Annuario 2006
Quando in Redazione abbiamo scelto l’Appennino come tema centrale di questo Annuario non potevamo ignorare l’aspetto più drammatico che lo interessa. D’altronde avevamo già affrontato il tema della guerra sulle pagine dell’Annuario dedicato alle Alpi Apuane a conferma …che il dovere di cronaca deve prevalere a prescindere dagli argomenti. Scrivere di guerra era un lavoro sporco che qualcuno doveva pur svolgere.
Molti lettori si meraviglieranno nel leggere questo mio contributo, di solito i miei argomenti sono altri. Ma la vita non è solo alpinismo, per questo spero accolgano con simpatia questo modesto e quantunque sofferto impegno nel quale ho scelto di fondere, sperando che i lettori lo apprezzino, ricordi ed eventi storici.
Avevamo una casetta in affitto alla Traversa, negli anni 80/90, tre stanze con annesso prato all’inglese dove prendevano forma i sogni di fuga dallo stress quotidiano e dove, soprattutto nei mesi estivi, trovavamo sollievo dalla dantesca calura di Firenze.
Alla Traversa, un tiro di schioppo dal Passo della Futa, vivevano, ancora in buon numero, alcuni parenti di mia moglie la cui famiglia era, ed è, originaria di Cornacchiaia, piccolo complesso di case appoggiato sull’opposto versante. E’ da Cornacchiaia che passava, prima della costruzione della strada del Giogo, la vecchia direttrice che permetteva il collegamento con Firenze dopo aver superato il Passo dell’Osteria Bruciata. Di quei tempi alla Traversa ricordo non solo i formidabili e allegri banchetti delle sagre paesane, immancabilmente culminanti con esilaranti esibizioni di ballo nelle quali mi rendevo protagonista in negativo essendo clamorosamente negato in questo tipo di attività, ma anche grandi girate a piedi, nella libertà totale che solo i boschi sanno infondere. Spesso ci spingevamo fino al Passo coprendo un tratto dell’antica via romana che, quasi al culmine del crinale, congiunge Sasso di Castro alla Futa.
Assidui e leggerissimi compagni d’avventura in queste nostre esplorazioni erano i bambini: mia figlia Caterina ed alcuni figli di cugini, tutti rigorosamente armati con incerte borracce a tracolla, mantellina gommata per porsi al riparo da eventuali scrosci improvvisi, e, guai a non averlo, bastone personalizzato al quale ognuno di loro aveva diligentemente lavorato ore ed ore per renderlo adeguato ai propri desideri da adulto. Un altro elemento contribuiva, talvolta, a rendere rituali quell’uscite: la visita al Cimitero di Guerra Tedesco, dove lavorava un nostro cugino, e che incontravamo appena lasciato il bosco, una volta usciti sulla statale, come a ricordarci che quel luogo non era solo luogo di gradevoli scampagnate ma anche luogo della memoria. Ecco allora che, non tanto per volontà dei grandi quanto per l’innata curiosità dei piccoli nel rivolgerci inviti, cercavo di spiegare loro il significato di quel monumento di guerra proteso verso le nuvole, dalle linee altrettanto decise, cercando di darne raffigurazione pratica quale fine ultimo di soddisfare le loro innocenti ed incalzanti domande.
Domande alle quali ero solito dare, a dire il vero, solo risposte evasive e sofferte. Specialmente sofferte per me, cresciuto alla scuola di Padre Balducci dove era sacra l’inviolabilità delle culture altrui come pure l’identità di quell’uomo planetario inteso come uomo di pace (e di Vangelo, anche se a me interessava meno) e dove, non ultimo, ci era chiaro il senso d’immoralità della guerra. Per me che avevo speso una gioventù nel tentativo di riconoscere, e con non poco sforzo, le verità così razionali ma assolutamente ingombranti di Don Milani, a maggior ragione, in un periodo in cui l’obiezione di coscienza era ancora confinata entro limiti sottili. Per me che avevo difeso – ed ancora oggi difendo – i principi generali contro la guerra cresciuti ed alimentati nella Firenze di Giorgio La Pira che avevano così tanto influenzato ed ingigantito il senso di appartenenza a questa mia città, amata e rispettata da sempre, fin da piccolo, divenuta, proprio con La Pira, culla e centro mondiale della fratellanza e della tolleranza fra i popoli. La città delle città, emblema di una civiltà di pace – oggi spesso dimenticato o, peggio, ignorato dalle nostre Amministrazioni – che per prima al mondo, già nel 1439, aveva saputo confrontarsi sul piano delle dottrine universali, dando vita ad un atto formale di unità fra la Chiesa di Occidente e quella di Oriente. Quella città che, osservata con rispetto dal mondo intero e con orgoglio dai suoi cittadini, ha dato il via ad una “germinazione di pace” e che si è resa degna, come diceva proprio La Pira, “del suo passato, anzi del suo destino originario, perché ha saputo far suo il problema della pace, del disarmo e dell’unità del mondo”. Quanta ricchezza da trasmettere e quanta … tristezza nel vedere la città che oggi siamo.
Ma ecco anche spiegato perché le mie risposte non potevano che esse re sofferte. Come spiegare a quei bambini la follia collettiva della guerra? Una guerra che aveva coinvolto uomini, donne, anziani e, talvolta, anche bambini della loro età. Come spiegare che loro, i bambini, nascono senza odiare nessuno e dover ammettere invece, con un groppo alla gola, che anche qui, dalla Futa, era passato l’odio degli uomini, quella follia che ha riempito di lapidi un terreno altrimenti libero per i loro giochi innocenti.
Anche oggi, come allora, racconterò di una storia che inizia nell’estate del 1944. Che inizia dal significativo numero di mesi in cui le forze di occupazione tedesche sono costrette ad una estenuante ritirata segnata da ingenti perdite. L’estate è calda, lentamente le forze alleate risalgono la penisola. L’11 agosto 1944 è un venerdì, verrebbe quasi da dire un tranquillo venerdì di guerra. Il Comitato di Liberazione toscano proclama l’insurrezione, Firenze è svegliata dalla campana della Martinella che dalle 6,45 del mattino suona a distesa dalla Torre d’Arnolfo, Sandro Pertini, indimenticato Presidente, scriverà un libro su questo episodio intitolato proprio “E la Martinella suonò”…. Lo stesso giorno Firenze sarà liberata, almeno così è dato, anche se ci vorranno ancora molti giorni a riportare Firenze alla normalità, perlomeno fin quasi la fine di settembre. Per difendersi dall’avanzata delle truppe alleate, il Gen. Kesserling aveva già deciso di costruire, fin dal 1943, una linea difensiva poco a nord di Firenze funzionalmente capace di rallentare l’agonia di un esercito ormai segnato dagli eventi e rassegnato, immagino con sgomento, a un futuro non solo incerto ma anche doloroso. Soldati, talvolta poco più che ventenni, inseguiti da altri soldati, uniti dalla stessa età e dalla medesima angoscia di perdere la vita, divisi soltanto dal colore della divisa, dalla nazionalità – italiani, inglesi, tedeschi, americani, greci, polacchi ma anche orientali, africani, brasiliani – e dal colore della pelle: bianchi, rossi, neri, mulatti. E ad accomunarli, oltre a ciò sono le armi: i fucili, le bombe e quant’altro servisse per raggiungere lo scopo. Poco importa che molti di loro, specialmente fra le linee tedesche, non avessero mai sparato un colpo, la parola d’ordine era una sola: uccidere per garantirsi terreno in nome …
… in nome di cosa, ditemelo
Ecco allora che il nostro Appennino diventa una trincea a cielo aperto, da La Spezia a Cattolica per 320 chilometri. 18.000 genieri tedeschi, 50.000 operai italiani e 2.000 tecnici slovacchi, arruolati in quella macchina da guerra chiamata Todt, si inventano una linea di difesa, sostanzialmente basata sugli ostacoli naturali ed i rilievi montuosi. Non solo su questo, tuttavia, fanno affidamento i cervelli della Wermacht, costruiscono infatti nei luoghi critici, rifugi, bunker, reticolati, campi minati, fossati anticarro talvolta lunghi chilometri come a Santa Lucia, vicino alla Futa. Traendo ispirazione dai Goti, popolo germanico che grazie a fortunate incursioni nell’Europa dell’est seppe giungere fino al Mar Nero dopo aver conquistato considerevoli spazi di territorio romano, la battezzano “Linea Gotica”, un nome che, tuttavia, sarà presto sostituito con “Linea Verde”. La linea difensiva va dalla valle del Magra, a sud di La Spezia, per estendersi poi attraverso le Alpi Apuane fino a raggiungere una serie di capisaldi in coincidenza con i principali valichi appenninici fra cui, strategicamente, il Passo di Vernio e quello della Futa. Una linea che prosegue lungo la valle del fiume Foglia fino a raggiungere le alture fra Pesaro e Cattolica sull’Adriatico dove il monte lascia spazio all’assottigliarsi della natura, alla bellezza del mare.
Il Passo della Futa ha dolci pendii, agli occhi dei villeggianti risulta facile, oggi, farne un luogo di riposo, di intervallo dal caos di tutti giorni. Difficile pensare che proprio quei dolci pendii e le sue mancate asprezze siano stati un luogo strategico della Linea Gotica. Eppure … il Passo della Futa può assicurare difesa e collegamenti, la statale 65 è un’ottima via di comunicazione che può offrire immediati benefici strategici e favorire i rifornimenti; ma proprio i suoi dolci pendii lo rendono un varco vulnerabile, un po’ come la costa adriatica. Per questo viene fortificato con maggiore attenzione. L’avanzata lungo il Mugello è dura, drammatica: assalti, scontri prolungati, ripiegamenti, talvolta si combatte ferocemente all’arma bianca. La vita delle popolazioni locali è sconvolta, la guerra porta dolore, distruzione, desolazione. Le mani fra i capelli sono mani fredde di paura ma la speranza rimane … la guerra passerà, si tornerà a vivere anche se nessuno si fa illusioni.
L’estate del ’44 si avvia al termine, il caldo diventa più sopportabile, l’esito della guerra impalpabile. Contrariamente a quanto pensano gli esperti militari tedeschi, che attendono le truppe alleate alla Futa, l’attacco viene portato lungo i più bruschi pendii del Passo del Giogo. Sarà la chiave di successo.
Settembre è un mese bellissimo in questa regione di montagna. I colori dell’autunno arrivano prima, si finisce di tagliare la legna per l’inverno che sta arrivando e, come tante altre piccole, banali cose che danno un senso alla vita, si ricomincia ad assaporare il gusto del prugnolo disteso sulle lasagne dopo un anno di lunga attesa. In quel settembre del ’44 non c’è niente di tutto questo, non c’è tempo per osservare i colori della natura, il fango delle prime piogge rallenta le operazioni, è la vita stessa a non avere senso. Al Giogo i tedeschi hanno poche difese, pochi uomini e nemmeno esperti. Truppe inglesi e americane attraversano la Sieve e si dirigono verso due cime di poco più di 900 mt., l’Altuzzo e Monticelli che dominano il Passo del Giogo come due gendarmi. Fra le linee tedesche circola una sola parola d’ordine “fino all’ultimo uomo, fino all’ultima cartuccia…”. I sogni di Kesserling stanno ormai dissolvendosi. Nessuno si illude, nemmeno quei giovani che nonostante tutto seguitano a resistere sulle loro posizioni, nessuno ancora sa che la guerra durerà solo pochi mesi, la Germania si difende ma sa perfettamente che è stretta in una morsa.
A fine agosto gli inglesi hanno già sferrato un devastante attacco in direzione di Rimini, San Marino. Non vi sono ombrelloni sulla spiaggia, non v‘è odore di olii abbronzanti … solo l’odore della distruzione, della polvere da sparo. L’area della Futa e del Giogo è un immenso campo di battaglia, il cielo … quel cielo che nelle notti d’estate è una grande coperta di stelle, tanto vicine da poterle prendere con una mano, è solcato dalle incursioni aeree e da un intenso fuoco d’artiglieria. L’avanzata è lenta, difficile, gli apparecchi radio disturbati, le truppe perdono i contatti fra loro. Quattro giorni impiegano gli Alleati per conquistare il Monte Altuzzo, quattro lunghissimi giorni … nei quali i comandi tedeschi capiscono finalmente che quello sferrato in direzione del Giogo è l’attacco principale degli Alleati. Come un animale ferito ma non ancora colpito a morte, il Comando tedesco manda nell’area del Passo tutte le riserve disponibili, tutti gli uomini idonei, nemmeno tutti tedeschi. Molti di loro si arrenderanno al nemico alla prima occasione “Kamerad, kamerad … nein feuer, don’t shoot”, non coltivano più sogni, quelli nei quali credevano sono ormai svaniti. Ma la chiave del successo alleato non è, contrariamente a quanto si possa pensare, la conquista di Monte Altuzzo …
Uno dei libri più belli di Tiziano Terzani inizia così: “Ci sono giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una traccia, quasi non si fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono gior ni così, e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare, distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così, solo dopo si apprezza il prima e solo quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sarebbe averlo nel presente. Ma non c’è più”. Credo avesse ragione. Per questo cerco di collegare, cercandone un senso, alcuni momenti passati, che non voglio lasciar passare distrattamente, con la realtà di questa storia. Dirò allora che dei tanti anni felicemente passati alla Traversa non posso dimenticare alcuni appuntamenti rituali. La partita di calcio di Ferragosto dove ho sempre dato il meglio di me, in ogni senso, rendendomi protagonista, come nel ballo, di alcune proverbiali ed indimenticate esibizioni, la Sagra del Tortello, la rappresentazione teatrale dei bambini. Nella nostra famiglia, poi, ce n’era un altro di rituali che consumavamo il giorno dopo Ferragosto: la grigliata a Poggio Pratone, un avvenimento per tutti, grandi e piccoli. Partivamo di buon ora per preparare l’evento e ci fermavamo, alla fine, solo a stomaco pieno. Poggio Pratone è un’isola verde in mezzo al bosco, al centro del grande prato, che per un giorno popolavamo, c’era un grande albero secolare che accoglieva sotto i suoi rami tutti coloro che, gradualmente, anche se a scadenze diverse, si lasciavano vincere dal sonno … dal vin buono. Giorni dove non c’era spazio per la memoria anche se è proprio a Monte Pratone, questo è il suo vero nome, che sta la chiave dello sfondamento alleato. Le conquiste di Monte Pratone e Monte Verruca diventeranno due capisaldi nevralgici nello schieramento alleato, otto chilometri di varco nelle difese della Linea Gotica con il conseguente effetto di scoprire il Passo della Futa sul suo fianco sinistro. Il Comando tedesco capisce che la partita, almeno in quest’area, è persa, ordina la ritirata sui rilievi oltre Firenzuola. Il Giogo è conquistato.
Il 21 settembre, sei giorni dopo aver sferrato l’attacco, gli Alleati entrano in una Firenzuola, semidistrutta dai bombardamenti aerei dove, da ore, cade una insistente pioggia. La città è deserta, i suoi abitanti evacuati, fuggiti in montagna. Solo macerie fumanti, incluso il Palazzo comunale. Il prezzo della conquista in termine di uomini è altissimo. Ma non c’è tempo per pensare, nemmeno in ottica futura quando sarà necessaria una lenta ricostruzione. Si butta giù anche quel poco rimasto in piedi, quel poco ancora riparabile per costruire spazi per gli automezzi e per gli uomini. I salvatori non sono diversi dagli occupatori, portano anch’essi distruzione, il fine prevale sui sentimenti di un popolo stanco, affaticato da anni di guerra. Duemila senzatetto si riparano in alloggi di fortuna: stalle, casolari semidistrutti, ricoveri provvisori.
Nello stesso giorno alcune avanguardie dell’esercito alleato si muovono verso Castel del Rio senza trovare resistenza. Sul lato del Passo della Futa sferrano un attacco nella zona di S. Agata, poco sotto il passo, nel tentativo di conquistare il crinale. I tedeschi, per non essere colti alle spalle si ritirano lungo il Santerno. L’avanzata alleata non si arresta, prosegue in direzione Pietramala, Passo della Raticosa. Il 23 settembre cade il Passo della Futa, il 28 le forze di liberazione raggiungono Castiglion dei Pepoli per proseguire lungo il crinale fra i torrenti Setta e Brasimone, il 29 viene conquistato anche il Passo della Raticosa. Giù allora … verso Bologna e su … verso il centro Europa.
Ma l’odio degli uomini … fra gli uomini, non si ferma. Proprio nel giorno in cui gli Alleati conquistano la Raticosa una furia cieca rincorre persone inermi. V’è un paese, non molto lontano da Bologna, dove su tre grandi pietre tombali in marmo nero sono stati incisi i nomi di 316 donne, 142 vecchi di oltre 60 anni, 216 bambini inferiori ai 12 anni, parecchi di pochi mesi. Intere famiglie sterminate. Questa località è Marzabotto. Qui, come in altri luoghi nello stesso periodo (S.Anna di Stazzema, Vinca, Monzone), si è consumato un atroce capitolo della guerra, si è lasciato un crudele segno della disfatta.
La mia storia finisce qui. A posteriori, al di là delle impressioni che la mia narrazione può aver suscitato, dobbiamo riconoscere che la Linea Gotica assolse egregiamente il suo compito, quello cioè di ritardare il più possibile l’avanzata alleata. Il conto tuttavia è drammatico: 75.000 tedeschi e 65.000 soldati alleati non rientrarono alle loro case, ovunque esse fossero. Le guerre … tutte le guerre, richiedono sempre un prezzo altissimo in termini di vite umane.
Sarebbe facile concludere questa storia con frasi di convenienza, magari già ascoltate. Userò allora parole non mie, prese in prestito dalla scena finale di un film scritto e diretto da Oliver Stone nel 1986: Platoon. La scena, molti la ricorderanno, si svolge su un elicottero che, nel sorvolare la distruzione portata dalla guerra, riporta alla base un gruppo di militari USA fra cui uno dei protagonisti del film. Nella musica incalzante della colonna sonora il regista da voce al suo pensiero, un attimo prima di scrivere la parola fine:
“Io ora credo, guardandomi indietro, che non abbiamo combattuto contro il nemico ma abbiamo combattuto contro noi stessi, il nemico era dentro di noi. Per me adesso la guerra è finita ma sino alla fine dei miei giorni resterà sempre con me […] sia quel che sia, quelli che tra noi l’hanno scampata, hanno l’obbligo di ricominciare a costruire, insegnare agli altri ciò che sappiamo e tentare, con quel che rimane delle nostre vite, di cercare la bontà e un significato in questa esistenza”.
Condividi questo articolo attraverso i tuoi canali social!