La via Solleder-Lettembauer al Civetta di Leandro Benincasi

Annuario 2011

“Mi sai dire perché questa montagna si chiama Civetta?” – “Perché la incanta…”.

Con queste semplici ma poetiche parole un grande alpinista, Emilio Comici, descriveva negli anni ’30 la parete nord ovest del monte Civetta, una parete che esercitò su di lui, e non solo su di lui, un’attrazione particolare. Tra tutte le cime dolomitiche, anche fra quelle più “gettonate” e che si trovano raffigurate sulle copertine di riviste o sui manifesti pubblicitari o ancora sui posters, una in particolare s’impone per la straordinaria maestosità ed imponenza: la parete nord-ovest della Civetta. La potrete comodamente vedere, in tutta la sua grandiosità, dal lago di Alleghe, ma ancor meglio percorrendo la strada che da Arabba scende a Pieve di Livinnallongo, dove una terrazza panoramica che si affaccia sulla vallata vi consentirà di ammirare, nei pomeriggi radiosi, l’enorme parete, simile a una poderosa cattedrale gotica: non a caso è stata denominata “la Parete delle Pareti”.

Muraglia impressionante alta più di mille metri, lunga più di due chilometri, colpisce per la sua vastità, ma ancor più per l’aspetto severo, reso ancora più selvaggio e tetro nei giorni di pioggia e di tempesta. Su questa parete sono state scritte alcune tra le pagine più avvincenti e decisive della storia dell’alpinismo classico, e sono stati in molti, fra alpinisti e scrittori, ad assegnarle le più svariate definizioni. Di volta in volte è stata battezzata come il “regno del sesto grado” oppure come ”l’università della scalata”. Ma queste denominazioni, che tradiscono il puro e semplice aspetto tecnico, non sono sufficienti a comunicare quel qualcosa in più che sprigiona da questa parete, un fascino particolare che attrae e respinge al contempo, e che attira, oggi come allora, gli alpinisti di ogni epoca.

Brevi richiami storici. Con un po’ di giallo…

La storia alpinistica della parete nord-ovest parte nientemeno che alla fine dell’ottocento. Non si ha notizia di approcci o tentativi alla muraglia precedenti alla prima salita, ma certamente qualche studio e progetto deve esserci stato, se già nel 1895 si realizza, al primo colpo, la risalita dell’intera parete ad opera degli inglesi Phillimore e Raynor condotti dalle guide A. Dimai e G. Siorpaès attraverso un percorso lungo e tortuoso, alquanto decentrato rispetto alla vetta centrale, ma pur sempre all’interno del grande anfiteatro della nord-ovest. Qualche anno più tardi, e siamo nel 1906, salgono la medesima parete Tomè, De Toni e De Buos per un itinerario che poco si discosta dalla via precedente, ma con qualche tratto più diretto. Nel 1910 sono i tedeschi Haupt e Lompel a vincere la parete con un percorso ancora più diretto e soprattutto di grande difficoltà e impegno. Rispetto alle precedenti salite risulta meno decentrato, ma è ancora lontano dalla vetta principale, pur potendo essere considerato come la vera via diretta alla Piccola Civetta. Questa salita si sviluppa sotto il margine destro del celebre “Cristallo” (il caratteristico nevaio sospeso al centro della parete) e percorre grandi camini ed erte bastionate, perennemente bagnate, talora ingombre di ghiaccio. Per inciso questo itinerario, per lunghissimo tempo rimasto pressoché irripetuto, è stato recentemente ripercorso da forti alpinisti che hanno incontrato difficoltà superiori a quanto potessero immaginare, rese ancor più estreme dalla costante presenza del bagnato, e come se non bastasse, sotto il tiro costante di caduta di pietre. Qualcuno si è chiesto se già questa via non possa essere considerata di sesto grado, rappresentando così la vera prima via di tale grado.

Ma nonostante queste notevoli imprese, ancora nessuno aveva osato affrontare il vero problema della parete, ovvero la salita diretta alla vetta principale. Occorrerà attendere il 1925 per vedere realizzata la salita perfetta, e ciò avverrà ad opera di Emil Solleder e Gustav Lettenbauer che in un sol giorno, il 7 di agosto, saranno capaci di salire i 1.100 metri di dislivello della muraglia, superando difficoltà estreme. Da allora questo tracciato è stato considerato, a torto o a ragione, il primo sesto grado della catena alpina, ed ha rappresentato uno speciale banco di prova dell’alpinismo classico estremo. Ma la strepitosa vittoria nasce con una coda polemica.

Infatti, Solleder si prende in sostanza tutti i meriti dell’impresa, grazie alla tempestiva pubblicazione del resoconto della scalata, dove fa intendere che, a parte la celebre fessura iniziale percorsa da capocordata da Lettenbauer, il resto della scalata lo tira tutto lui, con l’altro al seguito. Solleder è già una guida famosa, ha già vinto per una nuova via la nord della Furchetta che aveva respinto illustri alpinisti, più tardi aprirà una nuova via al Sass Maor, e quindi ha gioco facile nei confronti di uno sconosciuto signor Lettenbauer. La nuova via, da quel momento, prenderà il nome di Solleder – Lettenbauer, mettendo così in ordine di importanza i salitori. Anzi, ancora più sinteticamente sarà chiamata “la Solleder”, omettendo il nome dell’altro compagno di scalata, declassandolo quasi a ininfluente portatore.

Ma le cose sono andate veramente così come le ha raccontate Solleder? Il suo apporto è stato così incisivo e determinante rispetto a quello del compagno di cordata, da rendere quasi superfluo il nominarlo? C’è da dubitarne, perché la versione della salita che fornirà Lettenbauer sarà assai diversa, e farebbe emergere l’importanza e il ruolo assunto da quest’ultimo, certamente pari a quello di Solleder. Oltretutto Lettenbauer è uomo modesto, non è una guida come Solleder e non ha bisogno di farsi pubblicità, anzi dopo questa grande impresa si ritirerà dall’alpinismo su pressioni della moglie, ma la faccenda della versione di Solleder non gli andrà mai giù, tanto che molti anni dopo confesserà, in un’intervista rilasciata a Toni Hiebeler, la sua amarezza per tale versione, a suo dire non corrispondente al vero.

Ovviamente non sapremo mai come sono andate esattamente le cose, e ognuno è libero di farsi un’idea propria in merito ai fatti raccontati. Ma sono molti gli storici che hanno ridimensionato il ruolo svolto da Solleder e valorizzato quello di Lettenbauer. Al riguardo consiglio di leggere il fondamentale libro di Vincenzo Dal Bianco “Civetta” (ed. Nuovi Sentieri) che riporta integralmente articoli e lettere dei diretti interessati.

Qualche considerazione personale

Sul merito della questione vorrei anch’io esporre qualche considerazione, iniziando a esaminare i semplici fatti che sono avvenuti e che non sono contraddetti dai protagonisti, nonché i vari punti ove le versioni si differenziano.

Innanzitutto un primo punto fondamentale: Solleder e Lettenbauer non sono abituali compagni di cordata, anzi prima di questa occasione non si conoscevano per niente. La vittoriosa cordata si formerà in seguito a varie circostanze, come spiegato più avanti. Ma vediamo come sono andate le cose. Solleder sale al rifugio Coldai, posto ai piedi della parete, da solo, senza il suo compagno di cordata, e vi trova due persone, Lettenbauer e Gobel, che intuisce essere alpinisti. Fingendosi “turista per caso” fa domande per carpire le loro intenzioni, e capisce che sono lì per fare la salita, pronti a portarla a termine l’indomani. I due devono essere subito apparsi a Solleder ben decisi e preparati. Forse i due (non è detto esplicitamente ma lo si deduce dal contesto) hanno già fatto un primo assaggio, hanno individuato il punto d’accesso alla parete e attrezzato il difficilissimo tratto iniziale.

Solleder è solo perché il compagno Wiessner (con il quale ha effettuato pochi giorni prima la vittoriosa salita della Nord della Furchetta e che poi l’ha accompagnato fino a Caprile per vedere la Parete) preferisce rientrare a casa, giudicando il tempo troppo incerto, ma con l’intesa di essere richiamato appena la situazione fosse migliorata. A questo punto le versioni discordano tra loro. Solleder sostiene che quella sera al rifugio i tre, presentandosi reciprocamente per quello che sono, cioè tutti pretendenti alla stessa salita, decidono di unire le loro forze in un’unica cordata. Lettenbauer invece sostiene che Solleder si sia presentato con l’intenzione di voler salire la via in solitaria e che l’indomani, all’attacco della parete, abbia chiesto di unirsi ai due. Comunque sia, i tre attaccano la parete insieme. Dopo i primi cento metri facili, arrivano al primo vero ostacolo: la celebre fessura orizzontale. Secondo quanto affermato da Solleder, la fessura viene affrontata da Lettenbauer che “non volle cedere la precedenza”. Ma la versione di Lettenbauer è diversa. Egli sostiene che i tre si erano accordati su come dividersi i compiti: il primo terzo della salita sarebbe stato tirato in testa da Gobel, il secondo da Solleder, infine il terzo da Lettenbauer. Così il primo tentativo viene fatto da Gobel, ma senza successo. Dopo tenta lo stesso Solleder, ma anche lui senza risultati. Infine ci prova Lettenbauer (che a parere di molti storici aveva già ispezionato in precedenza il passaggio) che riesce a superare sia la fessura orizzontale che il successivo tratto obliquo e verticale. In questo tratto rimarrà famoso l’impiego dei cunei di legno, che costituirono una sorpresa per lo stesso Solleder. Dopo qualche tiro escono dal duro passaggio e finiscono sotto a un grande camino nero. Lettenbauer vi s’infila dentro nel tentativo di superarlo, ma viene bloccato dal forte strapiombo che lo schiude. Passa allora in testa Solleder. Qui deve essere successo qualcosa che nessuno racconta e che porterà all’incidente di Gobel. Lo stesso Solleder dice chiaramente “mentre Lettenbauer ritornava [dall’infruttuoso tentativo nel camino n.d.r.] io tentai la parete verticale che delimitava il camino sulla sinistra”. Anche in questo caso potremmo chiederci se le cose siano andate così lisce come viene raccontato, visto che lo stesso Solleder ammette di aver preso a salire, affrontando passaggi estremi, mentre un altro componente della stessa cordata scendeva da un altro percorso. Ci stanno tutte le premesse per una divergenza in atto fra i tre. Fatto sta che Solleder riesce a salire sulla sinistra del camino e rientrare poi a destra al di sopra dello strapiombo che aveva bloccato Lettenbauer. Il passaggio, per quello che io stesso ricordo, è veramente estremo, poco proteggibile, ed è un vero capolavoro di Emil. A questo punto succede l’incidente a Gobel che, nel tentativo di raggiungere Solleder ed evidentemente con scarsa protezione della corda (Solleder dice che la corda non scorreva e che aveva difficoltà a recuperarla) alla fine vola e rimane penzoloni nel vuoto del camino, ferendosi a un piede. Lettenbauer raggiunge Solleder e insieme sollevano Gobel. L’ora è tarda e bivaccheranno poco sopra. La mattina seguente sono svegliati dalla pioggia che tamburella sui sacchi da bivacco. Devono scendere.

Con calma raggiungono il rifugio e scendono a valle per riposarsi. Evidentemente Gobel non si era ferito poi così gravemente, comunque deciderà di non unirsi agli altri per un nuovo tentativo, e si può nutrire qualche dubbio che tale decisione dipendesse dalla ferita, visto che pochi giorni dopo “l’infortunato” sarà ad arrampicare sulla Torre Da Lago.

La nuova cordata riattacca la parete due giorni dopo. È il 7 agosto 1925, il giorno della vittoria. Non senza polemiche… Solleder non riferisce di alcun accordo tra i due su come alternarsi alla guida della scalata. Non dice neanche a chi tocca affrontare da primo quei primi metri già percorsi nel precedente tentativo. Comincia ad accennare a chi sale in testa soltanto in occasione del secondo terzo della parete, quando la parete si raddrizza e non è chiaro dove si possa salire (è verissimo, confermo!) Al termine del primo terzo della salita, che finisce con un tratto molto facile, si giunge davanti ad una bastionata gialla e grigia dove è veramente difficile capire dove poter salire. È a partire da questo punto che Solleder afferma di salire da primo quel tratto, come pure i successivi: “Tre volte scorse l’intera corda di trentotto metri e ogni volta Lettenbauer, assicurato ai chiodi, mi seguì”. Nei tratti successivi dice chiaramente che continuerà lui da primo, vista la rinuncia da parte di Lettenbauer: “In verità avevamo l’intenzione di scambiarci a questo punto la direzione della cordata, ma poiché Lettenbauer non aveva nulla in contrario, continuai ad andare in testa”. Nei tratti successivi non accenna a cambiamenti di comando della cordata, però usa stranamente e ripetutamente i verbi al plurale: “aggirammo il passaggio …”, “una fessura strapiombante ci condusse …”, “nella luce del crepuscolo ci arrampicammo …”. Poi, alla fine, l’arrivo in vetta che è già buio completo.

Se questa è la versione di Solleder, ben altra è quella di Lettenbauer. In una lettera indirizzata dallo stesso a Wiessner, Lettenbauer racconta che i due si erano accordati su come procedere in cordata: “Ci eravamo accordati che il secondo, appena raggiunto il primo, continuasse subito conducendo la susseguente lunghezza di corda”. Sfortunatamente per Lettenbauer, un sasso lo ferisce a un braccio, al termine del primo terzo di salita, e quindi deve cedere il passo a Solleder che deve rimanere in testa. Segue ancora il racconto di Lettenbauer: “Così andò bene fino alla cascata, dove Solleder cadde, ferendosi all’avampiede”. Solleder propone di bivaccare, ma Lettenbauer decide di tornare in testa, e così rimarrà fino al raggiungimento della vetta.

Che dire di tutto ciò? È interessante richiamare inoltre un dato tecnico interessantissimo: Lettenbauer risolve il difficile percorso della fessura orizzontale mediante l’impiego di cunei di legno, in quanto la fessura si era rivelata troppo larga per trattenere dei chiodi (a quei tempi non c’erano né i Bongs, né tantomeno i Friends) e allora il geniale alpinista si procura dei pezzi di legno da incastrare nella fessura, dopodiché potrà infilare, tra questi e la roccia, i chiodi di sicurezza. Tutto ciò fa ritenere che Lettenbauer abbia già fatto, in precedenza, per lo meno un primo tentativo di salita, che abbia tentato di affrontare la fessura senza poterla percorrere per l’impossibilità di potersi assicurare, che sia ridisceso per fabbricarsi quei cunei di legno che gli consentiranno di vincere quel tratto impegnativo.

Per tutte queste ragioni sono in diversi oggi che vorrebbero chiamare la via con una nuova denominazione che renda il giusto merito al valore di entrambi i protagonisti, ma con una leggera precedenza a chi avrebbe avuto maggiori meriti, chiamando la via: Lettenbauer-Solleder.

Le prime ripetizioni

L’eco dell’eccezionale impresa si diffonde nella cerchia de più forti alpinisti dell’epoca, suscitando enorme scalpore. Ma la parete e la via incutono grande timore e nessuno, per qualche anno, ne tenterà la ripetizione. Si ha menzione di un tentativo del grande Emilio Comici, ma senza frutti: arrivato al primo vero ostacolo, la fessura Lettenbauer, Comici ripiega intimorito dalle difficoltà. Occorre attendere il 1928, tre anni più tardi della prima, per vedere un nuovo serio tentativo, questa volta coronato da successo, quello di Leo Rittler e Willi Leiner, che anzi apriranno una difficile variante, ancora più diretta dell’itinerario originale. L’anno seguente, il 1929, vedrà altre ripetizioni, ma sempre con il contagocce. La terza è ad appannaggio di Toni Shmid (quello della prima salita alla nord del Cervino) con Ernst Krebs, mentre la quarta è fatta da Walter Stosser (famoso per la direttissima alla sud della Tofana), Ludwig Hall e Fritz Shüt.

Un anno più tardi, siamo nel 1930, le ripetizioni dilagano (si fa per dire, vedi chi sono i ripetitori!): 5° Anderl Heckmair (il trionfatore dell’Eiger) con Hans Brehm. 6° Mathias Auckenthaler e Hans Rosl. 7° Fritz Stadler e Hans Zalut. 8° Attilio Tissi e Giovanni Andrich in giornata (prima italiana). 9° Hans Steger e Paula Wiesinger (prima femminile). 10° Karl Brendel e Hermann Schaller (quelli della prima salita della cresta sud dell’Aiguille Noire de Peuterey). Ovvio dire che la via costituirà, da allora, l’indispensabile banco di prova per tutti i grandi alpinisti dell’epoca d’oro del sesto grado e anni più tardi diverrà palcoscenico d’imprese ancora più ardite, quali la prima solitaria, ad opera di Cesare Maestri nel 1952 e soprattutto della prima invernale, di Ignazio Piussi, Giorgio Redaelli e toni Hiebeler nel 1963.

Sono passati molti anni da quella prima, altre vie sono state aperte sulla stessa parete, certamente più difficili e impegnative, come la Comici-Benedetti del 1931 e ancor più come il diedro Philipp-Flamm del 1957, ma la Lettenbauer-Solleder resta ancor’oggi una via di grande impegno e difficoltà, dove non basta essere all’altezza delle difficoltà, ma occorre sapersi orientare con sicurezza nel labirinto delle fessure e delle gole, scalare velocemente e in sicurezza su roccia non sempre salda e soprattutto con scarse protezioni. Con un dislivello di 1.100 metri e uno sviluppo di 1.350, la via presenta le seguenti difficoltà tecniche: 160 m. di 6°, 280 di 5°, 420 di 4°. A tutte queste difficoltà occorre aggiungere il costante pericolo di caduta di pietre, e soprattutto il pericolo derivante da un eventuale cambiamento del tempo: essere colti dal cattivo tempo su questa parete deve essere un’esperienza che può essere complicato poter raccontare.

Sembrerà strano che, dopo queste sperticate lodi a questa via, debba confessare che la sua ripetizione non era mai rientrata nei miei programmi. Del resto nessuno, del mio gruppo, ne parlava o la nominava come possibile obiettivo. Sarà stato per il fatto di ritenerla una via oramai datata (era stato il primo sesto grado, ma del 1925!), sarà stato che erano più attraenti altre vie sulla stessa parete, come la Philipp-Flamm o la Aste–Susatti, fatto sta che la Solleder- Lettenbauer non mi passava neanche per l’anticamera del cervello. Da tutti era scacata, ma da uno di noi era invece continuamente richiamata. Bastava passare da quelle parti. Riuscii a fare la Solleder (anzi scusate, la Lettenbauer – Solleder) nell’estate 2003, la famosa estate rovente. Fu per me una stagione fortunatissima, sotto il profilo alpinistico. E come spesso succede, a dispetto delle aspettative, che erano piuttosto dimesse. Infatti, giunsi alle porte dell’estate con un livello di allenamento pari a zero. Non esagero a dire così: non avevo toccato roccia dall’autunno precedente. E quando dico roccia, includo anche Maiano.

Però avevo fatto tanta bicicletta, il che mi aveva dato un buon allenamento di resistenza fisica generale. Ricordo che come exploit avevo fatto nello stesso giorno il giro dei nostri passi appenninici: Borgo S. Lorenzo – Muraglione – San Benedetto in Alpe – Marradi – Palazzuolo – Firenzuola – la Futa – Borgo S.L. Con alle spalle il miserevole allenamento su roccia cui ho accennato, fui molto sorpreso quando un giorno di luglio mi sentii telefonare da Marco (il Turchi) che mi propose di andare a fare “Tempi Moderni” in Marmolada. Ovviamente accettai, ma con un pizzico d’apprensione. Per allenamento, Marco mi portò a Maiano per … testarmi. Salimmo dapprima “Eta Beta” e poi “Polverosa”. Sul primo itinerario non ebbi grossi problemi, ma sul secondo la faccenda fu penosa: nel tentativo di superare il passaggio più duro feci così tanti sforzi, per lo più inutili, che devo essermi incrinata una costola fluttuante, perché sentii un certo dolore, che mi portai dietro per l’intera stagione.

Questo fu il mio solo allenamento alla via. Ma per fortuna c’era Marco, che quell’anno era in forma superlativa. Qualche settimana prima aveva fatto la prima ripetizione di una via del Piccini alla parete sud del M. Sumbra, in compagnia dello stesso apritore, una via estremamente difficile e difficilmente proteggibile (credo si chiami “Mente et malleo”). E così facemmo Moderne Zeiten, Marco come splendido capocordata ed io e il Tafi come bravi secondi. Non chiedetemi come mi comportai. Il primo tiro duro fu disastroso, mi attaccai a tutto quello che c’era e che non c’era, poi sui tiri successivi mi ripresi (anche perché non c’era più niente di artificiale cui attaccarsi), e in pratica iniziai quell’allenamento che non avevo fatto durante tutta la primavera. Poi venne l’agosto e mi recai a Zoldo, al “quartier generale” di Marco. Il tempo era splendido e caldo, la Parete delle Pareti era pulita come non la si vedeva da decenni (sfido, con quell’estate torrida!) e quindi non ci potevano essere scuse, ci toccava la nostra via. Questo è il racconto della salita.

Io e Marco sulla via

Partiamo prestissimo da casa a Zoldo, e non dal rifugio. Marco è contrario a dormire nei rifugi, perché dice che non ci si dorme bene. Per certi versi è vero, però tocca a fare, nello stesso giorno, un bel dislivello in più. Meno male che mi ero allenato in bici! Arriviamo sotto la parete e lo sguardo punta automaticamente verso l’alto. Altre due cordate sono già sulla via. Ammetto che mi fa un certo effetto trovarmi ai piedi di questa muraglia … Saliamo un lungo ghiaione per portarci ai piedi dello zoccolo d’attacco. Prima di toccare le rocce basali siamo costretti a rasentare un caotico macereto di sfasciumi: potrebbe sembrare un posto tranquillo, ma lì si scaricano tutte le pietre che cadono dalla parete sovrastante: un luogo mortale. Saliamo facilmente fino ad arrivare sotto alla famosa fessura Lettenbauer. Dalla sosta si deve salire una corta fessura. Niente di che, ma è molto rotta, quasi un misto di terra e roccia. Arriviamo così al tratto mitico: si tratta di traversare a sinistra attaccati alle braccia e con i piedi in contrapposizione sul liscio.

Il tratto orizzontale non è complicato, molto più duro il tratto successivo ascendente obliquo, perché umido e coperto di uno straterello di melmetta. Poi la fessura diventa verticale e la si risale per diverse lunghezze, fino a che diventa facile e termina in una gola sotto a un enorme camino nero, chiuso in alto da uno strapiombo. La via prosegue sul lato sinistro del camino, gira lo spigolo e sale su una costola sempre più difficile, con un bel passaggio veramente estremo. Ancora vari tiri di corda, poi traversiamo a destra, anche scendendo, per uscire poi in piena parete su placche più inclinate. Dopo qualche tiro ci troviamo all’altezza del Cristallo.

Traversata facile fino a portarsi nuovamente sotto la parete, che qui si fa verticale e poco interpretabile. Nel frattempo noi due vecchietti abbiamo già superato le altre due cordate, e per un attimo ci soffermiamo sotto la ripida parete, chiedendoci dove passare. Qui non è facile capirlo, ma Marco riesce, con grande intuito, a “leggere” la roccia e a individuare il passaggio (ovviamente niente chiodi che aiutino a capire il percorso). Fa seguito una meravigliosa serie di diedri e fessure ascendenti verso sinistra, da percorrere per un centinaio di metri. Presto arriviamo a un canalone detritico orientato verso destra e quasi invitante. Naturalmente non è da prendere, anche se sembra facile, perché porta fuori via (variante Dusso o Penzo). Attraversiamo le terrazze detritiche ed entriamo di nuovo sulla parete verticale puntando verso sinistra con passaggi difficili, fino ad arrivare a dei lisci camini dove avremmo dovuto imbatterci nella famosa cascata d’acqua, ma dove troviamo … un misero rigagnolo che non ci bagna neanche la corda. Fortuna!

Dopo questi camini la parete sembra abbattersi, ma è un’illusione: in realtà aumentano semplicemente le dimensioni e il numero delle terrazze, ma i tratti di roccia restavano belli in piedi. Entriamo poi in un labirinto di gole e rampe dove non è facile orientarsi. Spesso ci fermiamo interdetti, chiedendoci quale possa essere il percorso giusto. Sembravano tutte uguali e tutte impervie. Ci lasciammo andare alla libera interpretazione, all’istinto dell’alpinista. Dove andremmo se si stesse salendo una via nuova?

Miracolosamente non sbagliamo un metro di via e becchiamo tutte le soste. Quando crediamo di essere arrivati (cavolo, si vede la cresta contro il cielo!) incontriamo un ultimo passaggio difficile e strapiombante. La via non molla fino in fondo! Poi finalmente la cresta facile e dieci metri più su, la croce della vetta dove sventola (sorpresa!) una multicolore bandiera della pace. Dopo le foto di vetta, cominciamo a scendere veloci perché il sole già si abbassa sull’orizzonte. Puntiamo al piccolo rifugio Torrani, posto poco sotto la vetta. Marco vuole scappare subito via, ma io sono un po’ cotto, con un gran bisogno di bere e di farmi un panino. Lascio il rifugio a malincuore, dove stanno preparando una pastasciutta che mi sembra degna di Chez Maxim. Poi di nuovo giù per la normale, che mi sembra non finire mai. Quando arriviamo alla base, le gambe non mi reggono più. Vorrei fermarmi ma Marco, inflessibile, mi costringe a proseguire prendendo sulle sue spalle anche il mio zaino. Di fronte a tanta determinazione non si può resistere. Strada facendo incontriamo anche un nostro vecchio amico, lo Stefano Nuti, che ci chiede notizie della via, ma Marco ha fretta di tornare a casa e non si dilunga troppo a lungo. Io lo seguo sempre più penosamente. Qualche ore dopo arriviamo finalmente alle macchine. È quasi mezzanotte e non ci siamo mai fermati dalla mattina alle 5.

Valutazioni personali della via

Chissà perché avevo sempre sottovalutato la via. Per anni ho puntato a tante salite, ma quella era proprio fuori dai miei programmi. Marco invece la teneva sempre sotto controllo, verificando se era “in condizioni”. Dopo averla fatta, devo dire che si tratta di una grande via, con difficoltà abbastanza continue e un bel po’ di sesto grado. Poi la lunghezza veramente notevole ne fa una salita di grande impegno, dove il rischio di dover bivaccare non è remoto, soprattutto se si dovesse incorrere in qualche errore di orientamento e conseguente perdita di tempo per rientrare sulla giusta via.

 

 

 

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