Ben Nevis, storia di una giacca tre strati di Carlo Labardi

Autosave-File vom d-lab2/3 der AgfaPhoto GmbHAnnuario 2013

Una mitica giacca dal costo di alcune centinaia di migliaia di vecchie lire mi riporta indietro nel tempo e precisamente all’inverno del 2000 quando sono riuscito ad esaudire un vecchio sogno e cioè quello di andare a fare delle arrampicate su ghiaccio in Scozia e precisamente sul Ben Nevis.

E’ questo il monte più alto delle isole Britanniche benchè si elevi di appena 1.344 mt . sulle sponde dell’Atlantico, il suo nome sta a significare dal vecchio “gaelico”: picco con la cima fra le nuvole, ma anche velenoso o maligno, visto da sud assomiglia al

dorso di una balena. In inverno, tenendo conto delle condizioni climatiche a questa latitudine e della sua esposizione alle tempeste polari, le pareti rocciose vengono ricoperte da una ganga di ghiaccio e brina, i camini si trasformano in cascate di ghiaccio. Ciò spiega perchè questa montagna sia stata la culla della moderna arrampicata su ghiaccio chiamata “piolet traction” con l’uso, per primi ad opera di Scozzesi, di piccozze con lama sempre più inclinata rispetto al manico. Mi trovavo allora in Scozia con il fortissimo arrampicatore bolognese Lorenzo Nadali, nonchè Luigi, Carlotta ed Eugenio. Il nostro punto d’appoggio era un’accogliente “farm” vicino a Fort William

Dopo avere saggiato, il primo giorno, le colate di ghiaccio del Ben Nevis salendo il Green Gully, una volta ritornato alla fattoria mi ero accorto di non avere più il guscio a tre strati che in discesa avevo messo di traverso sotto la padelletta dello zaino nella zona paludosa e boschiva del Ben. Ripartiti in tre e ripercorso alla luce delle frontali gran parte del cammino di discesa, della mia costosa giacca … nulla da fare. Al mattino successivo eravamo andati al negozio di articoli sportivi di Fort William sperando che qualcuno l’avesse portata ma … niente. Ci fu comunque fatto presente che in Scozia è consuetudine, fra gli alpinisti, portare alla Police Station ogni tipo di oggetto trovato. Arrivati in questo luogo, dopo avere chiesto a una poliziotta se fosse stata ritrovata una giacca a vento, questa non mi rispose subito negativamente e ciò mi accese un lumicino di speranza, speranza che divenne conferma quando poco dopo mi chiese che tipo di giacca a vento fosse, il colore e la marca. Era stata portata lì da un’alpinista inglese che l’aveva trovata appunto nella fascia boschiva del Ben. Fattomi dare l’indirizzo, il minimo che potessi fare era inviargli una cartolina di ringraziamento appena tornato a Firenze.

Il giorno successivo nuova partenza antelucana dal fondovalle con le luci di Fort William che in basso diventavano sempre più piccole, sotto un cielo carico di minacciosi nuvoloni. Arrivati dopo due ore al piccolo rifugio Cic Hut a 700 mt di quota, il cui accesso era allora vietato ai non soci dello Scottish Mountaineering Club, il tempo era pessimo, bufera di vento, neve e temperatura polare tanto che avevamo difficoltà a calzare i ramponi e mettere l’imbraco. Carlotta e Eugenio non ci pensarono due volte a fare dietrofront e tornare a Fort William accompagnati da Luigi. Lorenzo invece, dopo avergli confermato di sentirmi bene al calduccio della mia rediviva tre strati, decise di partire con l’obiettivo di salire “the Curtain”, seguiti subito a ruota da una cordata di tedeschi a cui la nostra partenza aveva tolto ogni indugio. Ricordo Lorenzo muoversi con disinvoltura, quasi danzare, su un sottile strato di ghiaccio che copriva la sottostante roccia e arrivato alla prima sosta recuperarmi. La cordata di tedeschi prima di arrivare a questa sosta, per non creare ingorghi ed evitare le scariche di neve polverosa che si succedevano ad intervalli regolari, si era nel frattempo infilata in una grotta di ghiaccio. Il tiro successivo vide Lorenzo riportarsi sulla verticale della cascata e sparire in una nuvola di polvere bianca. Quando fu il mio turno ricordo ancora di una progressione alla cieca su ghiaccio quasi verticale, perchè le numerose piccole slavine mi avevano coperto tutto il viso di neve appiccicosa. Questa fine polvere nel frattempo era riuscita a entrare dappertutto e quando fui finalmente arrivato alla sosta sembravo l’omino della Michelin.

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Seguirono dei tratti più facili, poi, con il superamento di una grossa cornice, l’arrivo sulla vetta del Car Dearg in mezzo ad una fitta nebbia e a un turbinio di neve. I libri letti mi ricordavano che il Ben Nevis aveva fatto probabilmente più vittime del famigerato Eiger, soprattutto per la difficoltà a localizzare la via di discesa a causa della mancanza di punti di riferimento e che lo scozzese Joe Simpson autore del libro autobiografico “La morte sospesa” parlava di un amico che sul Ben Nevis era stato scagliato a dieci metri di distanza da raffiche di vento a 160 km/ora. Questi i pensieri che mi frullavano in mente. Lorenzo con la minimappa plastificata e la bussola riuscì a venirne fuori non senza qualche aggiustamento del tiro. Cessato di nevicare e scomparsa la nebbia scendemmo su pascoli fra lanose pecore intente a brucare i ciuffi d’erba liberi dalla neve e guadando alcuni torrentelli ritornammo alla nostra “farm”.

Prima di tornare in Italia con Lorenzo , Carlotta e Luigi andammo a Glencoe, famosa per il massacro del clan dei Mac Donalds del febbraio del 1692. Qui abbiamo effettuato una salita del versante nord-est del Buachille Etive Mor, con un avvicinamento nella brughiera caratterizzato dall’incontro ravvicinato, prima dell’alba, con numerosi cervi dagli occhi fosforescenti, quindi da una discesa in corda doppia per poter raggiungere un canalone nevoso il cui accesso, dal basso, era impossibile. Risalito il canalone e scartata una via di Chris Bonington, come era logico che fosse di fronte a cotanto nome, abbiamo raggiunto la vetta arrampicando dapprima su una bellissima cascata di ghiaccio compatto e successivamente per un terreno di misto L’esperienza scozzese si era così felicemente conclusa sotto ogni punto di vista.

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