“perchè non sali il dilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia?” di Roberto Masoni

Annuario 2007

Un pò di Divina Commedia nella mia libera interpretazione

Scriverò di un viaggio fantastico, un viaggio dove il monte è avventura e sollievo, imprevisto e bellezza. Il viaggio di un uomo (Dante) che con il suo pellegrinare … simboleggia la ragione umana e la scienza divina raffigurate nel maestro, al quale affidarsi per superare le proprie paure (Virgilio), e nell’amata (Beatrice, la scienza divina) che appare quasi d’incanto, nel momento in cui il maestro volutamente si oscura, e della quale il nostro protagonista ne cerca, con rara intensità, il sorriso e la voce ben sapendo di non essere ricambiato nei sentimenti. Il racconto di un’avventura che ha nel suo significato più autentico l’illuminazione del pensiero attraverso la rinuncia alle passioni terrene per trovare, alfine e grazie all’amore, coscienza e salvezza.

L’impatto col monte non tarda. Per quanto figurato, è subito nel primo canto che fa la sua apparizione per voce di Virgilio:

“Ma tu perché ritorni a tanta noia

perché non sali il dilettoso monte

ch’è principio e cagion di tutta gioia?”

La noia è quella umana, quella che oggi definiremmo quotidiana, ed il monte si materializza come strumento d’ascesa personale per avere accesso alla felicità dell’altezza. La felicità … quella agognata con l’amata Beatrice  che proprio nel cantico successivo fa il suo ingresso. Una Beatrice descritta dagli occhi lucenti come una stella e dalla voce angelica. Una Beatrice che appare a Virgilio per rincuorare Dante ed incoraggiarlo ad andare avanti nonostante le sue paure e nonostante ciò che la “diserta piaggia”, cioè la selva oscura, può riservargli:

“venni qua giù del mio beato scanno,

fidandomi del tuo parlare onesto,

ch’onora te e quei ch’udito l’hanno […]

E venni a te così com’ella volse;

d’inanzi a quella fiera ti levai

che del bel monte il corto andar ti tolse”

Virgilio, lacrime agli occhi, esorta Dante a proseguire, a superare le sue paure, anche quella di una lupa che gli sbarra il cammino. Trova conforto nelle parole del maestro e riparte verso il monte dove lo aspetta un sentiero “alto e silvestro”, arduo e selvaggio. Per trovare tracce di monti dobbiamo andare al canto XII dove si fa clamorosamente cenno all’Adige ed a Trento:

“Era lo loco ov’a scender la riva

Venimmo, alpestro e, per quel che v’er’anco

Tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.

Qual è quella ruiina che nel fianco

Di qua da Trento l’Adice percosse,

o per tremoto o per sostegno manco,

che da cima del monte, onde si mosse,

al piano è sì la roccia discoscesa

ch’alcuna via darebbe a chi su fosse

Pensate … Dante e Virgilio si fermano, prima di riprendere poco dopo il cammino, sul bordo del fosso che li divide dal basso Inferno. Si affacciano su una frana, una “ruiina”, che a Dante ricorda quella causata da un terremoto in prossimità dell’Adige, vicino a Trento. La caduta della “cima del monte” ha creato la frana ed i fianchi del fiume sono divenuti ripidi e malfermi.

Ma ancor più stupefacente è scoprire come, pochi canti dopo (nel XVI), trovi posto nel racconto, seppur velocemente, il Monte Viso, ovvero la montagna simbolo del Club Alpino Italiano:

Come quel fiume c’ha proprio cammino

prima dal Monte Viso ‘nver’ levante,

da la sinistra costa d’Apennino,

che si chiama Acquacheta suso, avante

che si divalli giù nel basso letto,

e a Forlì di quel nome è vacante,

rimbomba là sovra San Benedetto

de l’Alpe per cadere ad una scesa

ove dovea per mille esser recetto;

così, giù d’una ripa discoscesa,

trovammo risonar quell’ acqua tinta,

sì che ‘n poc’ ora avria l’orecchia offesa.

Io avea una corda intorno cinta,

e con essa pensai alcuna volta

prender la lonza a la pelle dipinta.

Quanta poesia … Dante prosegue nella sua discesa all’inferno, sull’orlo del settimo cerchio trova un grande salto roccioso che lo separa dal cerchio successivo e che genera una rumorosa cascata da lui definita talmente sanguigna da aver l’orecchio dolente. L’associa a quella dell’Acquacheta e fa un riferimento geografico al Monviso. Vi ricorre per indicare la realtà del fiume che scorre fra le sponde dell’Acquacheta.

Più curiosa, se la consideriamo reale, è l’immagine di Dante alpinista: il passaggio è controverso, anche fra gli esperti. Virgilio chiede a Dante la corda che porta legata intorno ai fianchi, il caso la richiede per superare indenni il salto, il dirupo. Ma la corda è intesa, dai più, come un freno agli istinti legati alla sessualità tanto che viene formulata in un momento particolare del poema, dopo aver cioè visitato il girone dei sodomiti. Come non dimenticare la figura di Brunetto Latini.

Nonostante l’Inferno ci offra molti altri accenni alla montagna è, indubbiamente, con l’ingresso nel Purgatorio che il concetto di Monte prende fortemente forma. Se l’Inferno è un abisso fatto ad imbuto, il Purgatorio è rappresentato a forma di cono, di montagna, nella quale trovano spazio sette cornici corrispondenti ai sette peccati capitali. Dante è appena uscito dall’Inferno attraverso una “burella”, davanti a lui, nel mezzo delle acque, s’innalza la montagna. Sulla spiaggia del Purgatorio l’alba è luminosa, l’aria limpida, la luce vince le tenebre dalle quali è appena uscito. Il processo di purificazione destinato alle anime del Purgatorio si compie con la salita del monte perché solo con il cammino, e quindi solo con il pellegrinaggio (per inciso dirò che trek/trekking/trekker è sinonimo di migrazione, pellegrinaggio), possono sperare nell’espiazione delle proprie colpe e nella redenzione. Leggiamo …

“Noi eravam tutti fissi e attenti

a le sue note; ed ecco il veglio onesto

gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?

qual negligenza, quale stare è questo?

Correte al monte a spogliarvi lo scoglio

ch’esser non lascia a voi Dio manifesto”

Un vecchio saggio incita le anime a correre velocemente al monte (tutto il Purgatorio è fondato sul concetto di velocità e lentezza) e ad alleggerirsi dei peccati che non permettono di gustare la grazia divina. Virgilio e Dante giungono intanto …

… a piè del monte;

quivi trovammo la roccia sì erta,

che ‘ndarno vi sarien le gambe pronte. […]

Or chi sa da qual man la costa cala,

disse ‘l maestro mio fermando ‘l passo,

«sì che possa salir chi va sanz’ala?»

E mentre ch’e’ tenendo ‘l viso basso

essaminava del cammin la mente,

e io mirava suso intorno al sasso,

Una parete di roccia sbarra loro la strada. A stento possono pensare di poterla superare con le proprie gambe. Ma è là che si compierà la loro missione, sulla cima del Purgatorio dove si trova il giardino del Paradiso. Virgilio si incarica di trovare la migliore via di salita, Dante guarda in alto, attratto dalla sommità della montagna e volge l’attenzione ad altre cose più in alto, verso il cielo:

lo ‘ntento rallargò, sì come vaga,

e diedi ‘l viso mio incontr’al poggio

che ‘nverso ‘l ciel più alto si dislaga.

E’ rivelatore, lo leggiamo nella terzina seguente, il fatto che la montagna sia interpretata come scuola di spirito. Quanto più l’uomo sale, tanto più è facile comprendere e più leggero proseguire (concetti straordinariamente attuali dei quali hanno discusso molti grandi dell’alpinismo, soprattutto del secolo passato e non solo europei ma anche provenienti da altre scuole come quelle delle assolate pareti californiane):

Questa montagna è tale,

che sempre al cominciar di sotto è grave;

e quant’om più va sù, e men fa male

Come dire … quanto più ti sembrerà facile procedere, tanto più, al termine di un impegnativo sentiero, dovrai fermarti e riposare. Cancellare il tuo affanno:

Però, quand’ella ti parrà soave

tanto, che sù andar ti fia leggero

com’a seconda giù andar per nave,

allor sarai al fin d’esto sentiero;

quivi di riposar l’affanno aspetta

Poi … tutto alfine si conclude svelandoci i segreti dell’ascensione riuscita:

Noi salavam per entro ‘l sasso rotto,

e d’ogne lato ne stringea lo stremo,

e piedi e man volea il suol di sotto. […]

Lo sommo er’ alto che vincea la vista,

e la costa superba più assai

che da mezzo quadrante a centro lista. […]

Sì mi spronaron le parole sue,

ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui,

tanto che ‘l cinghio sotto i piè mi fue.

A seder ci ponemmo ivi ambedui

vòlti a levante ond’ eravam saliti,

che suole a riguardar giovare altrui.

Li occhi prima drizzai ai bassi liti;

poscia li alzai al sole, e ammirava

che da sinistra n’eravam feriti.

Ben s’avvide il poeta ch’ïo stava

stupido tutto al carro de la luce,

ove tra noi e Aquilone intrava.

Ci alzavamo sulla difficile salita, dice il poeta, allo stremo delle nostre forze, utilizzando sia le mani che i piedi. L’orizzonte visivo limitato ed il pendio così ripido da sembrare una linea verticale. Dante chiede aiuto al “maestro” che con le sue parole lo aiuta a procedere carponi fino al bordo della cima. Raggiuntala si siedono e rivolti a levante osservano il tratto di parete superato. Dante  è stanco, la fatica si fa sentire. Il vento (l’Aquilone) accarezza le sue membra ed egli, alpinista sui generis, si sofferma a studiare l’itinerario appena fatto.

Le citazioni sul monte si susseguono. Finalmente, e solo nel XXX canto, appare di nuovo Beatrice, con un velo che le cinge la testa ed incoronata di ulivo, ma lo fa per rimproverare Dante:

Tutto che ‘l vel che le scendea di testa,

cerchiato de le fronde di Minerva,

non la lasciasse parer manifesta,

regalmente ne l’atto ancor proterva

continüò come colui che dice

e ‘l più caldo parlar dietro reserva:

Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.

Come degnasti d’accedere al monte?

non sapei tu che qui è l’uom felice?

Guardami, gli dice, e scopri chi sono. Sapendo quanto Dante soffra lo accusa di essere indegnamente salito sul monte. Non sai che il monte è luogo per uomini felici? Nella dura voce di Beatrice non c’è nessuna pietà. Ma così come la neve che gela gli alberi dell’Appennino per poi gocciolare allo spirare dei venti (Sì come neve poi, liquefatta, in sé stessa trapela, pur che la terra che perde ombra spiri), così Dante resta senza lacrime all’udire il canto degli Angeli.

Accompagnato dall’amata Beatrice, Dante entrerà in Paradiso dove ancora una volta parlerà più volte di monti e di rupi. Ho iniziato dicendo che avrei scritto di un viaggio fantastico, un viaggio che, se vorrete, riprenderò in futuro facendo richiamo alla mia modesta memoria e fantasia. Quella fantasia che, per non venir meno allo spirito dantesco,  già volge

… “il mio disio e ‘l velle

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

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