Alive, alive oh … di Roberto Masoni

Annuario 2013 – Cronaca semiseria del III° Choirs Festival di Dublino

gruppo alla guinness 2Per capire ciò che è successo a Dublino devo cominciare dall’inizio. Vi annoierò con i miei ricordi, che so non interessare, ma a questi devo andare se voglio spiegare l’atmosfera che ho trovato e che si è creata a Dublino.

Comincerò allora col raccontare di mio padre, grand’uomo mai mediocre, dotato di una buona dose di originalità. Talmente originale da pensar bene di lasciarci il giorno di Ferragosto nel caldo asfissiante di un’estate tremenda, nel pieno di una città vuota. Lasciare questa valle di

lacrime la mattina del 15 agosto non è certamente usuale ma, come dissero i medici, statisticamente possibile, ci mancherebbe: uffici pubblici al minimo sindacale, imprese di pompe funebri a basso regime, chiusi perfino i cimiteri, i medici legali una razza in estinzione. Alla fine mi arrangiai, come sempre, Marcello ebbe il Suo bel Trasporto nel più bel vestito Fumo di Londra che abbia mai avuto in vita Sua, da signore qual’era. Un’ora dopo la sepoltura i nostri parenti, e non erano pochi (a pensar male, qualcuno anche infastidito dall’improvviso contrattempo), stavano già rientrando ai loro rispettivi luoghi di villeggiatura. Riuscii a convincere anche Mamma a rientrare subito a Fiumetto, in Versilia. A Firenze, ormai, non c’era più niente da fare se non sbrigare qualche noiosa lungaggine burocratica. Ça c’est la vie.

L’apparenza di un funerale nei suoi semplici riti non lenisce il dolore di una morte, mai. Il dolore c’era e c’è ancora, grandissimo, da spaccare il cuore in due ogni qual volta penso a Lui perché mio Padre, nonostante le Sue contraddizioni, è stato unico per me, perché non viene a mancare solo una persona cara ma viene a mancare una guida, ti senti di colpo invecchiato anche se le rughe son sempre le stesse, impari l’atrocità e la bellezza della vita cosciente, purtroppo, che niente potrà mai più essere come prima. Tornando a casa, la sera, pensai alla grande eredità che Babbo mi aveva lasciato. Non pensai ai quattrini che aveva sul conto corrente, non sapevo nemmeno quanti fossero, probabilmente niente o forse tanti ma non me ne poteva fregare di meno, avrei comunque dormito sereno. Pensai invece alle due cose che maggiormente lo avevano entusiasmato nella vita e che era riuscito a trasmettermi: la montagna e la musica, quella lirica soprattutto, il canto in particolare.

Una ricchezza di immagini, di suoni, di sensazioni. A sera, guidando l’auto che mi riportava a casa, finalmente solo con me stesso mi slacciai il nodo della cravatta e mi parve di sentire ancora la Sua voce, autorevole come sempre, dura come un bastone di ulivo ma amica, tenera come una carezza, sussurrarmi: “Ora tocca a te figliolo coltivare queste passioni”. Sì … questa è stata la Sua eredità più grande. Il resto poteva attendere: le banche, l’anagrafe e anche il Paradiso.

Marcello aveva della montagna una visione magica, spirituale, incantata. Anche nei momenti peggiori sapeva coglierla nella sua bellezza. Era solito annotare tutto su semplici quaderni scolastici e molti degli scritti che mi ha lasciato parlano di montagna, ma mai banalmente, sempre con poesia. E poi Marcello sapeva scrivere, perbacco, molto meglio di tanti, me compreso naturalmente. C’è un breve passaggio, fra i suoi scritti che amo in modo particolare ma per meglio capirlo devo spiegarne il contesto: inviato al fronte viene spedito a Zirl, in Tirolo, praticamente alla periferia di Insbruck. E’ solo, avverte la solitudine di una guerra alla quale è estraneo, che non può capire e che non capirà mai. Scrive: “Scendevano a gruppi, le genti lungo i sentieri scavati nei fianchi della montagna aspra. Su tutto, la luna, nel suo pieno, lasciava piovere la sua pallida fiamma traendo dalla candida distesa di neve, lucenti riflessi argentei. Sul fondo, l’orizzonte si orlava dei contorni difformi delle montagne in una geometria frastagliata e superba come il fondale di un immenso palcoscenico. Ad un tratto, dal campanile, i rintocchi della mezzanotte sono precipitati nel vuoto ridestando l’eco delle vicine gole montane, moltiplicando all’infinito i dodici colpi. E’ stato allora che mi sono sentito solo, come se tutta l’intimità che mi circondava cadesse di colpo, come se intorno a me si fosse creato il vuoto. E mi sono visto lontano da qui, fra persone che come fantasmi pian piano si allontanano lasciandomi solo con il mio sgomento. Ho rivisto i tormentati campi di battaglia. E in quel momento, per tacita intesa, taceva il cannone per consentire agli uomini di raccogliersi e meditare. In quel punto, nella chiesa, intorno a me, si è levato il canto, era nato il Santo Bambino. Quando il canto è cessato mi sono accorto di piangere. Fuori, una volta uscito, la neve cadeva leggera”. Era la notte di Natale del 1943.

Ecco allora l’elemento ancora mancante del mio racconto: la commozione.

Come a Dublino, eccoci finalmente, quando nella Church of St. John Evangelist, tutti i Cori, insieme, hanno fatto vibrare le loro corde nelle note del Va pensiero di quel Giuseppe Verdi per il quale Marcello aveva un amore viscerale. La gente che d’istinto si alza in piedi unita in un applauso che non intende terminare, unita dal canto, come se quel “Oh mia patria” fosse stato per tutti il segno distintivo di un’appartenenza comune nella tormentata terra d’Irlanda. Non ho vergogna a dirlo, mi sono emozionato e ho pensato, al tempo stesso, che tutto, alla fine, nella vita si congiunge. Che tutto, bene o male, trova la sua sistemazione all’interno di un puzzle lungo un’esistenza che si consuma tuttavia in una frazione di secondo, al massimo nella durata di un canto. “L’eternità è un battito di ciglia” canta Lorenzo. Ecco perché son voluto partire dall’inizio.

Dublino ci ha insperatamente accolto sotto un tiepido sole. Il primo impatto con la città è stato all’Italian Institut of Culture, due piani in stile georgiano nel centro della città. L’accoglienza è delle migliori, nemmeno il tempo di entrare, nemmeno il tempo di una sigaretta dopo ore di astensione aerea, che già il Coro intona l’Inno di Mameli, i cuori volano alti, ci stringiamo a co-orte anche noi, incoraggiati non tanto dal desiderio di morte quanto dalle modeste dimensioni della stanza. Gli applausi non mancano, solo qualche minuto e di nuovo vibrano le note, è la volta di “Naneddu meu”, un canto che è, inaspettatamente, messaggero di commozione. Ancora lei, confusa fra noi, fra gioia e divertimento. Tutti noi ignoriamo che la Direttrice dell’Istituto, Angela Tangianu, è di origini sarde, gli anni passati a Dublino sono molti ma le radici non si strappano finchè c’è linfa. Osservo i coristi, senza malizia, qualcuno di loro è un formidabile campione di sincronia, riesce simultaneamente a cantare e a scattare foto a ripetizione. Se mai fossi stato capace di queste sincronie sarei stato un mostro sacro dell’alpinismo, Messner avrebbe fatto una figuruccia. Ancora un paio di canti e poi via.

Ci dirigiamo verso Mansion House, il Municipio di Dublino, dove ci attende Lord Major, Lord Naoise O’Muiri, vestito della catena d’oro che richiama i simboli dell’ufficio creato da Guglielmo III. Ci colpisce la presenza di un locale bar fornito, ovviamente, di ogni tipo di birra alla spina. Ma il problema vero, almeno per me ma penso anche per molti di noi, non è la sete quanto piuttosto la fame. Da stamani non mettiamo niente sotto i denti, chi sperava nel tradizionale spuntino durante il volo è rimasto deluso, la compagnia aerea ha sposato la linea della sobrietà, nemmeno un Oro Saiwa. Mi chiedo dove i coristi trovino le energie per cantare. Siamo ricevuti in un bel salone arredato con misura, suppongo sia il cuore del Municipio, dove il Sindaco ci accoglie con cordialità, ci porta il saluto della città. Tocca poi a Marco Bastogi portare il saluto della Martinella. Servono un paio di pedate negli stinchi, date con il sorriso sulle labbra, per convincerlo a concludere l’intervento, il risultato è ottimo. Tocca a me … un po’ di emozione c’è, inutile negarlo. Non tanto perché non sia avvezzo a parlare in pubblico quanto perché ho deciso di rispolverare il mio inglese a distanza di così tanti anni. Metto le mani avanti, chiedo subito scusa a Lord Major per miei eventuali errori, dimostra di capire, “non si preoccupi”, thank you. Vado avanti una diecina di minuti, con impegno perché qui non rappresentiamo solo il Club Alpino Italiano, e già questo è motivo d’orgoglio, ma anche la nostra splendida Firenze, la nostra lucente città.

DSC00242

Parlo del CAI come un modello di unità nazionale, come un’istituzione che unisce nei valori della montagna, parlo della ricchezza del nostro retaggio storico, parlo dei nostri 150 anni di vita come anni ricchi di quella vitalità che è l’elemento più manifesto della nostra tradizione la cui realtà è sintomo di “union and unity”. Un’istituzione, quella del CAI, che tende a “create and consolidate those constraints of socialization and solidarity that has as common array, the mountain and its values”.

Questo il motivo per cui oggi siamo qua, “This is why we are here today” scimmiottando presuntuosamente la frase di King nel celebre discorso del 28 agosto 1963.

Perchè, oltretutto, attraverso il canto “we can know and recognize. Because through the song we blend ancient passions, because through the song … we have today the extraordinary opportunity to know your great cultural heritage too. Learn about and share similar values to our: the friendship and the solidarity”.

Parlo volutamente di unità in questa terra irlandese a lungo dilaniata dai conflitti, parlo di Firenze con l’orgoglio del fiorentino, parlo di Firenze come di un simbolo di solidarietà e non solo di cultura, parlo della ricchezza di idee che accumuna le nostre due città, parlo della bellezza di Firenze, “my wonderful Florence”, dalla quale porto a Dublino i saluti della nostra Amministrazione Comunale ma “especially the greetings of all our people. I do it with so pleasure and pride”. Concludo ribadendo che i valori del Club Alpino Italiano sono gli stessi che identificano Firenze: “the values of civilization, culture, mutual friendship and human solidarity, values that are part of the historical legacy of Florence. And because I am precisely convinced of these values, dear Lord Mayor, I would like to thank you for giving us a great opportunity to learn about your city, Dublin, which shares the same values and so much more Your city has to teach us”.

Grazie Lord Major, thank you very much. Il rito dei doni, poi di nuovo un paio di canti. C’è anche la Vice Ambasciatrice d’Italia in Irlanda, presente proprio per rimarcare l’importanza della nostra delegazione, il Coro intona “Sul ponte di Perati”. Al termine eccola di nuovo, ancora lei. L’Ambasciatrice non riesce a trattenere le lacrime, si asciuga gli occhi con diplomazia, ringrazia. Ognuno, è ovvio, cerca di consolarla, Lei racconta storie struggenti di parenti pugliesi che hanno militato negli alpini, ragazza dolcissima, verrebbe quasi voglia di scioglierLe ancor più il cuore. “Vergognati, ragazzo … vedi piuttosto di fare seriamente il Presidente perbacco!”, “Si hai ragione … scusa”. Meno male c’è il mio amico invisibile. Finalmente in albergo, finalmente si mette qualcosa sotto i denti. Meglio sarebbe un piatto di tortellini al sugo ma a quell’ora va benissimo anche un salmone slavato. Pare sapere vagamente d’acciuga ma va bene lo stesso, son salmoni irlandesi.

E’ di nuovo mattina, si viaggia verso Marlion House affogata al centro di un parco bellissimo. Si canta su un prato dal tipico colore verde Irlanda (ci mancherebbe), ci ospitano in una vecchia limonaia, molto bella per la verità, un pavone ci saluta aprendosi vanitosamente in tutta la sua bellezza. Nel pomeriggio consumiamo il rito di visitare la Guiness, mito dublinese, poi finalmente, a sera, il gala nella Chiesa di San Giovanni Evangelista che niente ha a che vedere con il Battista, nostro Patrono, ma sempre San Giovanni è. La simpatia degli irlandesi è premiata da un pubblico entusiasta, 15 euri a testa, circa 600 persone. Tutti i Cori mostrano grande impegno, è una bella serata. Ecco … finalmente tocca alla Martinella. Uno, due, tre canti … poi il gran finale con la “Pavana”.

coro al Gala con gli altri cori_small

Il Maestro non ha ancora terminato di chiudere i palmi che tutta la gente si alza simultaneamente in piedi, applaude sincera, come se il tempo si fosse fermato. I coristi stessi paiono colti alla sprovvista, applaudono a Loro volta in direzione del pubblico. E’ un bel momento, sono contento, son felice di essere qui, felice di essere il Presidente del CAI Firenze. Felice perché tutto ciò premia gli sforzi, i sacrifici, l’impegno e l’ingegno dei coristi e del loro Maestro. Così come sono contento in questo momento, e non posso non pensarci, degli sforzi e dei sacrifici di tutti coloro che si impegnano nella riuscita di tutte le nostre attività. Questo successo del Coro, peraltro in una manifestazione importante come questa di Dublino, è tuttavia tutto Loro, è giusto se lo prendano, che se lo assaporino fino in fondo. Posso solo dire grazie, grazie davvero e mi permetto di dire, da parte di tutti i Soci della nostra Sezione. La serata naturalmente non è finita qui, siamo andati avanti fino a notte fonda allietati dai canti e dalla compagnia degli altri Cori, altri scambi di doni, un bell’incontro, un’esperienza da trasferire magari, in un prossimo futuro, a Firenze.

Ma è già domenica. Giusto il tempo di vedere qualcosa, è già ora di riprendere il volo per Fiumicino. Un tour per la città, chiese gotiche che si danno di gomito, un parco immenso affogato nel verde dove i cervi pascolano tranquilli, la vita quotidiana di una città che vive la tipica tranquillità anglosassone. Non può mancare la visita alla statua, nemmeno bella, di Molly Malone, eroina irlandese che vendeva pesci di giorno per poi ospitarne qualcuno di notte fra le sue braccia. Non ci facciamo mancare due note di saluto. In alto i cuori: crying cockles and mussels, alive, alive oh, viva l’Irlanda e viva Bartali (sempre).

DSC_0335
La statua di Molly Malone

Concludo velocemente avendo già occupato fin troppo spazio, prendendomi il lusso di qualche riflessione in libertà, magari un po’ più seria delle precedenti. C’è un luogo comune che afferma come il canto venga naturale quando siamo sotto la doccia. Non c’è niente di più falso anche perché l’acqua entra in bocca, almeno a me. Si canta piuttosto in tutte quelle occasioni nelle quali sentiamo il piacere di cantare. Si canta e basta, quando capita, in bicicletta, a lavorare, a me capita, e nemmeno di rado, mentre arrampico, si canta nei momenti di felicità ma anche nei momenti di tristezza. Marcello cantava tutti i giorni ma non faceva certo la doccia tutti i giorni. Ma se è semplice cantare in solitudine, e poco conta l’essere intonati o meno, non altrettanto semplice diviene il cantare in compagnie numerose dove è necessario accordare i suoni. Dove sta allora il segreto? Nella straordinarietà di un Coro, uomini, e talvolta donne, che si mettono insieme per cantare. Ecco il trucco ed eccone, al tempo stesso, la bellezza. E’ una forma di unione, una forma di vincolo legato dall’armonia, dalla gioia di cantare, dalla comprensione dei motivi che le note del canto trasportano con sé, dalla bellezza dei suoni compresi quelli di cui non siamo capaci. Persone diverse, ognuno con la propria personalità, con il proprio carattere che decidono di unire i propri sforzi e i propri talenti coscienti che niente sarà facile, coscienti dei contrasti che si possono creare, certo, ma che decidono spassionatamente di farlo nel nome di un’amicizia, di una passione comune. Nel nostro caso, e questo è il motivo per cui voglio ringraziare il Coro La Martinella, anche nel nome del Club Alpino Italiano di Firenze. Alive, alive oh …

 

Condividi questo articolo attraverso i tuoi canali social!