Tratto da “In viaggio con Don Cuba” a cura di Lorenzo Bojola – Nencini Editore
di Nelusco Paoli
Voglio narrarvi una salita al Kilimangiaro piuttosto originale; fa a meno dei confort ai quali siamo abituati, rinuncia agli aerei, all’accoglienza turistica, al conforto dei lodge e la cima del Kibo, la più alta del Kilimanjaro, non si chiama Huhuru Peak, portava ancora il nome di “Kaiser Wilhelm”, come l’aveva chiamata il primo salitore. Non solo ma l’avventura non inizia da un villaggio ai piedi della montagna; inizia dalla porta di casa, o meglio, dalla porta della canonica. Si…. voglio raccontarvi di un prete che per scalare il Kilimanjaro è partito da Firenze…. a bordo di una motocicletta.
Il prete, molto conosciuto in Firenze per la sua profonda umanità, per la sua attività pastorale, di assistenza ai ragazzi di S. Frediano e fra i detenuti, si chiamava Don Danilo Cubattoli, ma era da tutti conosciuto come Don Cuba. Di carattere risoluto, audace e sprezzante del pericolo – durante il periodo delle persecuzioni razziali, ancora seminarista, aveva collaborato al passaggio degli ebrei nelle zone liberate – era dotato di un fisico resistente ed era amante della montagna, delle sfide e dell’avventura. Appassionato ciclista aveva sfidato ad una corsa da Firenze a S. Casciano i giovani comunisti di S. Frediano. Il fatto aveva avuto tale rilevanza che “La Domenica del Corriere” gli dedicò la copertina che lo ritraeva in bicicletta, con la tonaca svolazzante, su un dosso della strada staccare gli altri ciclisti che arrancano dietro di lui.
Don Cuba parte da Firenze il 25 aprile del 1954 e dopo cinque mesi di avventure e peripezie conclude il viaggio con la celebrazione di una messa per tutti i lavoratori sulla cima più alta del Kilimanjaro. In sella a due Motom 160 Delfino, con “Steve”, Stefano Ugolini un ragazzo di S. Frediano che ha nel sangue la voglia dell’avventura, soffrendo spesso la fame e vivendo di ospitalità, traversano tre continenti e nove stati, superano pericoli e difficoltà e concludono la lunga cavalcata nel mese di settembre.
Appena sbarcati in Grecia rimangono particolarmente colpiti dalla miseria e dalla desolazione che regna nel paese, prostrato dalla guerra, dall’occupazione e dalla guerra civile, e dallo sconforto stampato sulle facce scure degli abitanti. La prima sera, mentre riflettono su queste miserie in un capannone dove hanno trovato rifugio dalla pioggia battente, vengono avvicinati da alcuni uomini incuriositi dalle moto che si fanno minacciosi appena scoprono che sono italiani. Dopo essere riusciti a chiarire che non hanno fatto parte delle truppe inviate dal Duce a spezzare le reni alla Grecia e all’Albania, nasce un nuovo equivoco. I Greci pensano che Don Cuba sia un medico e uno di loro chiede se gli può curare un dente dolorante. Danilo, non nuovo a queste esperienze – aveva già curato un cameriere durante la traversata – non si perde d’animo: con perizia pratica l’anestesia, estrae dal bagagliaio “le pinze della moto” e procede facilmente all’estrazione del dente.
Percorrendo le fatiscenti strade greche raggiungono in un paio di giorni Atene, dove sono oggetto di curiosità e meraviglia per le moto e per la notizia del loro” raid intorno al mondo” uscita sui giornali cittadini, attraversano la Tessaglia, colpita da un recente terremoto e, con alcuni giorni di dura guida sulle pessime strade greche raggiungono la Turchia dopo un involontario tuffo in un fiume durante un guado.
Il 22 maggio sono Istanbul e proseguono, un po’ via terra e un po’ via mare – alcune strade sono interrotte perché ci sono dei combattimenti – per raggiungere la Cappadocia.
Il Cuba è stupito e affascinato nel mirare le valli della Cappadocia dove “sorgono come un paese lunare, migliaia di coni, piramidi, cilindri di ogni dimensione e forme con dentro case, chiese, monasteri, cimiteri, giardini, campi e acquedotti”. Scorrazzano digiuni fra i monasteri rupestri e vi si sistemano per la notte. La mattina all’alba Stive non si sente tranquillo, è in ansia, vuol partire perché la sera precedente ha notato l’aggirarsi di pastori dall’aspetto poco rassicurante. Aveva caricato le moto per la partenza, mentre Don Cuba si era allontanato per fare delle foto, quando vede avvicinarsi quattro tipi con dei bastoni in mano: “capii subito la mala parata” racconta “e urlai al Cuba perché mi raggiungesse. Con me avevo la pistola e iniziai a minacciarli: Cubaaa.. vieni giù subito perché io li ammazzo.” Lui arrivò di corsa, urlando a sua volta “ ma che ammazzi, siamo tutti fratelli in Dio”, cercò di dialogare con i pastori e per rabbonirli offrì l’orologio d’oro avuto in regalo dalla sorella al momento della partenza. Fu la mossa vincente. Mentre i turchi alla vista del luccichio dell’oro si azzuffano per contenderselo, Cuba e Steve avviano i motori, saltano sulle moto e via di carriera. L’agguato non è finito; sulla strada trovano vari uomini che si sono messi di traverso per ostruire il passaggio. Con tempismo e audacia i nostri vanno loro addosso con le moto in velocità, all’ultimo momento gli uomini si sparpagliarono e fra una nube di polvere e grida incomprensibili Cuba e Stive riescono a passare. Senza voltarsi proseguono la corsa e raggiungono Adana,, dove la dea bendata si presenta loro nelle vesti di una orchestra italiana che gli invita a cena e ad assistere alla loro esibizione nell’unico locale di lusso in quella cittadina di catapecchie. Affamati si siedono a cena nel locale, pieno di facoltosi mercanti turchi. Due scherzosi ragazzi dell’orchestra avvertono il Cuba :“Occhio se tu sei un prete fra poco arrivano le ragazze che fanno la danza del ventre, forse è meglio se lei se ne va”. Pronta è la risposta: “no, no, e un ci penso nemmeno, e c’ho una gran fame e mangio, casomai mi giro da un’altra parte!”.
Su buone strade attraversano Siria, Libano e Palestina; raggiungono via mare Port Said, e poi il Cairo. Da lì una deviazione al cimitero di El Alamein per una preghiera sulla tomba di Dante Cellai, un caduto di S. Frediano; il Cuba celebra la messa in quella landa assolata che da il senso della tragedia e della inutilità della sanguinosa battaglia del 1942.
Dal Cairo proseguono alla volta di Luxor, seguendo una strada lungo il Nilo che sembra ben costruita, ma che improvvisamente si trasforma in una carovaniera in mezzo al deserto che devia verso l’interno e propone varie diramazioni. Privi della guida del fiume e di riferimenti geografici i nostri si smarriscono fra le dune. L’oscurità repentina li costringe a fermarsi; la temperatura si abbassa, non conoscono le costellazioni dello sfavillante cielo tropicale ed è impossibile orientarsi con la stella polare. Non rimane che rannicchiarsi all’ombra delle moto e aspettare il mattino. Nella notte insonne domina il freddo, la paura e lo sconforto, leniti dalle preghiere del sacerdote. All’alba si imbattono fortunatamente in una pista di sabbia, con tracce del recente passaggio di una carovana, e dopo un’oretta di marcia incontrano nuovamente il Nilo. E’ Steve che racconta: “ fu straordinariamente bello vedere il fiume e quelle sponde fangose. Senza acqua dal giorno precedente bevemmo l’acqua del fiume e ci prendemmo l’ameba”.
Ad Assuan (non era stata ancora eretta la diga del lago Nasser) vengono sconsigliati dal proseguire su strada a causa di combattimenti in zona. Occorre trovare un passaggio via nave…. gratuito, data la situazione finanziaria. Le barche in servizio su quel tratto del fiume avevano ai lati delle grandi gabbie per il trasporto delle pecore e dei pastori, per tenere le bestie a distanza dagli altri passeggeri a causa delle zecche. Un generoso comandante di un battello offre il passaggio; in una gabbia vengono caricate le moto ed anche Steve ed il Cuba possono stendere i loro materassini per la notte. Nonostante il rumore assordante del motore, qualche belato e il tanfo di pecora, riposano benissimo con il chiarore sul fiume e le innumerevoli stelle. Cenano con dello zucchero, residuo delle cibarie avute dalle suore di Gerusalemme e si svegliano, freschi e riposati a Wadi Halfa in Sudan.
Anche in Sudan si rendono conto che non possono raggiungere la loro meta, Khartoum, via terra, con le moto e per poter proseguire sono obbligati a far uso della ferrovia costruita dagli Inglesi alla fine dell’ottocento. Stivano le moto nel carro merci e si sistemano per il lungo viaggio “comodamente ” seduti sulle panche della terza classe, mescolati alla povera e colorita popolazione locale.
Lasciano Khartoum per l’Asmara il 22 luglio. Fino a Kassala va tutto liscio; il clima è buono e la strada, anche se lunga e noiosa, fila via dritta nel deserto, ma alla frontiera con l’Eritrea si presenta il “caso” delle rivoltelle. Alla partenza dall’Italia Cuba e Steve avevano un revolver ciascuno e al passaggio delle frontiere il Cuba si infilava entrambe le armi nella cintura e sopra indossava la tonaca. Nessuna guardia di frontiera si era permessa di guardare sotto la tonaca del prete e lo stratagemma aveva sempre funzionato. Con la frontiera Eritrea non ricorrono a questo trucco pensando di dover trattare con bonari funzionari italiani, ma il lato sudanese è vigilato da militari britannici ai quali appare un barbuto in sella ad una motocicletta, con due pistole nella cintura; più che un prete sembra un guerrigliero di Pancho Villa. Per fortuna l’equivoco viene chiarito con l’ufficiale responsabile e i nostri riescono a varcare il confine eritreo, questa volta con Cuba vestito da prete – con la tonaca – e raggiungere Tesseney.
Dopo aver atteso per lunghi giorni il visto per l’Etiopia, lunedì 9 agosto riprendono il cammino con direzione Asmara. Mentre procedono sull’altipiano eritreo notano una densa nube scura che si addensa alle loro spalle. Conoscendo i violenti acquazzoni africani sono incerti se proseguire veloci alla ricerca di un ricovero oppure montare la tenda, quando sul serbatoio di una moto si schianta una grossa cavalletta. “ Il cielo era oscurato quasi del tutto, era una cosa impressionante! Stava arrivando il flagello dell’Africa, milioni di locuste, ognuna grande come mezza mano, si schiantavano al suolo e planavano a terra e su di noi” racconta Steve” si infilavano anche fra i vestiti e le sentivamo camminare sulla pelle con le loro zampette spinose”. Lo sciame passò e quando il cielo fu di nuovo libero milioni di cavallette si erano posate sui nostri centauri, sulle moto, sul suolo, sugli arbusti, divorando ogni forma di vegetazione.
All’Asmara sono accolti festosamente dalla colonia Italiana che li coccola e li colma di attenzioni e per la festa dell’Assunta sono invitati ad una escursione dalla sezione del CAI, lungo le rive di un incantevole fiume.
Salutati dalla comunità italiana riprendono la strada e il 17 agosto passano il confine con l’Etiopia e si fermano a Macallè. Visitando la cittadina rimangono amareggiati e stupefatti da una barbarie che credevano ormai un atroce ricordo della storia: il mercato degli schiavi!
Ripartono nel pomeriggio con l’intenzione di fermarsi a Maychew dove, secondo le indicazioni della comunità italiana, un connazionale che sapeva del loro raid li avrebbe accolti a braccia aperte. Arrivano che è già notte, bussano alla casa indicata, a lato di una segheria, ma l’accoglienza non è delle migliori, tant’è che bruscamente Steve chiede il permesso di potersi accampare in uno spiazzo davanti alla segheria. L’ospite li fa entrare, offre loro la cena e scusandosi racconta che è disperato perché è stato dichiarato fallito il giorno stesso. “Se avessi un mezzo” dice accennando alle moto” potrei salvare qualche cosa prelevando una somma che ho disponibile in banca a Dessie” e aggiunge “dovrei farlo entro domani alle undici, ma non dispongo di alcun mezzo”. Dopo queste parole Steve, con l’impulso della gioventù, si offre di recarsi in banca a Dessie. Bevuto un caffè forte e riempito il serbatoio con la benzina della segheria, benché stanco e la notte fosse particolarmente scura salta in sella e parte. Dopo un’ora di viaggio quando la stanchezza della strada accumulata inizia a farsi sentire, il motore inizia a scoppiettare e poi si ferma. La benzina della segheria, con residui di truciolo, ha messo fuori uso il carburatore. La voglia di sdraiarsi per terra e dormire è grande, ma la vista di tanti occhi fiammeggianti nell’oscurità induce Steve a cambiare in fretta il carburatore – ne aveva uno di riserva – e ripartire.
Traghetta due fiumi, in uno é necessario minacciare con la pistola il traghettatore e offrire del denaro e alle prime luci dell’alba, a pochi chilometri da Dessie, annebbiato dalla stanchezza, si scontra con un camion che procede in senso opposto. Con un forte trauma cranico e la gamba destra rotta viene ricoverato in un lebbrosario dove un medico tedesco, un po’ alticcio decide di amputargli la gamba. Quando Cuba arriva a Dessie e viene informato dell’incidente si reca al lebbrosario, appena in tempo per sottrarre Steve dalle mani del macellaio. “Ovvia, e sta proprio bene! Lo posso portare via!” dice un Don Cuba risoluto. Aiutato dalla comunità italiana Steve viene inviato in aereo a Addis Abeba dove viene curato dal medico personale del Negus e una famiglia italiana della città lo ospita per il periodo della convalescenza.
Cuba prosegue in moto il viaggio fino alla capitale. Gli è chiaro che non può proseguire da solo e che non può ignorare le pressanti richieste di rientro avanzate dal cardinale. Gli italiani di Addis Abeba con grande cameratismo e generosità si offrono di pagare in rientro in aereo in Itala per lui e per Steve convalescente.
Frustrato e amareggiato il Cuba si vede sfuggire l’obiettivo ormai a portata di mano. Anche gli Italiani sono dispiaciuti – l’impresa rappresentava nel loro immaginario il riscatto della patria – e disposti ad aiutare. Cuba, con il loro aiuto, invia Steve a Massaua per imbarcarsi per Napoli, mentre lui andrà al Kilimanjaro in aereo, per rientrare in volo in Italia il 14 settembre. “Tutti gli italiani di Addis Abeba mi danno i mezzi per il viaggio aereo, perché vogliono anche loro contribuire” scrive nella lettera del 27 agosto inviata a Ghita Vogel.
Il più è stato fatto, ora rimane la “cosa più facile”, l’ascensione della montagna. Il 5 settembre arriva in aereo a Nairobi, trova ospitalità nella missione cattolica di Moshi e con un padre nero, parlando la lingua dei preti – il latino – inizia la faticosa salita. Prima traversano la foresta, successivamente incontrano le protee, i seneci e le lobelie. All’Horombo Hut a 3.700 m, nel regno dei deserti di alta quota, il compagno accusa un malore che in pochi minuti ne provoca il decesso per arresto cardiaco. Don Cuba non demorde e continua l’ascensione in compagnia di due portatori. Traversa la “sella dei venti”, supera la Gilman point e all’alba del’11 settembre, sotto il limpido cielo africano, realizza la sua missione: celebra la messa per tutti i lavoratori sulla cima del Kibo con il suo altarino portatile.
Stefano Ugolini “Steve” – n, a Firenze il 26.03.1930 Era stato autista di Don Facibeni e di Giorgio La Pira. Si era poi specializzato come artigiano del legno ed aveva aperto un’azienda artigiana a Scandicci. Deceduto il 1.3.2017 a Tignanello
Danilo Cubattoli “Don Cuba” – n. S. Donato in Poggio il 24.09.22. Molto attivo fra i ragazzi di S. Frediano e fra i detenuti. Deceduto a Firenze il 02.12.2006