Appunti di storia – Annuario 2011
All’inizio era il nulla.
Si legavano ai fianchi le corde di canapa, si stringevano con energia i lacci degli scarponi, si dava un’aggiustatina al cappello che calasse bene sulle tempie. L’occhio e la mente attenti, concentrati sui passaggi visibili della parete, impegnati a scoprire il “facile nel difficile”. Una pacca sulle spalle del compagno, poi, finalmente, i piedi si alzavano da terra, l’avventura poteva cominciare. Riti di un alpinismo d’altri tempi, riti di grande alpinismo.
Poi, con graduale naturalità, il tempo ha fatalmente fatto il suo corso, le tecniche si sono perfezionate, i materiali si sono evoluti. Le modalità di approccio alle difficoltà sono andate fisicamente e psicologicamente trasformandosi senza mai snaturare, tuttavia, quel patrimonio culturale che è alla base di un alpinismo che deriva dai rituali retaggi di cui parlavo. Solo con questa chiave di lettura possiamo leggere gli straordinari progressi fin qui raggiunti nella tecnica di arrampicata, la chiave con la quale aprire la porta di una storia affascinante come quella del free climbing e del boulder.
Arrampicata libera, pulita, trad, sportiva …
A conferma di quanto appena detto, citerò un dato evidente e cioè che fin dai primi anni del ‘900 era manifesta l’intenzione di praticare un’arrampicata che fosse “pulita”, piuttosto che “libera”, che reputava più fondamentale lo stile con cui si affrontava una salita piuttosto che la conquista di una cima. Portavoce di questa filosofia fu certamente Paul Preuss, alpinista che teorizzava non solo la purezza del modo di “salire” ma pure l’analoga capacità di scendere dalla cima raggiunta. Predicava, cioè, che chiunque salisse una cima avrebbe dovuto essere capace di scenderla con i propri mezzi. Una filosofia discussa, un’ideologia non
totalmente condivisa che causò violenti polemiche, una su tutte, la più nota, quella con Giovanbattista Piaz. Ma vi furono anche alpinisti che condivisero le idee di Preuss, anche se non completamente, e fra questi il grande Albert Frederik Mummery che non tardò a manifestare la sua preferenza nei riguardi di un corretto spirito di arrampicata. Ancora nel 1906 un inglese, tale Morley Wood, realizzò la salita del Clogwyn Arddu, montagna dal nome impossibile nel Galles del nord, utilizzando anch’egli un metodo “pulito”, pose infatti solo protezioni naturali, sassi incastrati intorno ai quali fece passare un cordino, forse una cordaccia, che lo proteggesse in caso di caduta. Non era esattamente la filosofia di Preuss ma è fondamentalmente un primo esempio, se non il primo, di “clean climbing”.
Ecco allora la necessità di un breve chiarimento. Occorre infatti fare chiarezza su un aspetto in mancanza del quale è praticamente impossibile stabilire qualunque iniziale confronto. Cosa si intenda per alpinismo “pulito” e per arrampicata “libera”. Senza questa premessa la discussione non può proseguire.
L’arrampicata libera nasce, senza alcun dubbio, dall’esperienza dell’alpinismo “classico”, “trad”, e nasce sulle rovine di quel tipo di progressione meglio definito con il termine di “artificiale”. L’avvento dell’artificialismo è circoscritto ad un evento specifico, l’apertura cioè della via dei francesi Lucien Berardini, Adryen Dagory, Guido Magnone e Marcel Lainé alla parete SO del Petit Dru nel Gruppo del M. Bianco. Siamo nel luglio del 1952, quella del Petit Dru era una parete sulla quale numerosi tentativi, compiuti anche da forti alpinisti come Rebuffat e Livanos, si erano già consumati e tutti con scarso successo. Ciò che segna la particolarità di questa ascensione è l’utilizzo, per la prima volta nella storia dell’alpinismo, di chiodi a pressione, quel tipo di chiodo, cioè, che richiede di dover praticare un foro nella roccia. I francesi, infatti, non solo per garantirsi un’eventuale via di fuga ma soprattutto per ritornare al massimo punto raggiunto in occasione del precedente tentativo, attrezzarono un traverso in piena parete con questo tipo di chiodi. Fu un concetto di progressione del tutto rivoluzionario per il quale i francesi furono aspramente criticati ma che segnò un punto significativo nella concezione dell’alpinismo tanto che, nella scia dei francesi, molte altre vie – non starò qui a farne un noioso elenco anche se la bellezza di alcune meriterebbe un palcoscenico più vasto – furono aperte con la stessa tecnica.
Nello stesso periodo, tuttavia, per un curioso gioco delle parti, si stava già muovendo qualcosa nell’ottica di un’arrampicata “pulita”. In Inghilterra si utilizzavano, infatti, da tempo, dadi provenienti dall’industria automobilistica che erano impiegati come protezione in parete e che anticipavano di alcuni anni gli “exentrics” di ispirazione californiana. Fu John Brailsford, di Sheffield, sempre in Inghilterra, a produrre, nel 1961, i primi “dadi” per uso alpinistico. Sempre negli anni 50, l’americano John Gill, che come vedremo è il padre riconosciuto del boulder, introdusse l’uso della magnesite e perfezionò la tecnica del “lancio”.
Fermiamoci un attimo. Ho parlato di arrampicata “pulita” e di arrampicata “libera”, vediamo in cosa si distinguono. L’arrampicata cosiddetta “pulita” fa riferimento a quella formula meglio definita con il termine di “clean climbing”. “Clean” è quel tipo di arrampicata che non prevede l’uso di strumenti di protezione se non quelli naturali e quindi non utilizza nemmeno i chiodi. Il clean climbing nasce come attività che non deve lasciare traccia del passaggio dell’arrampicatore. Qualcosa, quindi, molto simile all’analogo e forse più conosciuto “by fair means” cioè “con mezzi leciti”. Francamente non saprei, certo sarebbe tema da approfondire anche se discutibile.
L’arrampicata “libera”, invece, fa esplicito riferimento al “free climbing”. “Free” è quel tipo di arrampicata che prevede l’uso dei chiodi e di qualunque altro strumento di protezione, corda inclusa contrariamente a quanto molti pensano, purchè nel corso dell’arrampicata si utilizzino solo i naturali appigli della roccia senza dunque fare ricorso alle protezioni per procedere (diversamente sarebbe una progressione “artificiale”) o riposarsi. L’arrampicata “free” senza alcun tipo
di protezione, corda inclusa, è definita “free-solo”. Chiariamo anche un ulteriore aspetto che tiene conto di una mia personale valutazione, a Voi condividerla o meno. L’arrampicata libera praticata in montagna, e non necessariamente su vie classiche, è da considerare alpinismo solo in presenza di un metodo di protezione tradizionale. Nel caso, invece, di vie cosiddette “moderne”, quindi aperte, o chiodate anche in un secondo tempo, con protezioni di ultima generazione, ritengo sia più coerente definirlo “free climbing” anche se gioca un ruolo non indifferente il fattore ambientale. L’arrampicata libera praticata in falesia, anche in presenza di vie di più tiri, è da considerare sostanzialmente “free climbing”. Ovviamente per la “moulinette” ma anche per itinerari “multipich”.
Ma vi è, anche, un ulteriore modello di arrampicata che non ho ancora nominato, lo faccio adesso: l’arrampicata “sportiva”. Nasce nel 1985 con la prima gara di arrampicata a Bardonecchia ed è quindi “sport”. In realtà i presupposti di questo tipo di arrampicata erano presenti già da tempo grazie alla pratica del “rotpunkt” cioè quel tipo di arrampicata ideato da Kurt Albert in Germania che elaborando il metodo AF (Alles Frei) prevedeva una progressione caratterizzata da una soluzione di continuità. Non prevedeva infatti alcun resting, termine con il quale si identifica il riposo. La presenza di resting, o più restings, genera infatti quel tipo di progressione meglio definito “lavorato” introdotto da Ray Jardine in California. Mi auguro di essere stato chiaro e di non avervi confuso le idee, andiamo avanti.
Il “free climbing” nasce sostanzialmente negli Stati Uniti. Nel 1967, tornando da un viaggio in Inghilterra, l’americano Royal Robbins porta con se alcuni chocks (cunei) grazie ai quali effettuerà la prima ascensione del Nutcracker (letteralmente “schiaccianoci”) al Manure Pile Buttress (Pilastro del mucchio di letame) in Yosemite. I cunei importati da Robbins saranno migliorati e prodotti da Yvon Chouinard che ne inizierà anche la commercializzazione. Sul finire degli anni 60, in seguito alla scoperta dei cunei, Doug Robinson scriverà un libro sull’arrampicata, probabilmente il primo, dal titolo “The art of natural protection”. Ed è proprio sul finire degli anni 60 che si affermano in Yosemite alcuni fra i primi, formidabili free climbers. Fra questi Jim Bridwell, John Bachar, Ron Kauk, Ray Jardine, Tony Yaniro.
In Europa il free climbing approderà più tardi, solo successivamente al “pellegrinaggio”, perché di questo si tratta, che alcuni alpinisti nostrali faranno in Yosemite. Pierre Allain aveva dato una grande mano agli alpinisti inventando e producendo scarpette da arrampicata a suola liscia. Le chiamò PA salvo poi modificarne il marchio in EB andando, purtroppo, a creare una certa incomprensione con l’inglese Ellis Brigham anch’egli costruttore di scarpette. Nel 1973, Reinhold Messner scriverà un libro denuncia dal titolo “Settimo grado”, libro nel quale polemizza contro l’espandersi dell’arrampicata artificiale. In Italia nasce il Nuovo Mattino, nome nato dall’analogo articolo pubblicato sulle pagine della Rivista da Gian Piero Motti. Un nome, quello del Nuovo Mattino, il cui significato probabilmente sfugge a molti arrampicatori delle nuove generazioni. Vediamo allora cos’era e che ruolo ha avuto nell’arrampicata italiana.
Il Nuovo Mattino nasce come un movimento che pone in discussione i metodi alpinistici fino allora accettati, il rifiuto quindi di un alpinismo di vecchia concezione vincolato al raggiungimento della cima, privilegiando ed incoraggiando invece un ideale clima di ricerca, teso alla scoperta di nuovi spazi di libertà in montagna. A sottolineare ciò, vale inoltre la pena ricordare che il Nuovo Mattino si distingue anche come movimento di tutela dell’ambiente montano. Scriveva Motti: “A poco a poco si è creata l’illusione di poter salire ovunque, si è creduto ingenuamente di poter aprire il territorio alpinistico a chiunque, usufruendo dei mezzi aggiornatissimi che la tecnica ci ha messo a disposizione”. Passati gli anni 70 Motti ritratterà, in verità, parte di quanto da lui affermato e lo farà proprio in funzione di quello specifico concetto di smisurata libertà che nella sua esplosione ne incarna il fallimento. La faccia sconosciuta di quella oscura medaglia che pone grossi confini alla libera ricerca di se stessi causandone i più contrari effetti negativi. Da qui la denuncia di Motti nel celebre “I falliti”: “Il free-climbing, inteso non tanto nel senso di arrampicata libera ma in quello più ambizioso e filosofico di libero arrampicare, pareva essere nato come espressione di libertà e di assoluta disinibizione. Ahimè… ora ci si va accorgendo che invece ha portato gli alpinisti a schiavitù, dogmi, imposizioni, divise da portare, fazioni, provincialismi, miti e mitucci dell’uomo-muscolo […], glorie e gloriuzze, re e reucci di paese… un quadro forse peggiore di quello dell’alpinismo di ieri. Il Nuovo Mattino rappresentava la possibilità di estendere la dimensione dello spirito a quelle strutture rocciose che erano invece ripudiate dagli alpinisti tradizionali”. Occorrerebbe bel altro spazio per discutere questi temi.
La valle dell’Orco e la Val di Mello
Per restare al Nuovo Mattino, due sono i luoghi, in Italia, che la natura ha voluto regalare a quei giovani che aderiscono al movimento e che desiderano porre al centro della loro attività le idee che esso propone: la Valle dell’Orco e la Valle di Mello. E’ qui che prende forma il free climbing nostrale.
Il fulcro della Valle dell’Orco è il Caporal, una struttura molto articolata dalle infinite possibilità. La prima via aperta sul Caporal sarà chiamata “Tempi Moderni” (1972) ed a realizzarla sono Flavio Leone, Ugo Manera, Guido Morello e lo stesso Gian Piero Motti. In rapida successione sono aperte anche “Sole nascente”, da Giancarlo Grassi, Mike Kosterlitz e Gian Piero Motti, e “Itaca nel sole”, da Guido Morello ed il solito Motti. Nel 1973, alla ricerca di nuovi stimoli, l’indimenticato Giancarlo Grassi scopre una nuova struttura non lontana dal Caporal alla quale darà il nome di Sergent, più di Caporal ma meno di Captain in Yosemite. Apre “Cannabis” con Danilo Galante, quindi nel 1974 aprirà il “Diedro del Mistero” ed in successione anche la “Fessura della Disperazione”. Sempre nel 1974 al Caporal saranno aperte anche alcune vie artificiali in stile Yosemite, “Il lungo cammino dei comanches”, “Strapiombi delle visioni” e “Orecchio del Pachiderma”, che dimostrano come le vecchie abitudini non siano ancora del tutto dimenticate.
Sempre nel 1973 giunge dagli Stati Uniti una novità che rivoluzionerà il mondo dell’arrampicata. Greg Lowe realizza un sofisticato sistema di protezione a camme, su scorta di quanto già studiato dal russo Vitaly Abalakov, che chiamerà “spring-loaded camming device”. Questo attrezzo sarà definitivamente brevettato e conosciuto grazie a Ray Jardine con il nome di friend. Jardine stesso ne dimostrerà la bontà realizzando Separate Reality, la fessura simbolo della Yosemite, proteggendosi solo con friends ed inaugurando il metodo “lavorato” di cui parlavo poco fa.
Ivan Guerini, habitué dei sassi del fondovalle, scopre, nel frattempo, dal punto di vista dell’arrampicata, la Val di Mello. Apre, le 1975, “Cunicolo Acuto” e l’anno successivo contribuisce a fondare il gruppo dei “Sassisti”, un primo nucleo di appassionati di quell’attività che assumerà in seguito il nome di “boulder”. Fanno parte dei “sassisti” Giuseppe “Popi” Miotti, Jacopo Merizzi, Antonio Boscacci, Paolo Masa, Mirella Ghezzi ed altri. Nel 1976, Guerini apre una delle vie divenute un simbolo della Val di Mello: “Il risveglio di Kundalini” e nel 1978 l’anch’essa celebre “Luna nascente” allo Scoglio delle Metamorfosi. Siamo giunti alla fine degli anni 70, il free climbing sta prendendo distintamente forma nelle intenzioni delle giovani generazioni di arrampicatori, sta percorrendo un sentiero ormai tracciato. Giunge notizia che Kim Carrigan, in Australia, abbia salito “Prokol Orum”, una via valutata 7b+ (anche le vecchie scale di difficoltà si sono emancipate) ai Monti Arrapiles, ma della cui realizzazione avremo scarsa notizia sia in Europa che in USA. Ma è negli Stati Uniti che il free climbing ha un’impennata di qualità. Ron Kauk, ancora giovanissimo, apre, nel 1975, Astroman alla Washington Column (Yosemite) in compagnia di John Bachar e John Long. Un 5.11 che equivale ad un 7a/7a+, completamente in arrampicata libera. Astroman è oggi considerata in Yosemite una delle vie classiche del free climbing, Chris McNamara scrisse in quegl’anni:” “is to free climbing what The Nose is to wall climbing: long, flawless, and exceptional” Ovvero “è per l’arrampicata libera ciò il Nose è per l’alpinismo classico: lunga, perfetta ed eccezionale”. Nel 1977 lo stesso Kauk compie la spettacolare libera di Tales of Power (7b+) e nel 1978 “chiude” anche Separate Reality, il mostro sacro della Yosemite. Ma giungono anche i primi 8a. Pete Cleveland realizza un primo 8a nel 1977 mentre un paio di anni dopo, nel 1979, suscita molto clamore la performance di Tony Yaniro su Phoenix e Grand Illusion, una stupenda fessura strapiombante.
Il 1979 è anche l’anno in cui Wolfang Gullich, che già da alcuni anni è uno dei leader indiscussi del free climbing, si reca in America per la prima volta. L’impatto con l’ambiente della Yosemite non è dei migliori, di fatto non riesce a salire nessuna delle vie aperte da Yaniro, tale e così evidente è la superiorità degli americani. Dovrà aspettare il 1982 per salire un 8a, il primo 8a europeo anche se non realizzato in Europa. Le migliori performance europee erano, fino al 1981, la salita di Le Haine a Mentone (Berhault 7c+) e Mattino dei Maghi (Manolo 7c+).
Siamo agli inizi degli anni 80. Agli indiscussi talenti californiani va ad aggiungersi un manipolo di giovani talenti di scuola europea, fra costoro vi sono Patrick Edlinger, Patrick Berhault, Maurizio Zanolla (Manolo) e soprattutto il già citato Wolfang Gullich che per quanto meno talentuoso degli altri, segnerà, grazie alla sua costanza, un livello mai raggiunto nell’arrampicata libera. Nel 1981 un fatto strabiliante scuote il mondo dell’arrampicata. Sulla parete SO della Marmolada un giovane diciassettenne, Jindrich Sustr, apre in compagnia di Igor Koller una delle vie più significative dell’intera parete, è la “via attraverso il pesce”. Sustr si rende protagonista, su una via di montagna non dimentichiamolo, di una performance che per l’epoca ha veramente qualcosa di eccezionale, mostruoso. Spinto da Koller conclude il settimo tiro, peraltro senza alcuna protezione, segnando un VIII° grado della classica scala Welzenbach. Questo tiro è tutt’oggi considerato un 7a/7a+ o in alternativa un A2 nella particolare scala della progressione artificiale.
Verso la fine del 1982 Antoine Le Menestrel realizza Reve de Papillon e Le caeur est un chasseur alle Mouries, Guillot realizza Crepinette alle Eaux cairese, Tribout realizza Fritz de cat in Sassois ed infine Manolo “chiude” Draculella. Nel 1983, oltre alla comparsa dello “spit” ad opera di Marco Pedrini, Patrick Edlinger realizza quello che possiamo considerare il primo 8a in terra europea, lo realizza a Buoux su una via alla quale darà nome ça glisse au pays des merveilles. Jerry Moffat dichiara 8a+ alla via The Face in Germania. Nel 1985 si comincia a chiodare dall’alto, nascono nuove ed importanti falesie: Valle S. Niccolò, Arco, Finale Ligure, Monte Totoga, Erto, Sperlonga. Le star nazionali del periodo sono Andrea Gallo, ovviamente Manolo, Heinz Mariacher, Luisa Jovane fra le donne, Pietro Dal Prà e, se vogliamo, anche Mauro Corona. Tornando negli Stati Uniti, Wolfang Gullich ripete, nel 1986, senza alcuna protezione Separate Reality e Action Direct (9a?) in Frankenjura, Germania. Nel 1985 avviene la prima gara di arrampicata a Bardonecchia. Nel 1987 vi è la prima gara ad Arco alla Rupe del Castello per essere poi sostituita fin dal 1988 con una struttura artificiale.
E’ ad Arco, in quest’occasione, che si mettono in luce Patrick Edlinger e Catherine Destivelle, due autentici fuoriclasse dell’arrampicata. Ma è tutta la scuola francese, in particolare, a mettersi in mostra.
Il boulder
Il boulder nasce nella notte dei tempi. Contrariamente a quanto molti pensano, il boulder, che nell’immaginario possiede una certa modernità, è invece una pratica molto più antica dell’alpinismo. Salire su un masso, misurarne il superamento, altro non era che un modo di esprimere sensazioni, di descrivere difficoltà molto più audaci, rappresentare una tecnica più raffinata rispetto alle inevitabili costrizioni morfologiche di una scalata in parete. Fin dai primi del 900 furono infatti in molti a praticarlo senza nemmeno immaginarsi che a distanza di qualche lustro il boulder sarebbe assurto a disciplina a se stante, peraltro ricca di contenuti e di una tecnica individuale molto evoluta.
Al di là dell’enorme contributo dato, come vedremo, da John Gill, colui che è unanimemente riconosciuto come il padre del bouldering è Oscar Eckenstein definito, proprio da Gill, “the first real bouldering personality”. Eckenstein è considerato un innovatore, anche nella pratica dell’alpinismo, un teorizzatore della tecnica di arrampicata, un maestro. Per delinearne meglio i tratti, e meglio comprenderne la poliedricità, basti ricordare una nuova concezione di ramponi da ghiaccio e nuove, più corte piccozze il cui disegno molto ha influenzato lo sviluppo degli attuali attrezzi da ghiaccio.
In tempi non sospetti anche Pierre Allain in Francia e il tedesco Hans Fiechtl avevano praticato il bouldering. Fiechtl, in particolare, anche se era sostanzialmente un alpinista che molto arrampicò con Hans Dulfer e Otto Herzog. E’ a Fiechtl che dobbiamo, nel 1913, l’impiego del primo, primitivo chiodo da roccia ideato da Dulfer intorno al 1912 e da lui utilizzato sulla parete est della Fleishbank. Tracce di bouldering le troviamo anche in Inghilterra e negli Stati Uniti dove già nei primi anni ’50 assunse il ruolo di una ricerca sperimentale che segnava un forte senso di avventura ed esplorazione.
Ma cos’è il boulder? O, quanto meno, cosa consideriamo oggi con il termine boulder? Boulder significa risolvere un problema tecnico, qualunque difficoltà lo distingua, con non più di 8-10 movimenti ad un’altezza variabile fra i 5 e i 6 metri da terra. Al di sopra di quest’altezza non è più possibile definirlo boulder ma “highball”. Pratica quindi fine a se stessa, che niente ha a che vedere con l’alpinismo anche se ne risulta propedeutica.
Padre indiscusso del boulder moderno è John Gill. Grande merito di Gill fu quello di non circoscrivere il boulder all’aspetto più manifesto, cioè quello tecnico, bensì quello di proporlo come veicolo di rapidi progressi utilizzabili da coloro, ed erano la maggior parte, che praticavano solo l’alpinismo.
Il boulder comincia ad assumere una sua fisionomia intorno agli anni ’50 negli Stati Uniti. Seguace di questa disciplina fu soprattutto quella “generation” sorta dalla spinta dei vari Robbins e compagni, dalla quale anche John Gill proviene seppur con significative diversità. Una generazione che si muoveva stimolata dalla domanda “quanto possiamo e quanto è difficile alzarsi da terra?”. John Gill, in particolare, aveva enormi capacità, un talento naturale e smisurato che gli valse il soprannome di “mosca umana”. Introdusse parallelamente allo studio sul boulder, una nuova metodologia di allenamento, della quale divenne convinto sostenitore, riuscendo nell’intento di trasportare una serie considerevole di movimenti da ginnasta nella pratica dell’arrampicata. E’ a lui che dobbiamo l’introduzione della magnesite, un ingresso mutuato proprio dalla ginnastica. Nella sua rivoluzionaria tecnica di allenamento presero forma trazioni, a turno, su un solo singolo dito, trazioni orizzontali su un solo braccio, movimenti mutuati dagli anelli tipo la posizione a “farfalla”.
Nell’arrampicata dimostrò grandi capacità intellettuali, un uso esemplare dei piedi, un coordinamento mostruoso. Se teniamo conto delle scale attuali John Gill è oggi riconosciuto come arrampicatore da 6c/7a a vista della scala boulder. Pensate, erano gli anni 50! Dietro la spinta di John Gill, in molti si dedicarono al boulder con successo e fra questi Royal Robbins, Pat Ament, Bob Kamps, Pete Cleveland. Quest’ultimo forse il migliore, che seppe in più di un’occasione competere proprio con il maestro. Uno dei meriti di Gill fu indubbiamente quello di convincere che il boulder aveva una sua mentalità, una sua visione, un’impostazione propria, insomma che non si trattava di vera e propria scalata. Questo forse, un ulteriore motivo che lo convinse a creare una scala di difficoltà finalizzata al boulder: B1, B2 e B3. Cioè difficile, di notevole difficoltà e al limite delle capacità. Jim Holloway rivedrà queste stime al ribasso aggiungendo alla scala di Gill anche il “facile” e il “moderato”. L’introduzione delle scarpette da arrampicata fece il resto.
In Italia, il boulder arriva intorno ai primi anni 70, soprattutto in Val di Mello, Valle dell’Orco e Val Masino. Ne ho già accennato. Arrivano i primi 7a, 7b anche se in Francia, a Fontainebleau, avevano già raggiunto tali livelli con quindici-vent’anni d’anticipo. E proprio da Bleau, dove si è messo in luce, proviene Jacky Godoffe che rimane, ancora oggi, uno dei migliori interpreti della disciplina insieme ai fratelli Nicole, svizzeri e convinti sostenitori del metodo Gill, che rimangono anch’essi un punto di riferimento delle nuove generazioni.
Il resto è storia recente.