

Testo e foto di Pelle (David Pellegrini)

Erano i giorni delle feste di Natale, tutti chiusi nel proprio comune, e vedevamo cadere metri e metri di neve sul nostro Appennino, pronti a goderne appena ci avrebbero dato il via libera. E questo via libera è arrivato, ma con la ormai nota limitazione del confine regionale: Cimone, Lagoni, Rondinaio, Giovo… sono rimasti nel libro dei desideri e non ci è rimasto che cercare mete raggiungibili senza infrangere le regole. 

Pania della Croce

La quantità di neve scesa, fino a quote basse, ci ha permesso di aumentare i dislivelli delle classiche gite toscane, fino a riuscire a fare una gita di ben 800 metri partendo dai 900 metri di Arsiccio (Melo, PT) fino ad arrivare a Cima Tauffi, normalmente raggiunta con lo stesso dislivello dal versante emiliano o a salire al Libro Aperto partendo da La Secchia. 

Foto di Neri baldi

A complicare la non semplice situazione è arrivata una nuova ordinanza: la provincia di Pistoia è diventata zona rossa; non ci rimaneva che spostarsi in Garfagnana (con tanti chilometri in auto) per continuare a godere della nostra amica neve. 

Carte alla mano, telefonate a conoscenti, guide e computer, studia di qui e guarda di là, alla fine è venuta fuori una gran bella stagione con salite e discese varie e gratificanti sul versante sud del nostro appennino. 

Salendo verso il Falterona – Foto di Neri Baldi

Praticamente abbiamo sciato tutto lo sciabile, iniziando da Pian di Novello, per finire con la Pania quando tutta la Toscana è diventata rossa alla vigilia di Pasqua: 

Falterona da Castagno 800 m D+ 
Poggione e Pizzo Alpestre  630 m D+ 
Cima Tauffi da Arsiccio 890 m D+ 
Poggio dei Malandrini dalla Burraia 470 m D+ 
Campolino da Pian di Novello 800 m D+ 
Libro Aperto da La Secchia 650 m D+ 
Spigolino da Doganaccia  650 m D+ 
Monte Prado da Casini di Corte 1150 m D+ 
Monte Cella e Canale dell’Ombra Corta 650 m D+ +200 canale 
Monte Vecchio e Bagola Rossa 1000 m D+ 
Sagro 850 m D+ 
Cima dell’Omo 560 m D+ 

Altaretto dalla Vetricia 750 m D+  
Tre Potenze e Lago Nero da Val di Luce 650 m D+ 
per poi chiudere con le due classiche apuane 
Pania della Croce e Borra di Canala 1050 m D+ 
Monte Tambura dalla Carcaraia 850 m D+ 

Cima Tauffi

Quest’anno per molti passerà alla storia per il lockdown, per noi resterà una delle più belle annate di scialpinismo in Toscana (abbiamo fatto più uscite quest’anno che negli ultimi 3 anni messi insieme). 
La voglia di sciare e di stare con gli amici in montagna era davvero tanta che siamo riusciti a riscoprire itinerari da tempo abbandonati ma di grande fascino, forse amplificato dalla novità degli ambienti frequentati con gli sci sotto i piedi, un po’ diversi da ciò che ci eravamo abituati a vedere negli ultimi anni. 

Cima Tauffi – Libro Aperto
Verso l’antecima del Libro

Che dire? 

Ci sono mancate le salite in quota sulle Alpi e gli spazi aperti con i marcati dislivelli dell’Appennino centrale, però non possiamo certo dire che sia andata male! 


Personalmente posso aggiungere di essere davvero soddisfatto per una stagione ricca di itinerari, alcuni nuovi, che in condizioni per così dire normali avrei forse evitato. 

Valanga sotto Cima Tauffi

Più che le parole, penso che parlino le immagini che avete sotto gli occhi sfogliando l’annuario. 

Prado
Sopra la Verginetta – foto di Neri Baldi
Scendendo dall’Altaretto
Sul tetto del rifugio del Lago Nero – foto di Neri Baldi

Coro La Martinella: festeggiamenti del 50°

di Raimondo Perodi Ginanni

Il Coro “La Martinella” ha raggiunto nel 2020 il prestigioso traguardo di 50 anni dalla nascita, essendo stato fondato nel 1970. Purtroppo, causa pandemia, i festeggiamenti programmati lo scorso anno sono stati rinviati. Ma grazie all’impegno e determinazione dei Coristi, unitamente alle maggiori permissività della normativa antipandemia, siamo riusciti a concretizzare 2 grandi eventi nell’ultimo trimestre del 2021.

PRIMO EVENTO: 30 OTTOBRE 2021 AL TEPIDARIUM – GIARDINO DELL’ORTICOLTURA

Giornata dedicata alla coralità nella splendida e particolarissima “serra” ottocentesca ideata dell’Arch. Giacomo Roster già assistente del Poggi, e messaci a disposizione dal Comune di Firenze. Il programma si è svolto in 2 tempi:
Al mattino, dopo l’intervenuto dell’Assessore Cecilia del Re che ha portato i saluti dell’Amministrazione Comunale Fiorentina e l’impegno della stessa nel cercare una sede adeguata per la Sezione fiorentina del CAI (e quindi anche per il nostro Coro) , ha preso il via il Convegno sulla Coralità, introdotto da Moreno Signorini, presidente ACT (Associazione Cori Toscana), e che ha avuto, quali relatori due personaggi di spicco nel panorama musicale italiano e non solo, i Maestri Ettore Galvani, etnomusicologo e Presidente Nazionale della FENIARCO (che riunisce le Associazioni Regionali dei Cori), e Walter Marzilli, dal ricchissimo curriculum (tra cui: docenze presso il Pontificio Istituto di Musica di Roma e la Notre Dame University di South Bend – USA). Il question time ha chiuso la mattinata. 

Locandina Tepidarium

Il pomeriggio ha preso il via con la Vice Sindaco Alessia Bettini la quale, portando i saluti del Sindaco Dario Nardella, ha ricordato il valore e l’importanza del Canto, come forma tra le più espressive fra le culture nel mondo, per diffusione territoriale, datazione storica, modalità di comunicazione, testimonianza di tradizioni, rievocazioni ed ambiente, nel rispetto della concordia ed amicizia tra i popoli.

Raimondo Perodi Ginanni, Ettore Galvani, Moreno Signorini, Walter Marzilli

Abbiamo poi presentato la pubblicazione sui “50 anni del Coro” curato in maniera egregia dall’amico Luca Giannelli, scrittore giornalista e storico fiorentino, ed i 2 nuovi CD: “50 anni, 3 Maestri, 1 Coro” e “All’ombra del Tricolore”, che propongono nuovi brani e una raccolta di canti diretti dai 3 Maestri che negli anni si sono avvicendati: il fondatore del Coro Claudio Malcapi, Fabio Azzaroli tenace successore, e l’attuale poliedrico direttore Ettore Varacalli.

A conclusione dell’evento, tra gli applausi degli intervenuti, si è tenuto il Concerto del “Coro La Martinella” e del “Coro Lunigiana”, con al termine il canto finale, a cori uniti, “La Pavana” diretto da Ettore Varacalli.

Alla manifestazione ha preso parte anche il Presidente del CNC – Centro Nazionale Coralità del Club Alpino Italiano, Prof. Gianluigi Montresor, il quale ha riconfermato l’importanza di tale struttura operativa, nata nel 2014 in seno al CAI su impulso del nostro Coro.  

Piccolo inciso: l’ospite “Coro Lunigiana” proviene da Licciana Nardi, territorio assai legato con la nostra Sezione, visto che ha dato i natali ad Igino Cocchi, tra i fondatori della sezione CAI di Firenze il 1° luglio 1868; a lui, che ha “disegnato” l’odierno CAI diviso in sezioni, é dedicata la vasta storica Biblioteca ritenuta di interesse nazionale, che trova sede presso la Sezione di Firenze.

SECONDO EVENTO: 14 NOVEMBRE 2021 AL RISTORANTE LA CERTOSA

Tra coristi, familiari ed amici, eravamo in 200 per la vera e propria FESTA DEL CORO. Il gustoso pranzo è stato arricchito dal Coro coi tanti canti diretti dal Maestro Ettore Varacalli e da esilaranti scenette ideate dall’ incredibile Vice Maestro Claudio Ciullini. Oltre ai saluti e ringraziamenti agli intervenuti da parte del nostro presidente Raimondo Perodi Ginanni, hanno preso la parola anche i coristi della prima ora, cioè del 1970, dal Maestro Fondatore del Coro Claudio Malcapi, ai coristi Valerio Bortolotti e Beppe Ocello, ancora tra le file dei coristi.

Non sono mancate note di colore: dal caloroso festeggiamento dei neo sposi Saverio e Laura Lastrucci, alla presenza dell’inossidabile Achille Ziccardi, venuto appositamente dal Belgio dove risiede da oltre mezzo secolo, e che ci segue con passione ormai da tanti anni. I Coristi del 50° hanno infine ricevuto alcuni doni in ricordo del particolare evento.

PROGRAMMA 2022

Confidiamo di poter concretizzare gli altri eventi programmati per il 50° del Coro, eventi che dovrebbero vedere la partecipazione a Firenze di cori provenienti anche dall’estero: Parigi, Dublino, Malmedy (Belgio) e Rovigno (Croazia). 

Seguiteci sui nostri canali social e sul sito per partecipare e vivere con noi e con i nostri canti le nostre attività.Coro La Martinella                                                                                   

Ci vediamo… online

di Daniela Serafini

Gli appuntamenti online sono gli eventi che hanno caratterizzato questo lungo periodo di privazioni dovuto alle emergenze sanitarie. 
Nessuno pensava che questi diventassero quasi la normalità e la quotidianità dell’oggi. Ogni iniziativa che vedevamo organizzata a distanza ci dava e ci dà subito l’impressione di qualcosa che stanca presto, però dobbiamo prendere atto che questa modalità ha dato modo di riunirsi, vedere gli amici anche in un periodo in cui tutte le attività sociali sono state pressoché inesistenti. 
Noi della Redazione, abbiamo pensato di effettuare due primi appuntamenti online nello scorso dicembre cogliendo l’occasione della presentazione di due volumi di nostri amici; era più una scommessa che una certezza di riuscita. Ebbene, dopo questi primi successi la Sezione di Firenze ha organizzato una serie di eventi online con un calendario veramente ricco di contenuti molto vari: dagli argomenti più tecnici, a quelli più descrittivi, a quelli canori come l’appuntamento con il Coro La Martinella, per finire con la serata di alpinismo classico tenuta da Leandro Benincasi che ha illustrato le vie di Reinhold Messner al Sas dla Crusc. Le adesioni a queste iniziative, con grande piacere per tutti noi, hanno anche sfiorato i cento contatti per volta! 
E’ tutto virtuale diranno in molti e niente può sostituire le occasioni in presenza, lo sappiamo bene; ma la magia arriva comunque: quando inizia la connessione e a poco a poco il monitor del computer comincia a popolarsi di tante finestrine… e così si ritrovano gli amici e iniziano i saluti, le battute, gli aneddoti, il piacere di vedersi anche solo così! Io lo paragono a una grande piazza, una grande sala che può ospitare tutti e che ci può sicuramente dare tante emozioni. Non ultimo l’incontro con il Coro La Martinella e con gli interventi dei maestri che si sono susseguiti nei cinquanta anni della sua storia: Claudio Malcapi, Fabio Azzaroli e Ettore Varacalli; sono seguiti anche brani presi dai concerti svolti e il sentirli cantare anche se soltanto attraverso un monitor, è stata una grande emozione!  

Grazie a tutti i relatori che hanno voluto condividere le proprie esperienze e conoscenze con tutti noi! 
Grazie a questa tecnologia che mai come in questo momento ci ha fatto sentire uniti, tutti legati ad un unico filo di speranza e voglia di trovarsi di nuovo insieme! 

La Scuola Tita Piaz ha compiuto 70 anni

di Lorenzo Furia (INSA)
Direttore della Scuola di Alpinismo, Scialpinismo e Arrampicata Libera “Tita Piaz”

Le cronache riportate nel volume “Mezzo secolo di alpinismo – La Scuola di alpinismo Tita Piaz compie 50 anni” individuano un giorno preciso: il 1 novembre 1951. In quella data un gruppo di alpinisti fiorentini fondarono quella che poi sarebbe diventata l’attuale Scuola di Alpinismo, Scialpinismo e Arrampicata Libera Tita Piaz. Erano gli anni della ricostruzione dopo gli eventi bellici, l’alpinismo era una “palestra di vita” in cui si confrontavano tanti giovani e le notizie delle salite di Bonatti riempivano le prime pagine dei principali quotidiani. In tale contesto si sviluppò il nuovo organismo dedicato alla formazione delle discipline alpinistiche, una “scuola” che, in analogia a quanto già fatto in alcune città del nord Italia, avvicinava i cittadini alle montagne, insegnando l’uso di tecniche e attrezzature con un occhio di riguardo alla sicurezza. Ovviamente era la sicurezza di allora, quando, a titolo di esempio, nelle poche auto in circolazione non esistevano le cinture di sicurezza: una cosa impensabile oggigiorno. 

Corso di Alpinismo – foto di Dario Orlandi

Da quella data ricorrono quest’anno 70 anni: un bel traguardo per un organismo che, come altri del sodalizio, si basa esclusivamente sul volontariato. Oggi la Scuola Tita Piaz si occupa dell’insegnamento di tutte le discipline alpinistiche per conto della sezione fiorentina e di quella aretina del CAI: ogni anno sono decine i soci, sopratutto nuovi, che partecipano ai vari corsi in programma. Oltre all’alpinismo classico, l’attività della Scuola si rivolge infatti anche al mondo dell’arrampicata e dello scialpinismo, due discipline con ampi aspetti sportivi tanto che la prima ha partecipato alle ultime Olimpiadi. Uno degli obiettivi della Scuola è proprio quello di illustrare tutti gli aspetti dell’andare in montagna. Prioritariamente quello della sicurezza, ma anche quello ambientale, della socialità e sportivo. La sicurezza, come ricordato precedentemente, è un elemento genetico della Scuola: pur nella consapevolezza che le attività insegnate sono “potenzialmente pericolose”, si cercano di adottare tecniche e attrezzature che limitino il rischio ad una soglia accettabile, nonostante che oggi, questa soglia, si sia notevolmente abbassata rispetto al passato. Usualmente infatti chi non pratica l’alpinismo difficilmente capisce che confrontarsi con il rischio è un elemento inscindibile dal frequentare le montagne. Altro aspetto è la tutela dell’ambiente montano: anche in questo caso, molto è cambiato dagli anni ’50 ed oggi la Scuola insegna ancor di più a considerare l’ambiente naturale come un sistema da preservare, dove la possibilità di assaporare l’unicità dei posti dipende proprio dalla difesa dei medesimi. Infine la socialità: essendo tutti volontari, i circa 50 istruttori che svolgono attività nella Scuola lo fanno soprattutto per trasferire agli altri la propria passione, sviluppando spesso legami di amicizia duraturi. 

Corso di Alpinismo – foto di Dario Orlandi

Come le altre attività del CAI, anche quelle della Scuola hanno avuto una battuta di arresto in questi ultimi due anni a causa dell’emergenza sanitaria: lo svolgimento dei corsi era infatti impossibile da coniugare con le misure di distanziamento fisico. È stato un periodo di riflessione, nel quale gli istruttori hanno cercato di coltivare le proprie passioni pur con i limiti imposti dai vari DPCM, riscoprendo le montagne più vicine e confini che oramai sembravano anacronistici: chi si ricordava che per andare a sciare nella toscanissima Valdiluce bisognava “espatriare”, seppur per pochi chilometri, in Emilia Romagna? Probabilmente da questo strano periodo sono scaturiti anche degli aspetti positivi: la forzata inattività sta spingendo molti a rivalutare l’importanza di svolgere attività in ambienti naturali poco antropizzati quale è la montagna. Infatti dal mese di settembre, pur con le necessarie precauzioni, i corsi della Scuola sono ripresi a buon ritmo, proprio per rispondere a questa forte richiesta di fare attività in montagna con adeguata sicurezza. Ma anche per trasferire alle nuove generazioni la passione che accomuna gli istruttori. A tal proposito mi ricordo ancora, dopo quasi trenta anni, la prima uscita del corso di scialpinismo al quale partecipai da allievo, quando un inarrestabile Giancarlo Dolfi, tra i primi istruttori della scuola negli anni cinquanta, ci accompagnò in una salita in Val Gardena, contagiandoci con la sua passione. Come allora, anche oggi il motore della Scuola è soprattutto passione. 

Riflessioni di GC

L’esperienza di cui abbiamo trattato nell’Annuario 2018 “Voce del verbo andare”, la strada la scopri mentre sei in cammino (cfr. https://alpinismofiorentino.caifirenze.it/2019/10/voce-del-verbo-andare/), è un “Laboratorio stupefacente” realizzato grazie alla collaborazione del Gruppo Montagna Terapia del Club Alpino di Firenze che sta nell’ambito del Laboratorio terapeutico integrato realizzato in collaborazione tra
il Servizio Dipendenze area minori e adulti Ser D Q3 e Q4 di Firenze e l’Associazione Progetto Villa Lorenzi.

Il Laboratorio coordinato da Caterina Borrello (Psicologa e Piscoterapeuta Responsabile del percorso minori e giovani del UFS SerDB Q3 e Q4) e Francesco Del Perugia (Educatore Professionale UFS SerD B Q3 e Q4),
prevede alcune attività “straordinarie”, a forte impatto emotivo, fra queste le arrampicate indoor, le discese in grotta, le escursioni, le ferrate.
Quando gli operatori hanno chiesto ai ragazzi le loro impressioni e quanto significativi fossero stati questi laboratori per i loro percorsi di cura, hanno ricevuto dei buoni feedback fra cui questa lettera che volentieri
pubblichiamo perché ci sembra significativa e utile per capire l’utilità e l efficacia terapeutica dell’esperienza.

Lettera aperta

A dire il vero a cosa mi sono serviti i laboratori su mari e monti ci penso spesso…. Il punto è che io non sapevo godere della vita e di ciò che di bello e REALE ha da offrire prima che qualcuno mi facesse vedere e conoscere. Sono sempre stata una tipa più da montagna che da mare visto che fin da piccola i miei nonni mi portavano a trascorrere l’estate in un buco di paese chiamato “le capanne”. E’ un paesino senza sfondo vicino al monte Fumaiolo dove sorge il fiume Tevere e conta circa 10 abitanti attualmente. Ogni posto di montagna me lo ricorda.

Nonostante questa assidua frequentazione però non avevo mai arrampicato, ne avevo mai fatto una bella passeggiata nei boschi o ciaspolata nella neve. Tantomeno avevo sciato o mi ero calata in una grotta. Così ho scoperto che mi piace e che in un certo senso in effetti è una droga. Ho scoperto prima di tutto di amare lo sport, mi fa sentire libera. Ogni volta che facevamo un’attività imparavo qualcosa in più. Pensavo di soffrire di vertigini, avevo paura del vuoto. Quando abbiamo fatto arrampicata la prima volta su roccia, ho scalato tutta la parete in tempo record, arrivando alla cima senza guardare mai giù e rendermi così un’idea di quanti metri ci fossero sotto di me. Una volta arrivata per scendere mi sono dovuta affidare al buon senso di chi teneva la corda da terra. La mia vita in mano a qualcuno. Salendo non ci avevo nemmeno pensato, volevo solo arrivare. A quel punto tremavo dall’emozione ma non avevo altra scelta se volevo scendere. Nelle camminate il principio è stato lo stesso. Testa bassa, occhi fissi a calcolare dove mettere i piedi e marciare come un mulo, volevo solo arrivare. E arrivavo! Forse un po’ egoista a pensarci adesso, ma non credevo di essere in grado io in primis prima di quel momento, dovevo ancora scoprire la mia di forza per poter guardare intorno a me ed aiutare gli altri. Non ero in competizione con gli altri ma con me stessa perché fino a quel momento credevo che gli altri fossero meglio di me a prescindere e non volevo deludermi, confermare quanto non fossi in grado. Comunque anche sciare, mi è riuscito senza sforzo, credevo che fosse così scontato un po’ per tutti. Invece non lo era. Pian piano grazie a tutte queste “prove” ho capito un sacco di cose. Ho capito di essere coraggiosa, anche un po’ incosciente. Ho capito di avere delle passioni e che evidentemente non era scontato lo fossero per tutti. Ho capito che se devo arrivare ad una meta, ci arrivo a testa bassa, senza guardare in faccia nessuno, con un pizzico di sano egoismo. Ho provato delle forti emozioni durante le attività e adesso sì, sono un po’ la mia droga. Mi muovo in bici. Quando sono depressa vado in pattini. Ogni tanto mi alleno con i pesi. Mi piacciono tanto i tramonti, le albe, i paesaggi, le altezze, la natura, il vento. Mi piace arrivare e sostare ad occhi chiusi con il vento in faccia che mi entra nelle narici senza sforzo. 

Piero Zaccaria

di Carlo Barbolini (CAAI)

Piero ci ha lasciati l’8 settembre 2020 all’età di 92 anni, era nato il 4 dicembre del 1927. Dicembre 2020, è il 16 dicembre ed insieme all’amico Franco Cervellati e alla figlia Flavia,  sono a casa Zaccaria a Firenze dove, accolti da Graziella, abbiamo ricordato, riso, raccontato aneddoti e storie talvolta dimenticate su Piero e su di noi. È stato un pomeriggio veramente bello, forse complice il buon prosecco tirato fuori dal frigo da Graziella. Nato a Trieste e vissuto poi a Firenze dal 1954 per lavoro, Piero aveva allora già una notevolissima attività alpinistica in particolar modo dolomitica ed infatti era stato nominato Accademico nell’aprile del 1949, ancora non aveva 22 anni! 

1948 – Sul Campanile Livia al Corno Piccolo del Gran Sasso con Guglielmo Del Vecchio

È sempre stato socio della Sezione CAI XXX Ottobre di Trieste ma una volta a Firenze ha legato, insieme a Graziella e poi anche con la figlia Flavia, con l’ambiente alpinistico fiorentino facendo molta attività. Non ho arrampicato molto con Piero ma ricordo che, negli anni 70/80 era sempre presente a Maiano tutti i pomeriggi primaverili e non solo. Non parlava molto in pubblico ma in privato era sempre pronto alla battuta e molto ironico a differenza di Graziella che aveva un carattere esuberante. Franco Cervellati (SISS – Società Italiana di Storia dello Sport Centro Studi ASSI Giglio Rosso Firenze) ha redatto un bell’articolo su di lui che è stato pubblicato sul n 178 di Alpinismo Triestino, aprile-maggio-giugno 2021 e che sarà presente sul prossimo annuario del Club Alpino Accademico Italiano. 

1947 – Un giovanissimo Piero Zaccaria in scarpette posa alla “maniera” di Emilio Comici

Dal suo scritto: 

“Nelle prime incerte tracce della nostra ricerca abbiamo trovato citato il nome di Zaccaria nell’elenco degli allievi di un corso della Scuola di Alpinismo Emilio Comici datato al 1943 e due anni dopo è fra i fondatori del Gruppo Rocciatori dell’Associazione XXX Ottobre. Passato il peggio, dopo quelle dure esperienze e con la città liberata, Zaccaria tornò alla pratica metodica del suo giovanile divertimento, arrampicando sulle impegnative pareti della Val Rosandra o su quelle più brevi della “Napoleonica” a Prosecco. Eppure continuavano ad essere dei tempi duri, quelli: l’amministrazione militare alleata che governava sul Territorio Libero di Trieste imponeva rigidi controlli sui flussi di frontiera, in città si respirava aria di forte contrapposizione tra gli appartenenti all’etnia italiana e quella slava e la situazione di grande incertezza sul futuro di quella terra contesa si protrasse per ben nove anni, dal 1945 in poi.  
Nel 1946 entrò a far parte, come istruttore, della Scuola Nazionale di Alpinismo Emilio Comici di Trieste.”  

1962 – Piero Zaccaria e Roberto Sorgato (a destra) sulle Alpi Apuane

Il lungo articolo di Franco è frutto di una sua ricerca molto accurata e rimando ad esso una migliore e completa trattazione della storia e della vita di Piero. Ovviamente, dopo il trasferimento a Firenze, fu chiamato nella Scuola Tita Piaz  nel 1957. 
Termino solo con un ultimo estratto dal suo scritto: 

“Piero Zaccaria ha avuto in dono dalla natura una salute invidiabile, mai qualcosa più di un raffreddore, mai un mal di denti, ha passato i 90 anni di slancio, mai voluto fare analisi del sangue, nonostante la sua formazione scientifica. Stava bene, punto.  
Nella primavera del 2020 ha voluto acquistare l’ultimo modello, assai grintoso, di una scarpa da escursionismo della più nota azienda nazionale, in previsione delle sue amate escursioni estive altoatesine. Non le ha potute utilizzare, purtroppo, perché dal mese di giugno – a Vipiteno – è iniziato il suo rapporto del tutto improvviso e invalidante con il “male del secolo”, così usiamo definire più signorilmente lo scomodo e difficilmente pronunciabile termine di tumore. L’8 di settembre – a Firenze – le sue sofferenze, tenute a bada dalle cure palliative, sono giunte al termine, accompagnato fortunatamente per lui, dalla presenza costante e dall’affetto della moglie Graziella e della figlia Flavia.” 

In uno scambio di messaggi con Flavia la stessa mi scrive: 

“Ai suoi 80 anni abbiamo fatto un’ultima arrampicata alle Torri del Sella insieme, lui ovviamente da primo sennò non è arrampicare…“ 

1982 – Piero Zaccaria foto di vetta sulle Dolomiti

Fuori traccia in Val di Lima

Testo e foto di Marco Bagnoli

Tra le varie motivazioni che mi spingono a fare escursionismo e che condivido con un gruppo di amici, c’è anche la voglia di avventura e di esplorazione. Calcare zone non note e poco frequentate, infatti fa assaporare maggiormente l’andar per monti e rendono questa esperienza più personale. 

In cima al m. Montale: Balzonero e a sinistra il m. Limano – di Valeria Tonini

Sorprendentemente le montagne della Val di Lima, così vicine a noi, si sono rivelate una miniera in questo senso.  

In particolare mi riferisco ai rilievi posti in gran parte tra il torrente Lima (a valle di Popiglio) e l’Appennino a nord; ad essi si aggiungono la Penna di Lucchio e il   m. Memoriante che invece sono a sud del corso d’acqua. 

La parte ripida della cresta del m. Limano

E’ una zona caratterizzata da ampie superfici lontane dai centri abitati, (solo poche case isolate erano presenti), nelle quali si praticava la pastorizia, dove l’abbandono è avvenuto da lungo tempo. 

Il paese di Limano dalla vetta omonima

Questi luoghi si presentano selvaggi e remoti e il forte senso di isolamento che si percepisce nel percorrerli è sottolineato dalla mancanza o carenza di sentieri, spesso ridotti a flebili tracce, così come dai rari resti di edifici. 

Queste montagne sono accomunate dalla roccia calcarea, che le differenzia dal vicino Appennino, roccia che dà loro una morfologia spesso aspra, con valli molto incassate e versanti molto ripidi. 

In vista della cima sud del m. Cimo 

Tutti questi ingredienti rendono questo ambiente particolare e ricco di fascino. 

La Schiena d’asino nel punto sommitale più affilato

Certo, per frequentarli bisogna essere disposti qualche volta a perdere la direzione, a essere costretti a tornare indietro o fare deviazioni, ma lo sforzo sarà ampiamente ripagato dalle emozioni ricevute. 

Fino al 2018 ero salito solo sulla Penna di Lucchio e sul Balzonero, gli unici due monti che sono serviti da sentieri ufficiali CAI. 

La parte più stretta della cresta detta “Malpasso”

Incuriosito dalla guida “Le dolomiti della Val di Lima” (2018, E. Mastripieri), che è un riferimento fondamentale, ho coinvolto gli amici di sempre, nel gennaio del 2019 con una prima escursione sul m. Limano. Da quel momento, questa zona ha affascinato me e i miei compagni, tanto da spingerci ad esplorare in modo quasi sistematico le altre cime principali nel giro di un anno e mezzo. 

Il vertiginoso fuori sentiero per salire al Balzo della Colonnetta  – David Pellegrini

Il m. Limano per la cresta sud è stato il primo incontro con la difficoltà di orientamento tipiche di questa zona: un tratto di avvicinamento ci siamo fatti letteralmente spazio tra le eriche. L’altra cosa interessante di questo itinerario è la facile e panoramica cresta rocciosa, dove c’è da aiutarsi di tanto in tanto con le mani, che è un altro dei caratteri ricorrenti di questi percorsi. Assomiglia un po’ a quella del Balzonero, ma al contrario di quest’ultimo, non ha tratti attrezzati da superare. 

Balzo Rosso (1056m) dal Balzo della Colonnetta (vetta nord, 939m)

Ancora più bizzosa è la costa di Mazzalucchio per arrivare sul m. Cimo: inizia come dorsale larga, ma ad un certo punto si impenna e diventa affilata ed arcigna. In realtà la superiamo senza difficoltà e con molto divertimento, aiutandoci un po’ con le mani. Da segnalare un punto suggestivo chiamato “Malpasso”, nel quale passiamo tra due grandi rocce. 

La porzione est delle “Dolomiti” della Val di Lima: Balzonero, Balzo Rosso, Balzo della Colonnetta e dietro l’Appennino 

La serie delle vette, che sono disposte in gran parte su dorsali con orientamento nord-sud divise da valli profondamente incise, è proseguita, sempre verso est, per cui è arrivata la volta del Balzo Rosso, forse l’itinerario dove il senso di isolamento e la difficoltà di orientamento è stata massima. 

Panorama dal m. Cimo verso sud; da sinistra: Balzonero, Memoriante, m. Limano, Mosca

Tra i punti più suggestivi ricordo la zona detta “Grotte”, dove ci sono dei ruderi addossati ad una parete calcarea, come anche la divertente cresta, il cui nome è tutto un programma (“Schiena d’asino”), dove i passaggi vanno scelti anche se non sono obbligati e il cui culmine è piuttosto aereo e che ha fatto scatenare i fotografi e le “pose plastiche”. Completa questo itinerario un traverso da fare in puro stile “apuano” su sfasciumi. Il tratto però che mi ha più colpito è stato quello sotto il versante orientale del Balzonero, una prospettiva veramente potente, tra le più belle tra quelle viste in questa zona. 

Rimanevano gli ultimi due rilievi visti dal Balzo Rosso che sembravano inaccessibili: il m. Montale e il Balzo della Colonnetta. Due vette di elevazione ancora più modesta, ma che per la loro posizione isolata, una volta raggiunti, ci hanno regalato delle belle visuali sulle altre cime della zona e sull’Appennino che sta sullo sfondo. E che dire della wilderness! Siamo stati costretti a fare un tratto letteralmente a naso, per arrivare ad un posto entusiasmante: la grotta del Dordoio che contiene una fragorosa cascata che forma un ruscello. Quasi in cima al Balzo della Colonnetta si trovano poi due vecchie miniere, e viene da domandarsi chi poteva pensare di fare queste attività in un luogo così remoto. Da menzionare Tanabetti, uno dei pochi insediamenti formato da più case, ormai ridotte in ruderi inghiottiti dalla vegetazione. 

Il Balzo Rosso visto dalla Schiena d’asino

Sul più noto Pratofiorito, siamo andati a risalire la frizzante cresta di Carpineta, il cui accesso, è così complicato come orientamento e poco battuto che ha richiesto un secondo tentativo. Anche se più conosciuto, non poteva mancare anche il Balzonero per la Fessa (cresta sud). 

Per concludere, una zona che consiglio caldamente a chi è amante di ambienti non scontati, ostici, da conquistare passo dopo passo, perché riserva soddisfazioni che vanno oltre quello che le quote contenute sembrano poter promettere. 

Lo spettacolare versante est del Balzonero  – Neri Baldi

In ricordo di Paolo Melucci

di Alfio Ciabatti – Presidente CAI Firenze

Non ho conosciuto Paolo Melucci ma ne ho sentito parlare molto. Ho salito alcune delle sue vie di arrampicata in Apuane, ho letto vari dei suoi scritti e visto diverse sue interessanti fotografie, ho ascoltato amici che lo hanno conosciuto. Sul volume del Centenario e quello del Centocinquantesimo della Sezione ha lasciato traccia della sua grande conoscenza. Indirettamente ho quindi conosciuto una personalità appassionata e competente, un grande e forte alpinista, uno dei primi Istruttori Nazionali di Alpinismo della Sezione di Firenze, ma anche un uomo con una grande vitalità, estro e creatività tipico di grandi alpinisti. Vitalità espressa sempre nei momenti decisivi. Una persona che si è impegnata lungamente per la Sezione. Con lui se n’è andato un altro grande alpinista fiorentino figlio di un’epoca dove c’era ancora spazio all’esplorazione alpinistica e alla scoperta. Oggi è tutto più difficile.  

Buone salite Paolo sulle vette più alte del cielo! 

Paolo Melucci giovanissimo (archivio Alberto Melucci)

… di Alberto Melucci

Giorno triste. Alle due di stanotte è morto Paolo. W Paolo
Paolo vive. I grandi vivono nella memoria degli amici. Mi spiace” 
W W W Paolone
 

Vorrei partire da questi due messaggi, arrivati all’alba del primo di aprile, per fare alcune considerazioni su Paolo, il mio babbo. 
Difficile in questi casi smarcarsi dall’aspetto emotivo, ma ci provo. 
Una delle prime considerazioni che ho fatto è stata la consapevolezza che il babbo ha avuto grandi passioni sin da ragazzo: la fotografia e la montagna. Due passioni vere, profonde, testimoniate nel suo archivio fotografico e nel suo curriculum dell’andar per monti
Passioni presto trasmesse a me, ai suoi amici e allievi durante la sua attività alpinistica. 

Paolo ha iniziato giovane a frequentare la montagna, a 17 anni circa. Nel 1953 frequenta il Corso della Scuola Nazionale di Roccia “Giorgio Graffer”. A partire da quell’anno Paolo coltiva una fitta rete di amicizie con alpinisti del nord Italia, in particolare trentini e veronesi, cosa non scontata per un fiorentino all’epoca. 
Intorno al 1970 abbandona la sua attività di scorribande sulle vette e quella in seno alla Scuola T. Piaz. Come si evince dal suo archivio di corrispondenza, risulta chiaro come Paolo e gli altri giovani di allora si siano impegnati e abbiano creduto fortemente nella nascita di una scuola di Alpinismo della Sezione Fiorentina del C.A.I.: la Scuola Nazionale di Alpinismo Tita Piaz. 
Come vuole la tradizione la montagna è soprattutto condivisione, so per certo che nel tempo il babbo ha condiviso questa passione con molti amici e che questi ne conservano un piacevole ricordo. 
La curiosità lo ha sempre animato, curiosità tanto per gli umani quanto per i libri e i paesi del vicino ed estremo oriente. 
So di parlare a una “platea” che ama l’andar per monti; tutti quelli che lo hanno conosciuto, ricordano e ricorderanno la passione di Paolo, lontana da qualsiasi superficialità, e lo sguardo sempre curioso verso il mondo. 

Paolo Melucci al raduno di Stazzema 2005 – foto di Leandro Benincasi

Il ricordo di Valdo Verin

Paolo Melucci, un altro storico personaggio dell’alpinismo Fiorentino, anzi Toscano, ci ha lasciati. Ma soprattutto mi ha lasciato un amico. 
Fu durante il corso di roccia del 1964, a cui partecipai con mio fratello Mario, che lo conobbi. Era uno degli Istruttori Nazionali e se ben ricordo anche il Direttore in quegli anni della Scuola Tita Piaz. Non mi sovvengono i dettagli di quel corso ma ricordo la grande stima ed il timore reverenziale che avevamo, noi allievi, per lui e per quegli altri Alpinisti che ci dedicavano il loro tempo. Mi è rimasta impressa la sensazione di sicurezza e di competenza che traspariva dai suoi consigli. 
I ricordi si affollano mentre ripenso ai cinquanta e passa anni di frequentazione con Paolo e con il CAI e mi sovviene la forte emozione di quando, più tardi, mi chiese ad andare in montagna con lui. Le salite d’inverno sulle Apuane, i giorni passati insieme in montagna in estate e in inverno, le salite al Monte Bianco, la Oppio al Pizzo d’Uccello, che fino ad allora non aveva mai fatto, salita con me con gli amici di sempre Pietro Passerini e Roberto Pompignoli. Poi come non dimenticare un mitico accantonamento al Monte Bianco, con vari istruttori della scuola ed altri amici, durante il quale fu salita da tutti, ma per vie diverse, la Nord della Tour Ronde per poi ritrovarsi insieme sulla vetta. 
Personalità complessa quella di Paolo, a volte contraddittoria, restio a parlare di se stesso e della sua vita privata condivideva però con gli amici di montagna azioni e pensieri anche molto personali. Portato alla discussione ed al dialogo era capace di dissertare su svariati argomenti riuscendo ad analizzarli da diversi punti di vista. 
Profondo conoscitore dell’ambiente alpinistico e della montagna era un punto di riferimento per coloro che si affacciavano neofiti al mondo dell’alpinismo. Pur avendo un’attività prevalentemente orientalista prediligeva l’ambiente delle Alpi Occidentali e delle Alpi Apuane specialmente in inverno. 
E’stato maestro per noi giovani apprendisti anche sul lato della preparazione atletica indirizzandoci ai metodi di allenamento non ancora consueti per quegli anni ed in particolare alla corsa per fare “fiato”. Ricordo le levatacce mattutine d’inverno, al buio, per andare a correre insieme a lui alle Cascine o all’Albereta prima di andare a scuola. 
La sua cultura alpinistica era notevole, era sempre aggiornato su quanto accadeva nel mondo della montagna e risultava profondamente interessato anche alla storia dell’alpinismo di cui era appassionato cultore, fu infatti anche autore di una breve storia dell’Alpinismo, importante testo per gli allievi della Scuola Tita Piaz. 
Per svariati anni cercò di promuovere una spedizione extraeuropea del CAI di Firenze proponendo svariate mete, iniziò da quella Himalayana che solamente in età avanzata riuscì a visitare insieme al figlio Alberto. Man mano che le cime prescelte erano rifiutate per ragioni finanziarie, tornava alla carica proponendo una meta più vicina e meno dispendiosa, fin a che ne1969 fu decisa una mini spedizione, in completa autonomia, al monte Ararat. Il viaggio fu lungo e pieno di imprevisti attraverso tutta la Turchia. Finalmente la cima fu raggiunta dai tre giovani componenti della spedizione ma non da Paolo che dal campo base non volle salire fino alla vetta adducendo stanchezza per aver guidato per tutto il tempo del viaggio. Ma adesso che gli anni sono passati sono sempre più convinto che tale rifiuto fosse causato, non dalla stanchezza, ma per dare a noi tre giovani il merito del raggiungimento della vetta e della riuscita della spedizione. 
Questo, meglio di altre parole, racconta chi fosse realmente Paolo Melucci. 

Paolo Melucci sulla via Comici alla Grande di Lavaredo (archivio Alberto Melucci)

Il ricordo di Leandro Benincasi

Premetto subito che ho trovato una certa difficoltà a scrivere queste righe su Paolo. E non perché non avessi argomenti su cui parlare. Anzi. Era vero proprio il contrario. Il problema era da dove cominciare. Ho avuto come la sensazione che, introducendo un argomento, rischiasi poi di trascurarne un altro. E questa è proprio una peculiarità di Paolo, quella di possedere una personalità così complessa e poliedrica che non sai mai da dove cominciare. 
Ebbene, comincerò innanzitutto da un aspetto che più di ogni altro l’ha caratterizzato: la grande, grande, grande passione per la montagna. Una passione a tutto tondo, che non si è mai limitata a dare voce a un solo aspetto, ma si è estesa a tutti gli ambiti dell’interesse alpinistico. Lui ha fatto tutto! Ha arrampicato, ha aperto vie nuove di estrema difficoltà, ha studiato il mondo alpinistico, ha scritto un libro di storia alpinistica, ha collaborato alla redazione dei due libri sezionali (quello del centenario e quello più recente dei 150 anni), ha scritto numerosi articoli sul nostro bollettino sezionale, ha approfondito argomenti storici relativi alle attività alpinistiche della Sezione, ha diretto la Scuola di Alpinismo Tita Piaz, contribuendo in maniera sostanziale alla sua crescita e alla sua affermazione a livello nazionale, ha stabilito e sviluppato contatti con le figure di maggior rilievo dell’alpinismo italiano dell’immediato dopoguerra, ha organizzato la prima spedizione alpinistica della nostra Sezione, è stato uno splendido fotografo di montagna, e altro ancora che per brevità si è obbligati a trascurare. 
Dotato di una personalità complessa e poliedrica, è stato spesso voce critica e battagliera all’interno della Sezione, ma sempre con un punto di vista appassionato e coinvolgente. La sua carica polemica, quando si è fatta sentire (e parlo degli anni ‘60), era sempre puntuale e circostanziata, comunque propositiva e mai meramente distruttiva. 
Ho avuto modo di sentirlo molto spesso in questi ultimi anni, quando gli ho chiesto di collaborare alla stesura del nostro libro commemorativo dei 150 anni della nostra Sezione. Memore del suo prezioso apporto nella redazione del precedente libro del Centenario, volevo che anche nel più recente libro celebrativo vi fosse un suo preciso contributo. E così è stato. In quell’occasione ho avuto modo di apprezzare la serietà del suo lavoro, sempre accompagnato però da quel suo agire e pensare tutto fiorentino, a metà strada tra la visione ironica e la scrupolosità dello storico. Devo dire che quando parlavo con lui di temi alpinistici, lo facevo sempre con grande soggezione, nel timore di dire qualche bischerata, qualche inesattezza, che lui poi inesorabilmente stigmatizzava con blanda severità, come a dire: ragazzo, studia, prima di dire delle sciocchezze. 

Per finire, e per non far pensare che l’attività di Paolo si sia limitata alla pura attività speculativa e storiografica, ricordiamo che è stato autore di notevoli ripetizioni di vie classiche estreme, ma anche artefice di aperture di vie nuove di grande difficoltà. A tale proposito è doveroso citare la salita alla Torre Prati (Dolomiti di Brenta) nel 1962 e quella alla Torre Venezia (gruppo del Civetta) nel 1960. Proprio a quest’ultima salita è dedicato un simpatico aneddoto, così come me l’ha raccontato Paolo, che ben descrive la sua personalità, sospesa tra l’intento più serio e l’ironico distacco. 

Paolo Melucci con Leandro Benincasi e Valdo Verin – foto di Alberto Melucci

Paolo si racconta: 

(Quest’aneddoto si riferisce a un fatto accaduto durante la prima salita al diedro sud della torre Venezia, eseguita con il compagno Giancarlo Biasin). 

“Ciò detto, se proprio vuoi sapere qualcosa del mio percorso alpinistico vorrei narrarti un aneddoto per me significativo se non altro perché dimostra che, oltre un certo grado di preparazione, si superi ogni timore. 
Dopo aver salito nel giorno precedente tre tiri di corda, attrezzandoli, abbiamo finalmente attaccato una via nuova, inizialmente sbarrata da grandi tetti che ci proteggono da eventuali intemperie ma che, una volta traversato al di fuori dalla loro verticale, non ci impediscono di beccarci un acquazzone. 
Scendere a quale punto sarebbe stato quasi altrettanto difficile che salire per cui optiamo per quest’ultima soluzione. 
Anche se siamo in estate e quindi le giornate son lunghe, prima o poi vien buio per cui, dopo aver piantato vari chiodi, alcuni di dubbia affidabilità, ci apprestiamo a passare la notte avendo come giaciglio le staffe… 
La preparazione richiede attenzione e tempo, il che non guasta perché riduce il periodo da passare in posizione non proprio confortevole: mi sfilo quindi uno alla volta gli scarponi, facendo attenzione che non volino di sotto, quindi i pantaloni, poi mi metto un paio di provvidenziali mutande leggere di lana, la giacca di piumino e – bevuto un po’ di te – mi dispongo finalmente ad attendere la sospirata alba. Una staffa per ciascuna gamba e una passata dietro alla schiena completano la disposizione della confortevole (?) sistemazione. 
Siamo un po’ distanziati quindi non ho neanche la possibilità di chiacchierare col compagno. 
Finalmente è smesso di piovere e son pure comparse le stelle…non ho bisogno di contarle, il sonno arriva comunque. 
A un tratto son scosso dall’urlo “Paolo, Paolo” che lì per lì mi spaventa. 
In realtà ben più spaventato di me era il compagno che aveva creduto che rantolassi: invece russavo!!” 

Torre Venezia (Gruppo del Civetta), segnata in rosso la via Biasin – Melucci sulla parete sud. (Guida dei Monti d’Italia del C.A.I.

Abetone, ve la racconto in un altro modo

Di Neri Baldi, cartoline Collezione Neri Baldi

Immagine pittorica del 1938 che raffigura
la vecchia stazione a valle della slittovia,
andata distrutta con la guerra

L’albergo abbandonato scorre lento alla mia destra, chissà come sarebbero andate le cose se fosse stato completato… chissà che ne sarebbe stato della Val di Pozze… chissà… 

La valle ora è deserta, in un silenzio irreale nonostante si sia nel pieno della stagione sciistica. 
Giù al parcheggio solo poche altre macchine. Negozi chiusi. Condomìni disabitati. 
Il Covid19 ha messo a nudo la montagna che ora è qui, come sospesa nel tempo, in attesa di qualcuno ne decida il futuro. 
Mi vengono a mente i ricordi da bambino, sempre più sfocati nel fondo della memoria ormai lontana. 
Ecco, quando torno a casa vo a cercare un po’ di fotografie e cartoline che la mamma metteva da parte. 

Un altro mondo. 

Ma chi se la ricorda più la slittovia? 

E le seggiovie, lentissime, con le gambe penzoloni e il vento col nevischio di traverso… 24 minuti ci volevano per salire su dalle Regine! 

Si andava all’Abetone per passare una giornata sulla neve, spesso in torpedone, qualche pista, su alla Selletta e magari in cima al Gomito, ma lo scopo era andare in montagna. Mi ricordo che c’era l’abbonamento a punti; poi inventarono “il giornaliero”, ma quello era per i pistaioli, quelli della Riva e del suo famoso muro con le gobbe dove i bambini ci sparivano dentro, che già davano la prevalenza a quante piste facevi non a che gita avevi fatto. Me li ricordo bene, con i Levis al posto dei pantaloni da sci, per far vedere che loro erano un’altra cosa… 

Ormai più nessuno aveva gli attacchi col mollone, talloniera per tutti e piumino; figuriamoci poi se c’era ancora chi andava giù con gli sci di legno e la camicia di flanella a scacchi, roba da Museo della montagna! 

L’onda lunga della notorietà avuta grazie a Zeno Colò e Celina Seghi si stava però esaurendo e qualcuno cominciava a pensare alla “valorizzazione” (che brutto termine, eh!) della montagna. 

Campolino stava passando di moda con la sua vetusta gabbiovia – che già prenderla era un esercizio atletico non per tutti – la gente andava altrove, c’era l’Ovo con le Zeno, i gusti stavano cambiando. Eppure la Rossa era una pista parecchio bella.  

Che soddisfazione c’era ormai a fare la Stucchi – perché la volevi fare… era una bella discesa da cima al Gomito – ora che avevano fatto il collegamento con l’ovovia e non dovevi più fare il lunghissimo stradello per andare in fondo alla Riva? 

Erano gli anni del boom dello sci di massa con la triste ed incresciosa vicenda del collegamento fra la Val di Luce (eh sì, ora si chiamava così, chi l’avrebbe mai comprato un appartamento alle Pozze?) con il Sestaione che richiese il disboscamento di parte del canale sotto il Dente della Vecchia, autorizzato alla bell’e meglio da un magistrato poi rimosso dall’incarico per quello che aveva deciso senza tener conto di quello che gli dicevano dall’Avvocatura dello Stato e dal Ministero! 

Ma allora si voleva questo e si pensava che fosse giusto: ma perché mai non buttar giù qualche albero per far soldi – ma no, che dico! – per far divertire la gente che ormai andava a sciare come se andasse a Viareggio. 

Abetone Valle delle Pozze

Le case poi, tante e dappertutto, favorendo una volta i parenti della fazione al governo del Comune e la volta dopo quella dell’opposizione di prima che sistematicamente si alternavano alla guida della collettività, senza alcuna visione d’insieme e proiettata nel tempo dei problemi da affrontare. 

Cominciavano a vedersi in giro le prime tavole, nella perplessità di molti: ma come si fa a sciare con quelle cose lì sul ghiaccio che spesso c’è a ridosso dei crinali? 

Il casino delle piste – e la fauna dei loro frequentatori, cittadini portati in montagna dove continuavano a comportarsi da cittadini e non da amanti della montagna e di quel che rappresenta – mi piaceva sempre meno. 

Abetone

Comprai il primo paio di sci da scialpinismo: mi divertivo più a fare cose magari apparentemente irrazionali come il collegamento per cresta Tre Potenze-Campolino (3 X 1500, come lo ribattezzammo con Francesco pensando a 3 X 8000 di Messner… a ciascuno il suo) dove ravani parecchio e scii poco, oppure la traversata sopra il crinale del Poggione… meglio delle mezz’ore di coda per fare qualche Zeno, magari senza fermarsi. 

Abetone  piste foce di Campolino
Sopra
doppia veduta (estiva
ed invernale) del
rifugio di Campolino
nella sua massima
estensione.

Non so, ma a me questa montagna qui mi pareva più montagna e mi piaceva di più di quella specie di parco giochi che stava diventando l’Abetone con la cioccolata con la panna al Lupo Bianco e la bolgia dantesca per avere una piadina con salsiccia al rifugio dell’ovovia. 
Certo – mi direte voi – il mondo va avanti e non si può fermarlo come se fosse uno scatto della macchina fotografica, il mondo cambia, tutto per tutti, benessere a go-go e poca fatica, che vai cercando? 
Divertiti! 
Il progresso, chiamiamola evoluzione, c’è ed è inevitabile; non è però detto che sia meglio a prescindere. 
Non so di cosa la montagna avesse ed abbia bisogno. 

Non so se abbia molto senso parlare ancora del collegamento con gli impianti fra la Doganaccia e lo Scaffaiolo attraverso lo Spigolino, a fronte di inverni sempre meno innevati, o – peggio – di quello fra l’Abetone e il Cimone che si sta affacciando oggi alla ribalta strizzando l’occhio ai finanziamenti dell’Unione Europea. 
Perché? 
A chi giova? 
La speculazione edilizia è stata devastante, portando non un benessere alla collettività ma solo soldi a pochi imprenditori direttamente interessati che hanno pensato – giustamente nella loro prospettiva – al loro conto in banca; però con una ricchezza effimera e volatile: oggi le case sfitte se non abbandonate sono una realtà significativa che non si può ignorare. 
Campolino è stato smantellato con i soldi del Ministero dell’Ambiente che ha voluto giustamente tutelare la peculiarità della omonima riserva e dei luoghi circostanti. La valle del Sestaione è tornata come era. Gli abeti e i faggi sono ricresciuti un po’ dappertutto, anche di là verso il Libro Aperto. Il bivacco del Lago Nero accoglie ancora chi ha fiato per salirvi. 
Di gente all’Abetone ce ne va sempre meno, eppure il posto secondo me è uno di più belli d’Italia: ma ci siete mai stati sul crinale del Poggione? 
Le cartoline di casa ci dicono come era allora. 
La realtà di oggi è sotto gli occhi. 

Abetone - stazione climatica
Panorama verso il Cimone – 1947

Guardo lassù verso il Passo d’Annibale e rimugino: è meglio o è peggio? 

Gli sci con gli attacchini scorrono sulla neve; le pelli profilate tengono ovviamente bene, il gilet di pile mi tiene ben caldo. 
Fantascienza al tempo di Zeno Colò! 
Respiro profondamente, alzo la testa e vedo i cavi della seggiovia, ferma e vuota, triste monumento a se stessa. 

Per non far spengere Fornello

testo di di Giovanni Berti, foto di Neri Baldi

Alla scoperta dei resti di una piccola stazione della ferrovia Faentina,
nei pressi della galleria dell’Appennino, divenuta inutile con la cessazione del servizio a vapore e formalmente soppressa nel 1968.

Non ricordo con precisione quando avvenne la mia prima visita a Fornello. Ricordo però distintamente che, quando iniziai le elementari, andavo spesso coi genitori alla Madonna dei tre Fiumi. Lasciata l’automobile al santuario, salivamo per alcune scalette sino a raggiungere il ponte della ferrovia sul fosso Farfereta, per proseguire lungo il suo corso verso il vecchio mulino in rovina a metà della valle. Il sentiero ovviamente non era ancora segnato e i contrafforti solitari e selvaggi mi impressionavano, come in una favola. Verso mezzogiorno tornavamo alla sorgente solforosa, oggi secca, vicino all’impianto di potabilizzazione, dove era una lastra di pietra che fungeva da tavolo. Mentre consumavo i viveri, restavo in quieta attesa del rombo del convoglio bianco e blu, lungo i binari, che non poco mi emozionava. Solitamente cercavo di indovinare, non appena distinguevo l’inconfondibile rumore, da quale parte venisse e non sempre riuscivo. Adesso il fosso Farfereta è spesso senz’acqua d’estate e il tavolo di pietra è avvolto dai rovi. Il casello, tra le due gallerie, con le finestre murate e le ginestre intorno, mostra i segni di un lungo abbandono e lascia immaginare un diverso passato. Nuovi mezzi dai colori sgargianti hanno preso il posto delle automotrici bianche e blu ma almeno i treni non si son fermati.  

A pochi chilometri, dalla Madonna dei tre Fiumi, verso Marradi, la ferrovia raggiunge la stazione abbandonata di Fornello, nella valle del torrente Muccione. Se confrontata con le immagini di trenta anni or sono, anche Fornello mostra i segni di una inequivocabile decadenza. Il tetto della stazione ormai sta iniziando a cedere in più punti e le stanze sottostanti sono invase dalle assi franate.
Il serbatoio idrico poco distante sembra in condizioni migliori, anche se il vicino casello all’imbocco della galleria degli Allocchi sta per divenire un ricordo. Molte strutture della vicina miniera di pietrisco, compresi i vagoncini, rimangono ben visitabili, anche se nemmeno lì il tempo fa sconti. Non sembra possibile che lì abbiano abitato delle persone. L’eventualità di un recupero di Fornello e dei suoi dintorni, pur auspicata da più parti, deve infatti far i conti con la pericolante condizione attuale. Se il treno tornasse a fermarsi nella valle del Muccione, molteplici potrebbero esser le escursioni e le gite per chi arrivasse, magari collegandosi al Sentiero Italia lungo il crinale. La vecchia fermata potrebbe divenire una tappa per chi percorre lo spartiacque. Nel 2013, due soci della Sezione, Neri Baldi e Alfio Ciabatti, pubblicarono una guida riguardo agli itinerari escursionistici dell’Appennino, intorno alla ferrovia faentina, reperibile nelle biblioteche. Naturalmente, una fermata a Fornello dei convogli non era contemplata. Nel 2018, i segni bianco – rossi del sentiero 56 hanno finalmente tracciato l’itinerario che da Gattaia raggiunge Fornello e la Giogaia degli Allocchi, con alcune diramazioni. Potrebbe esser opportuno anche prevedere qualche corsa di trasporto pubblico su gomma da Vicchio a Gattaia, per consentire agevolmente una traversata da Gattaia a Crespino del Lamone. Illustre vestigia degli anni del vapore, sopravvissuta alle distruzioni dell’ultima guerra, è il maestoso viadotto di fosso Valdicampi, a doppio ordine di arcate, che precede Fornello nella salita da Ronta. Un’opera simile della ferrovia porrettana, presso Piteccio, ebbe minor fortuna forse perché più facile da raggiungere per i genieri tedeschi.  

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Una riapertura della stazioncina pare però destinata a rimanere nel libro dei sogni, cui allegare un romanzo recentemente pubblicato da uno scrittore romagnolo, Il bambino del treno. Nonostante le ripetute affermazioni di voler diffondere i visitatori del capoluogo nel territorio circostante, poco avviene per Fornello, che pure potrebbe aver un ruolo decisivo, in questo senso, magari prevedendo la fermata nei giorni festivi e prefestivi. Fornello potrebbe esser raggiunta anche dal passo del Muraglione, dal Giogo di Scarperia o dalla Colla di Casaglia, dove giungono autoservizi di linea. Recentemente, è stato presentato un progetto di un ampio parco eolico sul crinale principale nei pressi di Villore, non lontano da Fornello. Diverse associazioni, tra cui il Cai, chiedono un ripensamento intorno a questa ipotesi, che potrebbe causare non poche alterazioni al paesaggio e alla rete dei sentieri.

In conclusione, ma non meno importanti, sono da ricordare i diffusi timori riguardo all’eventuale recupero che potrebbe comportare uno stravolgimento della valle del Muccione, con l’apertura di una nuova carrabile. È forse opportuno ricordare che sono stati installati dei dispositivi di protezione dalle frane all’imbocco di alcune gallerie vicino Fornello e un ripetitore per la telefonia mobile, senza alterare in modo significativo il sentiero che sale da Gattaia. L’auspicio finale è che gli Enti locali e le Ferrovie riescano a trovare un accordo nei prossimi anni, per non abbandonare delle montagne, aspre e difficili, che mal si conciliano con certi ritmi odierni, pur essendosi innumerevoli generazioni avvicendate, fino a poco fa, tra le loro pendici boscose. 

Centri storici e montagna toscana

Testo e foto di Carlo Natali

Non è una novità affermare che la Toscana è una regione ricca di storia e per questo dotata di una quantità e qualità enorme d’antichi insediamenti. 
Fra i tanti modi di approccio al tema e di scelta dei centri coerenti con essi si considerano quelli mirati sulle finalità del CAI. 1 Se la montagna può vivere in autonomia, l’uomo ha interagito con essa da tempi millenari e le ha impresso un volto, risultato delle conoscenze e delle opere fatte per far fronte ai suoi bisogni in un ambiente difficile. 
Questa cultura è sedimentata nell’organizzazione del territorio di sussistenza e nei suoi luoghi di vita. Nell’evoluzione subita per adattarsi alle mutevoli esigenze, i centri hanno mantenuto tracce di questa evoluzione, frutto del rapporto uomo-montagna e della civiltà sottesa. E’ questo lo spirito con cui essi devono essere avvicinati e studiati. 
Di conseguenza il taglio di queste brevi considerazioni sui centri storici montani non è turistico, intende entrare in due inedite componenti con cui il potere nelle sue varie forme e soprattutto le comunità li hanno pensati e modellati nel tempo: geometria/razionalità e invenzione/fantasia. 

Razionalità e invenzione nei centri storici toscani del medioevo 

Fin dai tempi antichi la costruzione delle città è stata improntata a principi di razionalità e di geometria: razionalità nella scelta dei luoghi, nell’organizzazione in funzione delle pendenze in grado di garantire il deflusso delle acque, del migliore orientamento per l’uso ottimale dell’energia, nel disegno urbano per mettere al centro i valori della collettività. Nelle città di fondazione ellenistiche (Olinto, Pella, Dion) e romane alla razionalità si affiancava la geometria dell’impianto urbano, che conferiva ordine, chiarezza ed economicità e comunicava agli abitanti un preciso sistema di regole. 

Firenze e le città fondate

Anche se informate a principi di razionalità e geometria, le città sono tutte diverse fra loro con propri caratteri identitari. 
Compiendo un lungo salto temporale e geografico, tali principi si ritrovano anche nelle città fondate nel XIII secolo, agli albori delle prime comunità-stato in Italia. In particolare li ritroviamo nelle cinque città fondate alla fine del XIII secolo dalla Repubblica Fiorentina, pochi decenni dopo le bastides francesi. 
Esse furono progettate seguendo una costruzione geometrica, diversa secondo la grandezza e la forma riferite al popolamento previsto, alle caratteristiche del luogo, alle accessibilità e alle esigenze sociali. 
Fra queste particolare era Castelfranco di Sopra (Ar) (Arnolfo di Cambio – 1299). Prevista su un lembo di altopiano sull’antichissimo tracciato della Cassia Vetus in un luogo stretto fra due incisioni, l’impianto urbanistico è un parallelogramma modulare in braccia fiorentine, appena schiacciato con i lati di proporzioni 7X9 (fig. 1).  

Negli altri insediamenti medievali a impianto non progettato, razionalità e invenzione consentono ancora di materializzare le mutevoli esigenze in insediamenti, sempre sorprendenti per la fantasia espressa dalla cultura locale. Tali principi sono alla base della scelta dei luoghi e della forma degli insediamenti. 

Gli esempi in merito sono infiniti in Toscana: Lucignano (Ar), sulla sommità di un colle dolcissimo di forma ovale e il tessuto urbanistico che ne ripercorre la forma lungo una curva di livello; Pitigliano (Gr), su un ultimo lembo d’altopiano vulcanico delimitato da alte scarpate naturali e dalla rocca aldobrandesca nell’unico punto vulnerabile (fig. 2); Rio nell’Elba, a lato di un importante affioramento idrico connesso alla particolare posizione di due formazioni geologiche (fig. 3)! 

pitigliano
Rio nell'Elba

La funzione originaria orienta la forma 

Se le caratteristiche fisiche del luogo sono importanti nell’orientare la morfologia del centro, il motivo principale dell’ubicazione va ricercato nella funzione che ne ha determinata l’esistenza. Questa è a sua volta fondamentale per l’assetto urbanistico, che nei tratti essenziali resiste nel tempo nonostante le mutate esigenze. Le motivazioni di persistenza sono molteplici, prevalentemente legate al regime patrimoniale e d’uso che la funzione determina con le opere connesse.  
Traccia della persistenza dei segni conseguenti la funzione originaria può essere trovata nella morfologia del centro di scambio. Condizione originaria per la sua formazione è l’esistenza di un incrocio tra percorsi di ampia frequentazione in un luogo pianeggiante, di solito in stretta relazione con un castello. 
La morfologia del centro di scambio è caratterizzata dalla presenza di un ampio spazio aperto edificato perimetralmente e attraversato dai percorsi generatori. L’edilizia è di tipo mercantile, spesso dotata di portico per favorire gli scambi in condizioni climatiche avverse. Casi emblematici Greve in Chianti ai piedi del castello di Monteficalle2 e di Stia (Ar). 
In zona pedemontana Fivizzano (Ms), a valle del Castello della Verrucola, e Stia, sorto come naturale allargamento fra il percorso proveniente dal Castello di Porciano dei Conti Guidi nel punto d’incontro di quelli per la Pieve di Romena e per il Casentino (fig. 4). 

stia
Stia dall'alto

Villaggi aperti e borghi fortificati 

I villaggi aperti sono insediamenti formatisi in modo spontaneo sui percorsi di collegamento con le loro aree di sussistenza, con cui erano perfettamente integrati, imprescindibili per localizzazione e forma. 
L’esclusiva funzione agro-silvo-pastorale, cui potevano affiancarsene altre piccole di servizio, era alla base della loro esistenza; essi erano localizzati in stretta relazione con aree favorevoli alla sussistenza, alimentare ed energetica: pendenza, tipo di suolo, disponibilità d’acqua, condizioni di stabilità. 
Carattere comune ai villaggi aperti è l’assenza di opere di difesa. L’assetto urbanistico era caratterizzato da un’organizzazione strettamente funzionale ai bisogni essenziali della comunità – la prima è la fonte-lavatoio – e privo di emergenze edilizie in assenza di gerarchia sociale, che potevano sovrapporsi nel tempo per interesse superiore.  
La loro localizzazione è strategica nei confronti delle aree di sussistenza (agricole, pascoli, castagneto, bosco), rispetto alle quali si dispongono marginalmente in modo da eroderne al minimo le dimensioni e massimizzarne le potenzialità. 
La casistica è vastissima: tratti di questo tipo di centro sono ben leggibili in Longoio (Val di Lima) con piazzetta di vicinato e cappella in comune con il vicino Mobbiano (fig. 5). 

Longoio

I borghi fortificati sono insediamenti concepiti, o trasformati, per essere protetti da una cinta muraria o altro sistema difensivo. 
Sono nati per una funzione strategica, controllo territoriale, di vie di comunicazione o di confine (Castiglione Garfagnana, Cocciglia (Lu), Popiglio (Pt), la protezione di una o più funzioni strategiche (mercato, governo locale, ecc.) (Fivizzano, Cutigliano, San Marcello P.se) o di protezione della popolazione e dei beni in zona di confine. 
La loro localizzazione arroccata e ben difendibile è pensata per rispondere al meglio alla funzione d’origine. 
Nella maggior parte dei casi, le fasi di formazione e di evoluzione seguono un preciso percorso, che può essere quello rappresentato nello schema di figura 6, ben leggibile nei casi di Granaiola e Vico Pancellorum (Lu) (fig. 7), Serra P.se e altri. 

evoluzione del borgo fortificato
Vico Pancellorum

Il sistema difensivo era di solito costituito da una cinta muraria munita di porte con percorsi d’accesso concepiti per essere facilmente controllati (Castiglione G., Cocciglia, Serra e altri). Nella parte alta del borgo è spesso presente una rocca, normalmente originaria. Anche se diruta o trasformata in altro, questa presenza è riscontabile nella gran parte di essi; oltre i precedenti anche a Benabbio, Casoli, Crasciana, Casabasciana, Lucchio, Boveglio in Lucchesia, e Gavinana, Piteglio, Calamecca, Vellano, Pontito, Castelvecchio nel pistoiese. 
Nella fase castellare e, spesso, nella sua prima espansione il tessuto urbanistico è compatto, con la sola presenza della piazza, luogo di raccolta della popolazione e di esecuzione delle pratiche istituzionali. Come in tutti gli antichi centri, la compattezza garantiva la conservazione energetica e riduceva al massimo l’onere delle fortificazioni e la loro difendibilità. 

Seguendo le caratteristiche morfologiche del luogo, la compattezza del tessuto urbanistico costringeva a soluzioni complesse, razionali e fantasiose. Queste consentivano di ottenere un impianto organico funzionante in grado di comporre le limitazioni fisiche con le componenti urbanistiche (insieme dei fabbricati, percorsi, piazza, strutture difensive, fonte e lavatoio, smaltimento delle acque, ecc.). Organicità che nei percorsi comportava la compenetrazione di rampe, sottopassi, slarghi e muri di contenimento spesso in una sorta di groviglio in cui è tuttavia possibile individuare regole e schemi organizzativi chiari e razionali, come a Lucchio (Lu) (figura 8) o Pontito (Pt) (figura 9). 

Lucchio
immagine decorativa
Foto di Neri baldi

In questi complessi tessuti urbanistici erano particolarmente originali le soluzioni adottate per lo smaltimento delle acque, perché i percorsi non diventassero torrenti, come nella prima espansione di Vico Pancellorum. 

Se tutti i borghi fortificati presentano un’ampia casistica di organizzazione morfologica in rapporto alla funzione originaria e all’orografia, nell’indubbia identità di ciascuno è possibile riconoscere regole organizzative analoghe in situazioni orografiche simili: sono i casi di Calamecca (Pt) e Casabasciana (Lu), ambedue situati su un largo dosso a pendenza sostenuta. Oltre il disegno di un’ex rocca di forma ellittica nel culmine, entrambi gli insediamenti presentano uno stesso schema planimetrico.  

pontito

Alterazioni recenti dei borghi fortificati 

D’altra natura sono gli sviluppi urbanistici recenti dei borghi montani che, per situazioni congiunturali favorevoli, hanno registrato un livello di crescita anomalo rispetto al generale declino. In questi casi gli interventi di adeguamento alla domanda emergente hanno in gran parte stravolto o cancellato caratteri identitari fondamentali. Fra le opere che più hanno inciso sull’assetto urbanistico specie dei borghi castellari sono quelle per la viabilità carrabile con caratteristiche opposte ai percorsi originari e ai centri a essi riferiti. 

Se gli interventi realizzati per il passaggio della FAP e della nuova SS 66 hanno cancellato il volto castellare di San Marcello Pistoiese, più sottile ma non meno devastante è stato il passaggio della SS 12 nel centro di Popiglio, che ha eliminato la piazzetta principale a seguito delle demolizioni effettuate. La strada è diventata il baricentro del recente sviluppo urbanistico, che nega l’originaria identità del centro sorto sul lungo dosso segnato dall’antico collegamento fra le originarie torri di avvistamento e il Ponte delle Campanelle sul Lima realizzato da Castruccio nel 1317, punto di confine e di dogana fra gli stati pistoiese e lucchese (fig. 10). 

popiglio

Qualche riflessione finale 

In questa sede è stata considerata solo una piccola parte dei valori urbanistici fra i tanti culturali presenti nel territorio montano. Oltre a quelli naturalistici, sono stati tralasciati tutti gli altri valori antropici prodotti dalle civiltà locali. 
Tale patrimonio non è acquisito per sempre: la sua percezione muta con i valori dell’uomo, dinamici in conseguenza dell’evoluzione tecnologica, economica e sociale. 
Il turismo gioca una parte importante, ma non può essere la sola o prevalente attività nel territorio montano, per il ruolo fondamentale che questo svolge nell’equilibrio ambientale. 
Il turismo può rivestire un aspetto positivo solo se è sostenuto da una società e da un’economia locale in grado di governare il territorio. Perché questo avvenga, è fondamentale una politica complessiva per le aree interne, ricche di valori ma economicamente deboli nel paese, di cui quelle montane occupano la parte principale.  

Quando il lupo torna in città

Testo di Duccio Berzi (*)
Toto di Tommaso Nuti e Alberto Tovoli

Foto di Nuti

Era il 1975 quando un guardiacaccia della Provincia di Firenze uccise uno strano cane di colore fulvo che si aggirava nelle campagne di Firenzuola, convinto che si trattasse di un cane randagio. Si scoprì presto che non era un cane ma era un lupo, cosa che destò un certo interesse visto che in quegli anni della specie in Toscana si parlava poco o niente. Forse meglio dire poco piuttosto che niente, visto che comunque tra la metà degli anni ’60 e la metà dei ’70 le segnalazioni di lupi tra Firenzuola, S. Godenzo, Londa e le vicine Foreste Casentinesi arrivavano con una certa continuità, a dimostrazione del fatto che qualche nucleo vitale della specie era sicuramente sopravvissuto nei nostri boschi in quel periodo così buio per la fauna italiana. Da quel momento in poi è stata una crescita costante e per molti sorprendente: nei primi anni ’90 la specie aveva già riconquistato tutto l’arco appenninico toscano, a metà degli anni ’90 aveva raggiunto i rilievi tra Firenze e la dorsale, come Calvana, Monte Giovi e Morello, per arrivare ad insediarsi nella piana del Mugello e nelle campagne intorno a Firenze negli anni immediatamente successivi. L’espansione della specie è la diretta conseguenza della crescita delle popolazioni di ungulati selvatici, in primis capriolo e cinghiale, che sono alla base della dieta del predatore. A loro volta, la crescita delle popolazioni preda è stata una conseguenza di reintroduzioni e della rinaturalizzazione del nostro territorio iniziata con lo spopolamento dell’Appennino e di molte aree rurali della Toscana. La popolazione di lupi è quindi cresciuta velocemente sia in termini di distribuzione che di densità, dimostrando di poter facilmente occupare anche ambienti periurbani e aree costiere, come il promontorio di Piombino, la Feniglia o i Monti dell’Uccellina così come i dintorni di Firenze, Arezzo, Siena, Pistoia, etc. adattandosi dal punto di vista alimentare a quello che il territorio poteva offrire. In uno studio della Regione Toscana della metà degli anni ’90 si documentava come i lupi si fossero specializzati a cacciare le nutrie lungo l’Ombrone, suscitando sorpresa in tutta la comunità scientifica. L’idea diffusa del lupo che si era nel frattempo diffusa, specie “rara” ed “esigente”, legata alla presenza di aree incontaminate è quindi stata velocemente superata. Del resto, al di là di quelle che sono le dinamiche attuali, basta guardare indietro nel tempo per capire che la fase buia per la specie, coincisa con il culmine della mezzadria, è stata una parentesi piuttosto breve nella storia del lupo mentre nei secoli precedenti il predatore aveva una distribuzione molto simile a quella odierna. Cantini, nel 1803, in “Legislazione toscana raccolta ed illustrata” afferma infatti che “i Lupi e i Cignali non solamente si trovano nelle Maremme nella stagione dell’inverno e in quella dell’estate nelle Montagne, come succede presentemente, ma anche nel cuore della Toscana, ne’ luoghi popolati e vicini alle Città si incontrano questi animali, i quali recano grandissimi danni al bestiame e agli abitanti della campagna”. Per comprendere il declino della specie si consideri anche che fino ai primi anni ’70 la specie era regolarmente cacciata anche con lacci, tagliole e veleni ed un tempo non lontano per chi uccideva lupi, con la “patente” di lupaio era previsto un lauto premio in denaro. E’ anche interessante notare che la nostra regione è stata una delle prime, se non la prima in assoluto, a vietare questo tipo di pratica. Nel 1759 il Granduca di Toscana Francesco di Lorena, abolì infatti le autorizzazioni (dette “patenti”) per i lupari. A questa decisione fece seguito in maniera analoga la Francia, che abolì nel 1787 la Louvaterie Royal, l’unità militare deputata alla caccia di lupi e di orsi, salvo poi ripristinarla con Napoleone Bonaparte nel 1804 a causa dell’esplosione di lupi e relativi danni. E così successe anche in Toscana: dopo 11 anni di sospensione delle “patenti” dei lupari, il Granduca Pietro Leopoldo “informato dei gravi danni arrecati al bestiame dai lupi, i quali dopo l’abolizione delle Patenti dei Lupai si sono moltiplicati” le concesse nuovamente, assicurando anche privilegi speciali “agli uccisori di simili perniciosi animali”

Foto di Tovoli

Lupo e uomo, due specie relativamente distanti sistematicamente quanto simili dal punto di vista sociale e comportamentale. Basta pensare alla relazione di coppia che si instaura tra il maschio e la femmina riproduttivi del branco, monogami a vita, così come alle cure parentali verso la cucciolata, portate avanti da tutta la famiglia di lupi, o i meccanismi di comunicazione ed interazione sociale tra i componenti del branco. Due specie legate tra loro da un eterno rapporto di amore e odio: specie venerata dalle popolazioni nomadi, vedi Gengis Khan, odiata da tutte le culture stanziali, quando la conflittualità con il bestiame domestico accende la miccia della competizione per la sopravvivenza. Conflitti che si ritrovano anche oggi nella nostra società, divisa tra gli “urbani” che nella stragrande maggioranza vedono nel lupo un simbolo positivo della natura selvaggia e i “rurali” che ne subiscono i danni e molto meno il fascino. Tra chi il lupo lo venera e se lo fa tatuare sul proprio corpo e chi lo uccide e lo espone impiccato sui cartelli stradali. 

Foto di Tovoli

I dati più recenti disponibili sulla popolazione toscana di lupo, prodotti dal gruppo di lavoro dell’Università di Sassari, indicano un numero minimo accertato di oltre 100 unità riproduttive. Si tratta di numeri di tutto rispetto, che a breve verranno confrontati con quelli elaborati dal Programma di Monitoraggio Nazionale di Ispra, realizzato anche con la collaborazione dei volontari del Club Alpino Italiano nel corso del 2020-2021. Ma al di là dei numeri assoluti, che pongono la Toscana tra le aree a maggior densità della specie a livello mondiale, è la sovrapposizione tra la presenza di questo predatore e gli insediamenti umani ad attenzionare tecnici e amministratori. Se la gestione della specie in Appenino e nelle zone rurali pone come principale criticità la conflittualità con il settore zootecnico, con tutte le implicazioni di carattere economico che ne derivano, in questo nuovo scenario che si sta configurando, con i lupi ormai stabili nelle campagne intorno alle nostre città, le conflittualità toccano altre sfere e sono di più difficile risoluzione. Si ripropone un po’ il quadro descritto da Cantini nel 1803 dei lupi che arrecano “grandissimi danni al bestiame agli abitanti della campagna” “nei luoghi popolati e vicini alle Città”. Lupi in ambiente periurbano significa da una parte una potenziale conflittualità con i nostri animali domestici, cani o gatti, che possono diventare facili prede, per contro significa anche maggior probabilità di accoppiamento tra lupo e cani vaganti, con la nascita di ibridi fertili, che costituiscono senza dubbio un problema per la conservazione della specie protetta. Significa anche vivere a stretto contatto con un grande predatore che forse non conosciamo davvero nelle sue manifestazioni più truculente, che rientrano a pieno nella sua natura. Siamo pronti per questo? 

Se la soluzione individuata da Pietro Leopoldo per risolvere il problema della diffusione dei lupi e dei relativi disagi creati da questi animali, fu la riapertura della concessione delle “patenti di luparo” è evidente che ora le scelte delle nostre amministrazioni non possono essere le stesse, sia per il quadro normativo internazionale che l’Italia ha sottoscritto, e dal quale non sembra voler uscire, sia per una diversa sensibilità nei confronti della natura che caratterizza la nostra epoca, sempre meno rurale e più metropolitana. Sarebbe comunque disonesto proporre una narrazione in cui le due specie, da sempre in rapporto conflittuale, trovano ora automaticamente una pacifica convivenza, senza che qualche azione importante venga intrapresa. Da questo punto di vista è fondamentale che da una parte vengano quindi attivate tutte le azioni per minimizzare il conflitto con le attività zootecniche, prendendo come esempio le migliori esperienze condotte in Italia, dall’altro che ci sia un’opera di sensibilizzazione e di corretta informazione sulla cittadinanza per fare in modo che siano superati gli stereotipi che ancora circondano la specie e che riducono la capacità d’intervento da parte delle istituzioni, in alcuni casi indispensabili. E anche che si arrivi all’accettazione di un compromesso, forse difficile, tra le parti in causa.  

Lupo – foto di Nuti

Un piano organico di intervento, con al centro le istituzioni delegate, ma con un ruolo per tutti quei soggetti, come il Club Alpino Italiano, disponibili a fare una campagna di informazione e sensibilizzazione laica e basata su dati scientifici.  

Lupi – foto di Tovoli

(*) Duccio Berzi, socio CAI, è un tecnico faunistico. Si occupa di lupi dai primi anni ’90, collaborando con molti enti locali e istituti di ricerca italiani. Presidente di Canislupus Italia onlus (www.canislupus.it), la prima associazione italiana finalizzata alla divulgazione scientifica sul predatore. 

Le foto di Tommaso Nuti sono realizzate nelle campagne del Chianti con fototrappole reflex, mentre quelle di Alberto Tovoli sono scattate in caccia fotografica nell’Appennino tra le province di Pistoia e Bologna. 

Felice Giordano dalla Gran Becca al Kinabalu nell’arcipelago dei Pirati della Malesia

di Giorgio V. Dal Piaz

Felice Giordano, uno dei padri fondatori del Club Alpino (1865), della gloriosa Sezione di Firenze (1868) e della Società Geologica (1881), è stato uno scienziato e un tecnico di alto profilo al servizio dello Stato, amico e fedele esecutore di molti progetti di Quintino Sella, tanto eminente quanto modesto nello sminuire le proprie imprese. Rinomato ingegnere e geologo del Reale Corpo delle miniere, direttore del Servizio geologico e noto alpinista, la figura di Giordano risalta anche per l’esplorazione di terre e mari del lontano oriente. La sua vita è una storia affascinante, in parte già descritta da Marco Bastogi nell’Annuario 2013 [1], parafrasando biografie e articoli [2, 3, 4, 5] che, assieme a contributi recenti [6, 7, 8], sono le fonti di questo breve ricordo di Felice Giordano.
Torinese di nascita (1825), Giordano si laurea all’Università di Torino in ingegneria idraulica e architettura (1847) ed è subito inviato, assieme a Quintino Sella, all’Ecole des Mines di Parigi per un corso triennale di specializzazione, completato da visite a miniere, impianti siderurgici e cantieri navali in Inghilterra, Belgio e Germania [2]. Tornato in patria, nel 1852 è assunto nel Reale Corpo delle miniere e inviato a dirigere la sede di Cagliari per regolare le attività minerarie dell’isola in prospettiva demaniale. Nel 1859 è richiamato a Torino alla direzione dell’Ispettorato e come membro del Consiglio delle miniere. Oltre alle incombenze d’ufficio, Giordano è inviato in Sicilia per valutare la situazione delle miniere di zolfo, di fatto controllate da organizzazioni mafiose, problema che segnala e propone di risolvere ricorrendo al confino in colonie penali. Vi sarà coinvolto, anni dopo, con l’avventuroso viaggio intorno al mondo effettuato per conto del governo alla ricerca confidenziale di una colonia penale per deportare i briganti del meridione e, forse, anche i reduci dell’esercito borbonico che, dopo la sconfitta, non avevano accettato di aderire all’esercito italiano.
Nel 1865 Il Corpo delle miniere, diretto da Giordano, e il Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio (MAIC), a cui afferiva, sono trasferiti a Firenze, capitale provvisoria del Regno, e dal 1871 a Roma capitale. Giordano si dedica alla ricerca di materie prime per l’industria siderurgica civile e militare, all’assetto urbanistico di Roma, alle piene del Tevere, all’Agro pontino e allo sviluppo della rete ferroviaria, con particolare riguardo al traforo del Frejus, in corso d’opera, e al progetto geologico-tecnico per quello del Gottardo [2, 8]. In prima persona gestisce l’avviamento della Carta geologica d’Italia, progetto che, con l’appoggio di Sella, era stato affidato agli ingegneri del Corpo delle miniere piuttosto che ai professori universitari [2, 9].
La vita di Felice Giordano ha prematura fine il 6 luglio 1892 a Vallombrosa, località della Valdarno dove si era recato per discutere problemi del Servizio geologico con il direttore generale del MAIC [2, 9].
Amante della montagna e forte alpinista, nel 1864 Giordano aveva compiuto la seconda ascensione del Monte Bianco, da Courmayeur al Colle del Gigante e attraverso il Mont Blanc du Tacul, impresa che ebbe vastissima e meritata risonanza. Nel 1865 è a Valtournenche, incaricato da Sella a sostenere la guida Jean-Antoine Carrel nella “course” alla Gran Becca (Gran Cervino, Cervino) in competizione con l’inglese Edward Whymper, risultato alla fine vincitore il 14 luglio [6, 7].
Guidato da Carrel, nel 1866 Giordano compie un primo tentativo personale alla Gran Becca, fallito per il persistere del maltempo dopo cinque bivacchi alla “cravate”, una cengia del Cervino a circa 4100 m di quota. Nel 1867 è nominato commissario italiano all’Esposizione internazionale di Parigi, onere che lo tiene lontano dalle Alpi, ma vi torna l’estate successiva e dal 3 al 5 settembre 1868 compie l’ascensione del Cervino con le guide J.A. Carrel e J.J. Maquignaz, salendo per la via italiana del Leone e scendendo per quella svizzera dell’Hoernli [6, 7]. Persa la battaglia sportiva con Whymper, il principale obiettivo di Giordano è ora la ricerca scientifico, rivolta all’esame geologico “passo a passo” della Gran Becca [3, 4, 6].

Figura 1 – Struttura e stratigrafiA del Cervino e delle zone circostanti nei profili di Giordano [10]. La sezione est-ovest si estende da Macugnaga al M. Collon (Vallese) e mostra la Formazione dello gneiss talcoso (micaceo) e gabbro eufotide che, dal Cervino al M. Tabor (Dent d’Herens), si sovrappone in modo regolare sulla Formazione calcareo-serpentinosa, a sua volta posta sullo gneiss antico e sul granito del Monte Rosa. Nella sezione nord-sud la Formazione dello gneiss talcoso e del gabbro (E) si estende dal Cervino alla Dent Blanche e al Weisshorn e ricompare in Val d’Ayas, sopra la Formazione calcareo-serpentinosa affiorante in Valtournanche e in Vallese.


Sollecitato da Sella, nel 1869 Giordano sottopone alla Reale Accademia delle Scienze di Torino la memoria “Sulla orografia e la costituzione geologica del Gran Cervino”, sintesi delle sue osservazioni raccolte durante l’ascensione e nelle precedenti esplorazioni attorno al massiccio [10]. Il lavoro contiene due sezioni che illustrano, con precisione, la struttura e l’andamento geometrico delle formazioni che costituiscono la piramide del Cervino e il suo substrato, caratterizzato da una morfologia più dolce [3, 4, 6, 10]: i due profili (Fig. 1) mostrano la sovrapposizione dello gneiss talcoso (micaceo) e del gabbro eufotide del Cervino sulla formazione calcareo-serpentinosa sottostante, ritenuti da Giordano in successione stratigrafica normale [10].

Ora sappiamo che il Cervino è formato da rocce paleozoiche con metamorfismo alpino, appartenenti a un frammento del margine continentale adriatico (africano), traslato per decine di chilometri a ricoprire la Formazione calcareo-serpentinosa di Giordano, in realtà un insieme eterogeneo di rocce verdi (ofioliti) e sedimenti mesozoici derivati dal bacino oceanico della Tetide che, nel Mesozoico, separava il continente europeo da quello africano, poi suturato nell’Eocene durante l’orogenesi alpina. Discutendo l’età e la struttura delle rocce figurate nei profili, Giordano prese in esame l’ipotesi di Gerlach che le rocce gneissiche del Cervino fossero in parte granitiche e quindi più antiche del loro substrato, situazione che imponeva l’esistenza di una innovativa falda di ricoprimento proveniente da radici lontane e riversata sopra la Formazione calcareo-serpentinosa (Fig. 1), ipotesi che scartò perché troppo fantasiosa e complicata, perdendo così l’occasione di essere l’antesignano della rivoluzione mobilista sorta una ventina di anni dopo [3, 4, 5].

Nel 1872 Giordano inizia la missione confidenziale intorno al mondo, è la persona giusta, scelta dal governo su probabile indicazione di Quintino Sella. Il 22 luglio parte da Napoli e giunge a Bombay attraverso il canale di Suez, da poco inaugurato. Giordano soggiorna a lungo in India, la visita da costa a costa, spingendosi fino ai piedi dell’Himalaya e con una puntata all’isola di Ceylon. Raggiunta Singapore, il 17 marzo 1873 s’imbarca sulla Governolo, una pirocorvetta con ruote a pale (Fig. 2) al comando di Enrico Accinni: la nave fa rotta per le coste nord-occidentali del Borneo, l’isola di Labuan e quella di Banguey, consentendo a Giordano di verificare la possibilità di installare colonie penali in Malesia, progetto contrastato dalle potenze coloniali.

Figura 2 – La Governolo nel Golfo di Napoli, 1866: pirocorvetta costruita in Gran Bretagna per la Marina del Regno di Sardegna, varata nel 1849, dal 1861 in servizio per la Marina italiana, radiata nel 1882; dislocamento da 1700 t (carico normale) a 2279 t (pieno carico), scafo in legno e carena rivestita in rame, lunga 73.89 m, due alberi armati a brigantino, quattro caldaie a carbone, due ruote a pale, armamento 8 cannoni (cortesia dell’Ufficio Storico della Marina Militare).


Ormai è primavera, troppo tardi per evitare i grandi calori e le forti piogge estive. La Governolo costeggia Sarawak, stato malese del Borneo, governato dal rajah bianco James Brooke, a fine mese è a Labuan e ai primi di aprile attracca nella baia di Gaya. Giordano fa visita al sultano del Bruney e ottiene l’autorizzazione per compiere una spedizione nell’entroterra. Il gruppo, con alla testa Felice Giordano, comprende Paolo Bocca, medico di bordo, il guardiamarina Giacomo Bove, due marinai armati e una trentina tra portatori e guide malesi. Il gruppo penetra per una cinquantina di chilometri nella foresta pluviale, incontrando piccoli paesi contaminati dal vaiolo o abitati da tagliatori di teste: la meta è il Kiniballu (Kinabalu), monte granitico di 4095 m, la più alta cima del Borneo. Giordano sale sino a 2700 m di altezza, ma è costretto a rinunciare vedendo le sofferenze dei malesi, seminudi e non avvezzi alle fredde e piovose notti all’adiaccio. L’avventura è descritta da Giordano [11] e nei diari di Bocca [12] e di Bove [13].
Tornati a bordo, la Governolo doppia il Capo Sampangio, costeggia il golfo di Malludu e di Gaya e ai primi di maggio getta l’ancora all’isola di Banguey, che Giordano esplora giudicandola non idonea per una colonia penale. Il tempo stringe, rinunciano a esplorare la baia di Sandakan (sic) e la corvetta lascia il Borneo, diretta verso il Giappone che raggiunge il 13 luglio 1873, dopo scali a Hong-Kong e Shangay. Il viaggio attorno al mondo di Giordano proseguirà, con altre navi, per la Nuova Zelanda e l’Australia, per poi visitare le principali città delle due Americhe e ritornare finalmente in patria nel 1876.
Tornando al Borneo, l’esplorazione è narrata nella monografia per la Società Geografica e in un rapporto inviato al MAIC dal Giappone [11, 14]. In questi documenti Giordano presenta accurate descrizioni della geografia, la geologia, l’ambiente naturale con clima, flora e fauna, l’agricoltura, le popolazioni indigene e gli immigrati, la navigazione, la pirateria, le prospettive commerciali, l’influenza delle potenze coloniali, l’assetto politico e le religioni dei paesi visitati, per concludere con il suo definitivo scetticismo sulla fattibilità di colonie penali e commerciali gestite da tecnici e personale italiano, del tutto inadatti a sopportare il clima tropicale [11, 14]. E’ un quadro dettagliato dell’arcipelago malese, delle sue genti e della loro storia che, come rileva Elio Manzi [15], trovano ripetuti riscontri nei romanzi d’avventura di Emilio Salgari il quale, come noto, non si era mai recato nelle terre e nei mari dei Pirati della Malesia, ma certamente aveva letto la monografia di Giordano.

Riferimenti bibliografici

[1] Bastogi M. (2013). La scoperta scientifica del Grande Cervino. Alpinismo Fiorentino, Annuario.
[2] Corsi P. (2001). Giordano, Felice. Dizionario biografico degli Italiani, 55.
[3] Dal Piaz G.V. (1992). Le Alpi dal M. Bianco al Lago Maggiore. Guide Geologiche Regionali, BE-MA Editrice, 3, vol. I e II.
[4] Dal Piaz G.V. (1996). Felice Giordano and the geology of the Matterhorn. Atti Acc. Scienze di Torino, 130, 163-179.
[5] Dal Piaz. G.V., 2004. La genesi delle Alpi: evoluzione del pensiero geologico dall’Ottocento alla Tettonica delle Placche. La montagna come esplorazione permanente, atti convegno CAI Sesto Fiorentino, 12-19 Ottobre 2002, Edizioni Regione Toscana, pp. 63-71.
[6] Dal Piaz G.V., 2014. Il Monte Cervino: dalla gara per la conquista alle ricerche geologiche di Giordano e Gerlach nella seconda metà dell’Ottocento. In: A. Conte (a cura di) Le Alpi dalla riscoperta alla riconquista. Il Mulino, pp. 239-296.
[7] Crivellaro P. (2016). La battaglia del Cervino. La vera storia della conquista. Laterza & Figli, 211 pp.
[8] Dal Piaz G.V. & Argentieri A. (2021). 150 years of plans, geological survey and drilling for the Fréjus to Mont Blanc tunnels across the Alpine chain: an historical review. Ital. J.  Geosciences, 140/2.
[9] Corsi P. (2013). Quintino Sella e la Carta geologica del Regno d’Italia. In: Quintino Sella scienziato e statista per l’unità d’Italia, Atti dei Convegni Lincei, 269, 177-205
[10] Giordano F. (1869). Sulla orografia e sulla geologica costituzione del Gran Cervino. Atti R. Acc. Scienze, 4, 304-321.
[11] Giordano F. (1974). Una esplorazione a Borneo. Memoria del socio ing. Felice Giordano. Boll. Soc. Geografica Italiana, 8/9, 182-216, con Carta del Nord del Borneo (Tav. I) e Carta dell’isola di Banguey (Tav. II).
[12] Bocca P. (1875). L’Estremo Oriente, impressioni di viaggio del dott. Paolo Bocca, medico a bordo del Governolo. Coi Tipi del Riformatorio di Giovanetti, Bosco Marengo, 301 pp.
[13] Puddinu P. (2014). Un viaggiatore italiano in Borneo. Il giornale particolare di Giacomo Bove (parte I). Regione Piemonte, Provincia di Asti,Astigrafica, 383 pp.
[14] Giordano F. (1875). Sopra l’impianto di colonie italiane nella parte settentrionale dell’isola di Borneo. Cenni del Comm. Felice Giordano, Ispettore Capo del R. Corpo delle Miniere. Annali Ministero Agricoltura Industria e Commercio, 78, 155-238.
[15] Manzi Elio (2013). Geografia Salgariane, Ripartire da Mompracem, in appendice Una esplorazione a Borneo memoria di Felice Giordano 1874. Andrea Viglongo & C. Editori Torino, 109 pp.