Le vie di Walter Bonatti di Marco Passaleva

petit dru via bonatti climbing pillsAnnuario 2013

Il suo nome è parte fondamentale della storia dell’alpinismo, in specie quella degli anni ’50 e ’60, ed è anche indissolubilmente collegato a due montagne fra le più famose al mondo: Monte Bianco e K2 .

I suoi libri, i suoi articoli hanno raccontato le imprese e le avventure, viste attraverso i suoi occhi e le sue esperienze forti, spesso estreme, volute e vissute con inusuale caparbietà : anche chi non ha mai praticato la montagna o l’alpinismo le ha potute conoscere e ne ha potuto ammirare l’eccezionalità e l’unicità.

Erano gli anni dell’immediato dopoguerra e il mondo dell’alpinismo attendeva nuove grandi imprese dopo la forzata sospensione agli inizi degli anni ’40: Bonatti e Desmaison furono i protagonisti indiscussi nel massiccio del Monte Bianco, e non solo, aprendo decine di itinerari di estrema difficoltà, inaugurando anche l’era della comunicazione mediatica ancora sconosciuta nell’ambito della montagna.

Gli alpinisti di tutto il mondo hanno sognato di ripetere le vie di Bonatti così come era avvenuto per quelle dei Carlesso, dei Cassin, dei Gervasutti: ma non era la stessa cosa. Le sue vie sono scaturite sempre dalla volontà di risolvere “il problema dei problemi” di questa parete o di quella montagna e sono lo specchio della sua personalità forte, a volte complessa, che lo ha condotto spesso a sfide maturate dalla necessità di dimostrare al mondo che LUI era il più forte: come non ricordare quella lanciata sul Dru all’indomani dell’umiliazione subita nella spedizione al K2, uscendone trionfatore dopo 6 giorni di arrampicata solitaria!

 Marco Passaleva sulla Bonatti-Ghigo al Gran Capucin (foto M. Rontini)
Marco Passaleva sulla Bonatti-Ghigo al Gran Capucin (foto M. Rontini)

Le pareti di Bonatti sono speciali, hanno difficoltà molto particolari, sono il frutto dalla caparbietà psicologica oltre che di una prestazione di tipo sportivo, sono permeate di incognito ma anche di complessità che travalica le seppur toste difficoltà di passaggio: hanno un carattere pressochè unico perchè sono nate sempre da una scommessa con se stesso e da una sfida verso il mondo a Lui esterno.

Sarà per questo che se domandate in giro ad alpinisti vecchi e giovani, scoprirete che sono pochissimi coloro che hanno ripetuto le sue vie, quasi mai quelle che non fanno parte dello sparuto numero entrato di prepotenza nel novero delle più famose delle alpi; si può dire che il successo mediatico, l’attesa e l’interesse suscitati dall’Alpinista Bonatti nel corso delle sue imprese non sono stati seguiti da altrettanto interesse per la loro ripetizione.

Così molte delle sue vie hanno avuto rarissime ripetizioni; la famosissima via sulla parete Nord del Cervino, aperta con consueta tenacia in solitaria per celebrare l’apice della sua carriera con l’addio all’Alpinismo di punta (1965), non è mai stata presa in grande considerazione per la ripetizione tanto che ancora oggi la Nord si identifica unicamente con la classicissima via Schmidt; stessa sorte per alcune vie sulla parete della Brenva o su altre pareti del Bianco, altre ancora in Dolomiti..

Pilastro Bonatti al Dru (foto: archivio M. Passaleva)
Pilastro Bonatti al Dru (foto: archivio M. Passaleva)

Un pensiero particolare va alla Bonatti- Zappelli sulla Nord del Pilier D’Angle che ho potuto vedere da vicino salendo la Bovin-Vallencant; una via avveniristica per i tempi in cui fu aperta, su parete di ghiaccio complessa e difficile eppure anch’essa non molto ripetuta, lasciando la ribalta alle vie più moderne che affrontano le goulottes di maggiori difficoltà.

Quando per la prima volta toccai con le mie mani le fessure e gli appigli del mitico Bonatti fu un’emozione fuori dal comune; non solo per il mito che avvolgeva il Grand Capucin ma soprattutto perchè dopo molti anni riuscivo a vivere le sensazioni che, senza cognizione, avevo provato attraverso le giovanili letture delle sue imprese: questa era stata la prima per Lui ed era la prima “Bonatti “ anche per me.

Mi ero costruito mentalmente l’idea che si trattasse di una salita in artificiale attraverso gli strapiombi e le placche di granito: fu una vera sorpresa constatare invece che gran parte della salita si snodava attraverso magnifiche placche e fessure superabili in arrampicata libera. Per giunta alcuni tratti in artificiale sono talmente densi di significati e di memorie che formano essi stessi l’attrazione nell’attrazione: uno per tutti il muro di 40 metri. Quando Mauro Rontini, mio compagno di cordata, giunse sulla stretta cengia che si trova alla sua base, prim’ancora di autoassicurarsi fece un’acrobatica genuflessione esclamando con enfasi: “ Omaggio al grande Bonatti che qui passò una notte tormentata dubitando se il giorno dopo sarebbe riuscito a vincere l’enorme placca che abbiamo sopra la testa! “. Scoppiai in una grande risata ma Mauro seppe cogliere l’essenza di quel momento rompendo l’evidente emozione che toccava entrambi. I 40 metri di monolite sembrarono a Bonatti invalicabili e devo dire che anche a noi fece lo stesso effetto pur coscienti del contrario: una minuscola fessura si affaccia ad intervalli irregolari mostrando il punto di debolezza dove sono stati piantati i chiodi strettamente necessari alla progressione con l’uso di staffe. Volammo da un chiodo all’altro dopo il consueto “bisogna fare presto” e applicando la tecnica della “ rotazione delle staffe” messa a punto sulle vie di casa nostra per esasperare la velocità di salita: ne risparmio la descrizione rimandando ad altra occasione! Giungemmo in vetta entusiasti e commossi per aver percorso un pezzo autentico della storia dell’Alpinismo.

Marco Passaleva in arrampicata sul Pilastro Bonatti al Dru (foto: archivio C. Barbolini)
Marco Passaleva in arrampicata sul Pilastro
Bonatti al Dru (foto: archivio C. Barbolini)

Diversi anni dopo un’altra via di Bonatti entrò di prepotenza nel mio obiettivo; questa volta l’emblema e il marchio indelebile della sua attività al Monte Bianco: il Dru. Guglia di granito inconfondibile e ben visibile dalla valle di Chamonix venne di prepotenza alla ribalta dei media nel 1966 in occasione del famosissimo salvataggio di una cordata tedesca da parte di due cordate di alpinisti di elite, (fra cui Gary Hammings e Desmaison) che con vera e clamorosa competizione la raggiunsero separatamente percorrendo addirittura la parete ovest, via Magnone! Non c’erano ancora a disposizione gli elicotteri!

Nel 1955 Bonatti però aveva già messo definitivamente il sigillo su questo simbolo dell’arrampicata mondiale violando il pilastro ovest, un vero e proprio monolite di 600 mt. che da un centinaio di metri sotto la quota delle Flammes de Pierre conduceva alla vetta; il passato è d’obbligo perchè agli inizi degli anni 2000 alcune frane ciclopiche ne hanno purtroppo stravolto l’originaria fisionomia insieme alla mitica via. Solo la fortuna ha permesso che l’abbia potuta percorrere prima che fosse impossibile: ritengo tutt’ora che sia stata la più bella via in roccia che abbia mai fatto.

Come quasi sempre niente di premeditato, una telefonata ai primi di settembre del 1991, gli immancabili dubbi per l’assenza di allenamento e via verso  una nuova avventura.

La parete Ovest del Dru era già nota per le scariche che martoriavano sistematicamente il canale di accesso e la parte bassa della via Magnone  (la via dei francesi), pertanto l’accesso più sicuro al Pilastro Bonatti era ormai diventato quello dalla Flammes de Pierre, ovvero dal versante Charpua. Dalla stazione del trenino di Montenvers si deve raggiungere il rifugio/bivacco dello Charpua e da lì proseguire sul ghiacciaio fino alle Flammes de Pierre da dove con 3 o 4 doppie si giunge alla base del pilastro.

Erano con me Carlo Barbolini e Giancarlo Polacci; arrivammo al rifugio veramente provati, schiacciati da un sacco troppo pesante, che conteneva anche tutto il necessario per bivaccare direttamente alle Flammes de Pierre. Dopo varia discussione decidemmo di fermarci lì malgrado non fosse custodito, per partire molto presto nella notte evitando il bivacco. Fu una scelta vincente che ci consentì di riposare ed alleggerirci molto e poi c’era una cordata di due Guide di Chamonix che  avremmo seguito per non avere problemi con l’itinerario sul ghiacciaio, almeno così pensammo con certa astuzia! Li perdemmo nel buio della notte fra i crepacci dopo circa 10 minuti dalla partenza e li rivedemmo solo la mattina sul pilastro molto avanti a noi!

Giunti alle Flammes de Pierre ci buttammo con le doppie sul versante opposto, verso il canale delle scariche, su placche lisce e strapiombanti e proprio qui avvenne ciò che ogni provetto alpinista spera non avvenga mai: il bloccaggio della corda! Eravamo in tre sopra un terrazzino minuscolo, la prima corda era già andata in su di una ventina di metri quando si bloccò senza volerne più sapere; tentammo di tutto, fino a pensare che la grande salita fosse finita lì con una ignobile chiamata di soccorso al GHM di Chamonix (sempre che ci fossimo riusciti con la radio portatile che all’epoca portavo con me non essendoci ancora i cellulari) quando per disperazione ci attaccammo tutti e tre per l’ultima volta alla corda da ritirare e come d’incanto si sbloccò.

Attaccammo il Pilastro Bonatti con alcuni tiri su fessure di “normale amministrazione”, poi ebbe inizio una infinita successione di placche e monoliti di unica bellezza, da superare con raffinata tecnica di arrampicata libera, fessure nascoste, diedri e quant’altro si possa immaginare sul granito rosso del Monte Bianco. Spesso enormi placche monolitiche prive di fessure si paravano davanti come se non vi fosse più possibilità di progressione: solo dopo attenta ricerca e spostamenti in traversata era possibile capire quale fosse la chiave del passaggio e con frequenza la salita poteva proseguire con passaggi di rara bellezza seppur di alta difficoltà.

Giungemmo con entusiasmo nel punto in cui Bonatti si trovò bloccato dagli strapiombi e inventò un lancio di corda che, incastrata in una fessura, gli consentì di issarsi a braccia superandoli. Questa soluzione, ovviamente, non è mai stata seguita de nessuno dopo di lui; in alternativa fu attrezzata la cosiddetta “fessura degli austriaci” che si trova un pò a sinistra e si passa in arrampicata artificiale, ma che sinceramente trovai molto delicata ed anche molto poco “attrezzata” per cui fui costretto a fare giochi di prestigio piantando chiodi ed arrangiandomi con alcuni nuts.

Sulla Bonatti-Ghigo al Gran Capucin (foto: archivio M. Passaleva)
Sulla Bonatti-Ghigo al Gran Capucin (foto: archivio M. Passaleva)

Le sorprese non finirono perchè come d’improvviso scomparve il sole ed iniziò a nevicare: ben sapendo di avere solo le scarpette lisce ci lanciammo sugli ultimi tiri con la massima velocità tanto che, quando fui giunto sulla cima del pilastro mi fu necessario bloccare la corda per consentire a Carlo e Giancarlo di raggiungermi alla meglio salendo le placche ormai bianche.

Evidentemente lo spirito di Bonatti aleggiava ancora su quella parete e ci stava offrendo anche una delle sue mitiche bufere! Per fortuna invece smise di nevicare tanto che decidemmo di iniziare le doppie di discesa malgrado fosse già quasi buio, ripromettendo di fermarci a bivaccare solo se ci fossimo trovati in difficoltà a trovare la discesa; tutto andò per il meglio ed a mezzanotte ci infilammo nei sacchi da bivacco alle Flammes de Pierre godendoci lo spettacolo dei fulmini ancora all’orizzonte.

Purtroppo le grandi frane del 2003 e del 2005 hanno cancellato gran parte di questa meraviglia; resta solo la testimonianza di chi, come me, ha potuto toccare con mano quello che era considerato un capolavoro dell’ Alpinismo moderno, un segno indelebile e unico nella storia dell’alpinismo del dopoguerra. Non posso che invitare i tanti giovani che si allenano su difficoltà “moderne” a ripetere anche solo una delle tante vie “Bonatti” per comprenderne la straordinarietà e per rivivere le emozioni provate soltanto con la lettura delle sue molteplici imprese.

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