A Forno i ricordi sono ancora vivi … di Sergio Cecchi

Annuario 2011

Forno - monumento ai caduti

È l’alba del 13 giugno del 1944 quando un battaglione tedesco della 135° Brigata muove alla riconquista di Forno, un paese ai piedi delle Alpi Apuane che è stato liberato dai partigiani all’inizio di giugno

Questo è un tentativo, sicuramente presuntuoso da parte mia, di ricostruire in modo critico un episodio che si è tramandato attraverso le narrazioni fino agli anni ‘90, e mentre mi informavo sui testi ho scoperto sempre cose nuove, anche in contraddizione fra loro. Non è la storia di una strage come quella di Sant’Anna di Stazzema, che pure è a pochi chilometri da qui, ma di una vera e propria battaglia, anche se non certo combattuta ad armi pari; pure la data è precedente, manca quasi un anno intero al mese di aprile 1945, quando la “linea gotica”, il baluardo difensivo edificato dai tedeschi sull’Appennino tosco-emiliano e sulle Apuane, sarà definitivamente oltrepassata e in pochi giorni liberata tutta la pianura padana. Sarà un anno di sofferenza sotto la dominazione straniera per le popolazioni dell’Appennino e della Garfagnana, mentre la Toscana della pianura dovrà aspettare solo pochi mesi, perché l’insurrezione di Firenze è del mese di agosto 1944; la liberazione di Pisa, Lucca e Viareggio è in settembre.

Monte Contrario e Monte Cavallo da Forno

È anche la cronaca di una fulminea sconfitta, dovuta anche a diversi errori di valutazione, ma non sempre si può raccontare d’intuizioni geniali e di trionfi … e questa è una delle battaglie più cruente di quelle che si verificano lungo la “linea dei Goti”: decine di persone passate per le armi, altre arse vive (probabilmente), decine deportate in Germania. I giorni che vanno dalla fine di maggio al 13 giugno segnano per sempre Forno: ancora oggi, quasi 70 anni dopo, questo è “IL” paese della resistenza, nelle celebrazioni e nelle feste popolari che sono qui ospitate ogni estate, nelle facce della gente, nella vita di tutti i giorni in questa stretta valle sotto le montagne.

Noi soci Cai conosciamo questo piccolo centro lungo il fiume solo di passaggio, forse ci fermiamo un minuto a prendere l’acqua alla fonte, forse ci accorgiamo della “casa socialista” — l’unica in Italia — oltre il ponte. Alla vecchia filanda diamo a malapena un’occhiata e proseguiamo verso il Biforco per iniziare la nostra salita verso la valle degli Alberghi e la valle delle Rose, verso il canale Fondone oppure il Cerignano, insomma … in su. Forno si trova nel comune di Massa, lungo il torrente Frigido, stretto fra i fianchi boscosi di un fondovalle umido dominato dalle creste del Contrario e del Cavallo. È diviso in tre parti, il nucleo principale si trova a meno di 200 metri di quota, sulla sinistra risalendo la valle, alcuni edifici si trovano sull’altra sponda, infine c’è il nucleo più recente della vecchia filatura che si trova più in alto. All’ingresso del paese si nota il cosiddetto Ponte dell’Indugio, un piccolo arco che portava ai mulini sull’altra sponda.

Si chiamava Rocca Frigida, poi ha preso questo nome perché nel medioevo c’era un’attività di lavorazione del ferro, ma di queste fonderie e delle relative miniere ho trovato solo accenni. Il Frigido è un fiume breve e nervoso, nasce pochi metri a monte dell’abitato di Forno, riceve le acque del torrente Renara, passa da Canevara e prosegue verso il mare Tirreno; è un torrente che cambia spesso: a volte scorre limpido fra le montagne ma facilmente si impantana dopo ogni pioggia, poi velocemente si prosciuga e mette allo scoperto il greto sassoso.

il “cotonificio ligure”.

Il filatoio a Forno fu progettato nel 1880 e per prima cosa fu realizzato un canale scaricatore lungo 500 metri, per la derivazione dell’acqua per la turbina, dalla sorgente del Frigido; proprio l’abbondante rifornimento di acqua corrente per le lavorazioni era alla base della scelta del luogo. Il progetto prevedeva il sostegno di imponenti colonne metalliche, visibili anche all’esterno perché queste colonne erano rialzate. Nel 1889 ci fu l’inaugurazione, tre anni dopo l’apparecchiatura tecnologica era completa: tre caldaie a vapore, due motori, uno di 750 HP, l’altro di 500. Si trattava di una delle prime e più importanti realtà produttive di tipo moderno, una fabbrica importante per il territorio massese ma pure nel contesto dell’industria tessile nazionale, e che svolgeva una funzione economico-sociale; la maggior parte della manodopera era costituita da donne.

La Filanda

La ditta era di proprietà di Giovanni Battista Figari, appassionato di montagna … ma non sarà stato mica della stessa famiglia di Bartolomeo ? questo importante alpinista, in coppia con l’altro genovese Quèsta, fu primo salitore del Grondilice e di altre cime secondarie, all’inizio del secolo; fu poi presidente nazionale del CAI. Il cotonificio propriamente detto era un imponente fabbricato, ma l’insediamento comprendeva anche il magazzino, un fabbricato con uffici e appartamento del direttore, un complesso di abitazioni per i dipendenti e le loro famiglie. I procedimenti di lavorazione del cotone andavano in questo ordine: bagnatura, battitura, stiratura, cardatura, fase intermedia e infine filatura. Nei seminterrati c’era l’impianto di lavaggio e di battitura del cotone, ai piani intermedi c’erano i telai veri e propri, al terzo le attrezzature per lavorazioni particolari. Il cotonificio, collegato alla città dalla tramvia a vapore Massa/Forno, aumentò la produzione fino a metà degli anni venti, poi la crisi mondiale del 1929 fece sì che diminuisse la richiesta; la produzione ebbe un calo progressivo fino alla completa cessazione all’inizio della guerra. Il complesso fu adattato a magazzino militare, ma … della Marina ! in tempo di guerra ospitava l’asilo, e fu danneggiato e saccheggiato dai nazisti, il tetto crollò e fu abbandonato per quaranta anni. Invece rimasero in piedi le abitazioni per i dipendenti, in particolare si notano tuttora, lungo la strada, due grandi stabili di 6 piani, ristrutturati e fittamente abitati, il secondo proprio adiacente alla filanda.

Nel 1990 fu progettato il restauro del complesso, non di tutto ma della parte anteriore e in particolare degli uffici; dietro, sono rimaste solo le mura dei magazzini, un fabbricato lungo oltre cento metri senza copertura. Inoltre furono restaurate alcune condutture idrauliche e dei macchinari, restituiti a un buono stato per allestire un percorso di “archeologia industriale”, come vedremo alla fine.

le quattro giornate del 1944.

Una delle prime formazioni partigiane nella zona fu la “cacciatori delle Apuane” sorta in Versilia per iniziativa del sottotenente Gino Lombardi di Ruosina, caduto il 21 aprile 1944. Da essa, nel mese di maggio, nacque la “Luigi Mulargia” comandata dal sottotenente Marcello Garosi, nome di battaglia “Tito”. Dalla metà di maggio fino alla data fatidica del 13 giugno, questa formazione versiliese operò sulle montagne e svolse importanti azioni a Altagnana, Forno e sulla Tambura, altre con spostamenti a Sarzana e a Massa. Marcello Garosi, nato a Firenze nel 1919, sottotenente dei bersaglieri, si trovava a Viareggio, forse sfollato o forse perché la moglie era viareggina; all’annuncio dell’armistizio, decise di entrare nel C.L.N. Versilia. Organizzò un gruppo di patrioti che iniziò a operare fra Stazzema e Vinca.

Il fiume Frigido

Avendo deciso di spostarsi in Lunigiana, il gruppo partì verso il nord, ma il 10 maggio ci fu uno scontro con una pattuglia “repubblichina” a Gorfigliano – in cui morì il ventunenne Silvio Ceragioli – che, unito alla notizia dei rastrellamenti in Garfagnana, fece cambiare idea. Due giorni dopo, Garosi condusse i suoi uomini alle pendici della Costa Pulita, in località “la Fania”, e il 13 arrivò un altro gruppo, guidato da Bandelloni e Vannucci. I due gruppi si unirono, dando vita appunto alla formazione intitolata a Luigi Mulargia; “Tito” era il comandante, Vannucci vice, Bandelloni addetto agli approvvigionamenti. Mulargia era un marinaio di Olbia, di 20 anni, entrato nella resistenza dopo l’armistizio e caduto in combattimento sul monte Gabberi il 17 aprile 1944.

Notare che spesso le compagnie dei partigiani prendevano il nome da un caduto, e che a volte in seguito modificavano il nome iniziale per dedicarlo a un ulteriore eroe morto in battaglia … poi, spesso si suddividevano in più gruppi o viceversa, due o tre si univano e prendevano un nome nuovo. Un’altra osservazione: Ceragioli è un nome tipico dell’alta Versilia e ci sono due vie al Procinto che si chiamano così: due arrampicatori degli anni trenta … saranno stati parenti? Vorrei anche dedicare un pensiero a Marcello Garosi, un bravo ragazzo di città, che aveva studiato. Molto giovane secondo i nostri standard di oggi, ma uomo maturo negli anni ’40, già sposato; sembra che fosse stato riformato dall’esercito per una ferita, ma non è sicuro, anche perché temo si parli sempre della stessa gamba colpita in seguito agli Alberghi. Certa è la sua volontà di mettersi al servizio di questa seconda liberazione dell’Italia dalla dominazione straniera. All’età di 25 anni era capo carismatico della sua formazione, amato e rispettato dai suoi, e coordinatore della zona. Spesso le bande partigiane erano comandate da ufficiali italiani che avevano disertato, oppure ufficiali inglesi che si erano infiltrati in Italia; in entrambi i casi, era utile per i patrioti avere un capo militare: in fondo erano studenti, agricoltori o borghesi passati in clandestinità, comunque non preparati alle faccende belliche. I partigiani erano comunque conoscitori dei luoghi, persone abituate alle marce in montagna.

Si è detto che la “Luigi Mulargia” era composta di vari gruppi di uomini del Massese e della Versilia. Secondo alcune fonti, questa brigata era formata da 450 uomini armati, altri riferiscono di numeri molto inferiori, forse 200 alla fine, e questa cifra è più attendibile; a questi si potevano aggiungere alcune decine di uomini da armare; e anche fra i partigiani effettivi, molti erano male armati e per niente addestrati. Alla fine di maggio, su proposta del comitato apuano, si spostarono e dal 1° al 9 giugno erano accampati nella valle degli Alberghi, nelle baracche dei cavatori alle pendici del monte Contrario, un posto dove era possibile, con un paio di ore di cammino, portare il pane dal paese. Località che noi conosciamo, visto che la ferrata del passo delle Pecore inizia proprio qui accanto. Garosi si era ferito, non si sa come, a una gamba con un colpo di arma da fuoco. In base a un malinteso legato alle comunicazioni radio in codice, i partigiani della “Mulargia” avevano interpretato che era imminente uno sbarco alleato in Versilia e che sarebbe stato importante tagliare le comunicazioni tedesche sulla via Aurelia; il giorno 9 giugno si mossero per occupare la valle di Forno e usarla come avamposto per azioni nella zona di Massa. Forse era l’ottimismo dovuto alla notizia della liberazione di Roma, avvenuta il 6 giugno, comunque questa voce dello sbarco (ovviamente falsa) era stata recepita anche dal C.L.N. e persino dai tedeschi della “linea gotica”.

Il paese, in quei giorni, era molto più popolato del solito, dato che si erano spostati qui molti sfollati di Massa. I carabinieri della stazione del paese non ostacolarono l’occupazione e, nel pomeriggio del 9, Tito Garosi insediò il comando nella caserma, mentre il grosso dei partigiani occupò la filanda. Il maresciallo che accettò l’entrata in paese degli antifascisti si chiamava Ciro Siciliano, aveva il suocero e il cognato nei partigiani e anche lui è uno dei martiri di Forno, come vedremo dopo. L’occupazione si realizzò senza tensioni né violenze, nemmeno vendette contro i fascisti del posto. Questa operazione avrebbe potuto fungere da catalizzatore per tutta la situazione del fronte, se solo fosse stata messa in pratica una collaborazione con gli alleati. Il comando tedesco apprese con molta contrarietà che i partigiani erano attestati alla base delle Apuane, davanti al mar Tirreno.

In quei 4 giorni si andava persino dicendo, con eccessiva euforia, che Forno era il primo paese liberato, giovani e ragazzi giravano col foulard rosso, alle finestre sventolava il tricolore … insomma, si può parlare di una piccola e indipendente “zona libera”.

Il comitato di liberazione massese si rese conto subito che era stato commesso un errore e ordinò lo sgombero; furono inviati esponenti delle varie parti politiche per convincere i partigiani a tornare sulle montagne. Ma in quei 4 giorni sembrava che le cose potessero andare sempre meglio, i partigiani da Forno addirittura entrarono due volte in città a Massa per azioni dimostrative, il 10 e l’11. In precedenza, il 7 avevano attaccato i depositi tedeschi a Vinca e preso armi e munizioni. Ci furono molte diserzioni, un’intera compagnia (50 soldati) della caserma di Massa raggiunse Forno con mezzi e armi e si unì ai partigiani.

Il giorno 11 giugno, nella “casa del fascio”, la stessa che poi è diventata la “casa socialista”, ci fu una riunione fra alcuni comandanti partigiani della zona e il rappresentante del C.L.N. regionale toscano, venuto da Pisa: in assenza dei delegati del comitato apuano, fu confermato il Garosi come comandante unico delle varie formazioni dell’area e l’abbandono del paese non fu reso esecutivo, almeno fino al 13, data in cui era in programma la festa di sant’Antonio, patrono di Forno.

Ma non pensiamo a degli sprovveduti: una volta resisi conto, pur avendo deciso di restare un giorno in più, i partigiani della “Mulargia” con la collaborazione di un’altra brigata, la “Silvio Ceragioli” si organizzarono contro la prevedibile reazione tedesca: questa seconda formazione si piazzò a Canevara per chiudere la valle verso sud, fu minato un costone roccioso alle pendici del colle Bizzarro, che sovrasta la strettoia. Dalla parte opposta, al passo di Colonnata, vicino alle case di Vergheto, c’era un presidio fisso, ma era stato stabilito di far risalire alla valle agli Alberghi questo gruppo e iniziare così la ritirata da Forno la mattina del 13. Un’altra versione dice che la sera del 12 i rifornimenti non arrivarono e i partigiani abbandonarono la posizione per poche ore, scendendo a valle per nutrirsi, senza aspettare il cambio.

la battaglia

Ma proprio nella notte, prima dell’alba del 13, agli ordini del colonnello Almers, soldati tedeschi e italiani della “Decima Flottiglia MAS” si mossero su Forno; in particolare, i militi della “X MAS”, provenienti da Colonnata, trovarono libero il passaggio di Vergheto e scesero da quella parte mentre i soldati tedeschi risalivano la valle con camion e semoventi.

Forse c’era anche la Guardia Nazionale di La Spezia, ma non è sicuro; inoltre la tradizione dice un migliaio di soldati ma ovviamente è un eccesso: si trattava di un battaglione tedesco formato da 300 – 400 uomini, più un numero fra i 40 e i 100 italiani. È stato detto che alle 3 fu suonato l’allarme, ma anche su questo orario ci sono discordanze, molti dicono che erano le 4 e mezzo: comunque, le avanguardie tedesche furono affrontate a Canevara dalla compagnia “Ceragioli” e le cariche esplosive furono fatte esplodere; secondo alcune interpretazioni, fu distrutta la testa della colonna nazista, sepolti due camion, morti alcuni soldati tedeschi … ma in realtà l’esplosione fece cadere solo tre macigni e un po’ di polverone e la testa della colonna fu soltanto rallentata. In ogni caso, la cattiva organizzazione e l’insufficienza di munizioni impose ai partigiani di ripiegare; in paese, c’era una mitragliatrice a una finestra puntata verso valle, ma la maggioranza dei partigiani, per la sorpresa e per difetto di addestramento, iniziò la fuga verso gli Alberghi. Nel frattempo la “X MAS” era arrivata dal nord e alle 6 del mattino l’accerchiamento era completo; alcuni dei partigiani si asserragliarono nella filatura abbandonata, altri stavano fuggendo verso le montagne.

Pizzo Acuto

Il comandante “Tito” si stava dirigendo dal paese verso le case Pizzo Acuto, in direzione della filanda. Con una mitragliatrice, tentò di raggiungere i compagni alla manifattura accerchiata e morì sotto il fuoco tedesco. La leggenda dice che, ferito, continuava con freddezza a mitragliare fino all’ultima cartuccia, preferendo infine togliersi la vita piuttosto che cadere vivo in mano al nemico; e questo si legge sulla lapide commemorativa. Pare invece che i tedeschi lo uccisero nell’azione, ma questo non toglie né aggiunge niente alle qualità dell’uomo e ai motivi per cui è stato insignito della medaglia d’oro. La mattina presto, alle 8,30, anche l’assedio della filanda fu terminato, i partigiani erano riusciti a fuggire dal retro: a questo punto, Forno era stata riconquistata dai nazi-fascisti.

l’eccidio

Cominciò il rastrellamento: l’intera popolazione fu obbligata a uscire di casa e radunata sulla strada principale, all’inizio del paese. Gli anziani e le donne furono portati oltre il ponte e tenuti sotto controllo dai tedeschi. Intanto per i trattenuti veniva compiuta una selezione e tutti i sospettati di essere partigiani furono rinchiusi nelle piccole celle della caserma dei carabinieri. Il giovane parroco, don Vittorio Tonarelli fu mandato alla filanda per far uscire i bambini dell’asilo e le suore, dato che era in programma di fare saltare in aria l’edificio, intenzione che poi non fu realizzata. Alcune fonti hanno tramandato numeri ingigantiti: 72 fucilati, 20 arsi vivi, 70 caduti in battaglia … controlleremo in seguito le cifre, anche se bisogna dire: 160 morti o 70, si tratta sempre di un’ecatombe!

I dati tedeschi sono ancora più esagerati e parlano di 149 partigiani uccisi e 51 catturati; da parte loro, 7 feriti e nessun caduto: possibile ?

… in realtà furono visti ripartire da Forno dei camion coperti di rami e foglie, forse per coprire i corpi. Più verosimilmente ci furono 6 morti fra i nazisti e di conseguenza, in base al principio della decimazione, furono portati alla fucilazione sessanta italiani, fra disertori del distretto militare di Massa e abitanti di Forno, compreso il maresciallo Siciliano. Quest’ultimo era riuscito a fuggire verso le montagne ma poi aveva deciso di tornare in paese e consegnarsi ai tedeschi; dichiarò di essere stato catturato dai partigiani ma non fu creduto. Nel pomeriggio, i sessanta uomini sospettati di essere partigiani furono portati, a gruppi di 8 – 9, dalla caserma al greto del torrente Frigido, in località Sant’Anna dove c’è una cappella. Qui venivano falciati da scariche ravvicinate e subito accatastati in una specie di fossa comune. Ci furono anche 4 sopravvissuti che, feriti, rimasero esanimi in mezzo ai morti e dopo il tramonto furono tratti in salvo. Il giorno dopo, il sacerdote don Vittorio fece del suo meglio per dare un’identità a questi corpi e una sepoltura più degna. Nello stesso pomeriggio, due persone (anche se c’è chi dice venti) probabilmente ferite, erano rinchiuse nelle celle della caserma che stava andando completamente a fuoco.

Il tenente Bertozzi, che comandava la “Decima MAS” si distinse per crudeltà in questo accanimento contro gli sconfitti. Questo lo dichiarano tutti, però è necessario verificare, perché restano molti dubbi sul ruolo dei “militi” italiani in questa tragica giornata, forse dovevano solo fiancheggiare i tedeschi; nel dopoguerra, Bertozzi fu processato per i fatti di Forno e anche per il suo comportamento successivo in Piemonte. Esattamente 50 persone (le esagerazioni dicono 400) furono avviate, prima a piedi fino a Sarzana, poi sul treno, verso i campi di lavoro in Germania; tre case del paese, oltre la caserma, furono saccheggiate e incendiate.

Prendiamo ora in esame i numeri, perché ci sono dei dati esatti, con nome e cognome: 56 fucilati sull’argine del Frigido (4 gli scampati) 10 persone erano rimaste uccise negli scontri, e fra queste una donna e un bambino; 2 morti carbonizzati e rimasti senza nome. Il 13 giugno rappresenta in fondo la disfatta di un’azione avventata, conseguenza di una certa impreparazione militare, errore giustificato solo da un clima di euforia e dalla speranza nella fine dell’occupazione. Sembra che la formazione partigiana “Luigi Mulargia” fosse anche logorata da contrasti interni, perché probabilmente il mancato sgombero di Forno fu alla base di discussioni; dopo questa sconfitta, rimasta senza comandante e decimata, si sciolse e una parte degli uomini entrò nel “gruppo patrioti apuani”, formazione massese che ebbe una parte notevole negli eventi successivi; gli altri sopravvissuti si arruolarono nelle brigate garibaldine del C.L.N. della Versilia; una di queste formazioni decise di prendere il nome di Marcello Garosi e prese parte, due mesi dopo, alla liberazione di Viareggio. Si deve anche dire che il paese di Forno non si riprese da quella giornata: cinque anni dopo, c’era ancora miseria e solo il 20% aveva un lavoro.

le feste

Il 13 giugno di ogni anno, il comune di Massa organizza una cerimonia di commemorazione, in genere presso queste 4 località significative: il monumento ai caduti, le case Pizzo Acuto, l’ex-oratorio di S. Anna, la vecchia filanda. Sempre nel mese di giugno, presso l’ex-cotonificio, si tengono delle mostre d’arte oppure presentazioni di libri, ovviamente sempre di argomento antifascista. In piazza San Vittorio, da qualche anno a questa parte, si premiano i ragazzi delle scuole che concorrono, con un tema, al premio “maresciallo Ciro Siciliano”. All’interno della vecchia filanda c’è una specie di piccolo museo di archeologia industriale, gestito dal Parco delle Apuane, dove si possono vedere le gigantesche turbine oltre agli strumenti di lavoro come molle, chiavi inglesi eccetera. È stato aperto nel 2009 ma adesso è di nuovo chiuso perché occorreva un ulteriore restauro della struttura; il comune di Massa si è impegnato per una rapida riapertura.

Accanto al ponte sul torrente, si nota la “casa socialista”, un lungo edificio con tanto di falci e martelli sulla facciata. All’interno coabitavano il “nuovo partito socialista” (col suo circolo AICS) e il PD e il circolo ARCI, con tanto di televisore al plasma per vedere Sky; la sezione del Partito Socialista fu fondata nel 1900, ma adesso la porta è chiusa. Sulla parete del bar, le foto parallele di “Tito” e di Enrico Berlinguer, il quale morì esattamente 40 anni dopo (giugno 1984).

D’estate, nella stagione delle sagre di paese, Forno ospitava soltanto 2 feste “di partito”: quella del PRC, rifondazione comunista, e quella di “Linea Rossa” una piccola formazione, molto antagonista, che si propone di tenere in vita il partito marxista-leninista; era la festa nazionale, da tutta Italia venivano gli “ultimi comunisti”, ma nel 2011 non si è svolta.

Nel 1993, in occasione della cerimonia annuale del 13 giugno — una consuetudine per gli abitanti di Forno? Ruggero Fruzzetti e Massimo Michelucci, con il documentarista Alberto Grossi, iniziarono intervistare le persone che ancora ricordavano. Quel giorno nacque l’idea di una ricerca approfondita; i tre raccolsero ulteriori testimonianze, ricostruirono le scene per girare un cortometraggio. Infine, nel 1994, uscì il libro che è stato alla base di quest’articolo. Oltre al citato libro – Fruzzetti-Grossi-Michelucci: «Forno 13 giugno 1944»; Ceccotti editore – per saperne di più potete consultare, su Internet, il sito web del comune di Massa, quello di “resistenza toscana” e infine il sito web “Gino Lombardi”.

Condividi questo articolo attraverso i tuoi canali social!

Lascia un commento