Non una qualunque: la Kuffner di Jacopo Baldi

Pensavo fosse uno scherzo quando Nicco mi disse: “ preparati, ci son le condizioni… fra poco si va a fare la Kuffner “. Scoprii ben presto invece che le sue intenzioni erano tutt’altro che scherzose.

Kuffner: un nome importante nel massiccio del Bianco, una classica, se così si può dire, per arrivare in vetta al Mont Maudit. Una sottilissima cresta che tra aerei passaggi su ghiaccio e pareti di roccia, partendo dal famoso bivacco della Fourche porta fin sotto alla spalla del Mont Maudit. Un viaggio più che una gita in cui la mente e il fisico devono essere adeguatamente preparati: l’errore non è concesso e la distrazione non è contemplata.

I giorni prima della partenza sono sempre i più complicati perché bisogna decidere se ci saranno o meno le famose condizioni. Questa volta a prendere la decisione saremo solo in tre: io, Nicco e Carlino… Il gruppo è ristretto! Il tempo non sembra granché, ma l’entusiasmo di Nicco e la positività di uno sconosciuto sito meteorologico ci spingono ad andare lo stesso. La routine è ormai la stessa: partenza a fine università o per i meno fortunati a fine lavoro, pernottamento al campeggio di Courmayeur ai piedi dell’imponente Aiguille Noire e salita a Punta Helbronner con la prima funivia.

Il tempo è come previsto: brutto. Nevischia e tira vento, ma tanto abbiamo da fare solo 500 metri di dislivello per arrivare al bivacco. Indossiamo i cappucci, chiudiamo le zip della giacca a vento fino al mento e ci mettiamo in marcia. Il panorama è sempre lo stesso, sempre avvincente, ma le nuvole questa volta velano le vette delle montagne, solo qualche raggio di sole riesce ogni tanto a penetrarle. Percorriamo rapidamente il ghiacciaio del Cirque du Maudit fino alla base del canale che ci porterà sulla cresta dove è collocato il piccolo bivacco. Qualche facile passaggio di misto, una breve calata lungo una corda fissa e poggiamo i piedi sulla terrazza del bivacco. La nebbia avvolge l’orizzonte e la Kuffner si perde in una spessa coltre di nubi, il vento fischia impetuoso lungo la falda del tetto e la calotta del Bianco si mostra saltuariamente: “Peccato” esclama Nicco “Da qui si poteva vedere tutto… Ma davvero tutto! “. Non immaginavo nemmeno lontanamente che a pochi passi da noi, dietro a quel grigiore, si celasse un panorama da brividi, l’estasi per gli occhi di un alpinista… ma lo scoprirò presto. Il bivacco è molto minimal e confortevole: quattro letti a castello, due panche e un pianale per appoggiare gli zaini. Intelaiatura in legno massello e un ripiano in metallo per cucinare, adeguatamente sagomato dall’Accademico in persona. Manca qualcosa… già, dimenticavo le coperte… Son meglio di quelle di casa. Insomma anche il solo bivacco merita un viaggio! “Via, via che c’ho fame! “. Gli stomaci iniziano a brontolare. Sarà bene mettersi a cucinare: risotto alla milanese, pastina in brodo e un’ottima minestra ai funghi da versare rigorosamente a pioggia, come indicato dalle istruzioni per la cottura. Anche se non abbiamo ben capito come fosse, ma va bene così, tanto la pancia ce la siamo riempita lo stesso. Dopo un’ottima dormita al caldo di quelle fantastiche coperte, apriamo la porta del bivacco e usciamo sulla terrazza. Sbam… una fucilata ci trafigge il petto. Il respiro si ferma per un attimo e gli occhi rimangono impietriti. Le nuvole sono svanite e i raggi del sole inondano l’orizzonte. La calotta del Bianco ci sovrasta dall’alto dei suoi 4.810 mt. Una miriade di vette, guglie e seracchi scandisce l’orizzonte. Sulla sinistra la cresta di Peuterey da cui svettano la tetra piramide dell’Aiguille Noire, la mole dell’Aiguille Blanche

de Peuterey e il Grand Pillier d’Angle. Che emozione deve essere percorrerla. Sulla destra la nostra meta, la famigerata Kuffner con il Mont Maudit in lontananza, sotto di noi invece un deserto di ghiaccio: è la famosa Brenva, chiusa in lontananza dall’omonimo sperone.  Gli occhi mi luccicano dall’emozione e il petto si riempie di gioia, rimango estasiato davanti a tanta bellezza. La macchina fotografica scatta di continuo con la speranza di immortalare questo panorama per poterlo portare a casa. Rimaniamo immobili con gli occhi impietriti per qualche minuto, poi ci mettiamo a scrutare la salita del giorno dopo: i canali nevosi iniziali, il primo risalto roccioso, il traverso fotogenico e l’inconfondibile Androsace che segna poco più della metà della via.

Cenetta abbondante con tanto di dessert offerto da Carlino e poi ci ritiriamo sotto le coperte. La nostra speranza si è avverata: il bivacco è tutto per noi. Una rarità!

Il sonno sembra volermi evitare, troppi pensieri impegnano la mente: e se domani fosse troppo difficile, e se i traversi fossero ghiacciati, e se i tratti di misto fossero troppo impegnativi, e se… Finalmente mi sono addormentato. La notte scorre veloce, anche perché alle tre siamo già in piedi a preparare la colazione. La testa non mi ha dato fastidio e la quota sembra non farsi sentire, mi sento bene. Un po’ di incertezza su come legarci e poi si parte. Nicco guida il gruppo e Carlo lo chiude, io invece sto nel mezzo. Il vento soffia forte e la nebbia domina la visuale ancora una volta. L’oscurità regna intorno a noi e la strada è illuminata dal fioco bagliore delle nostre frontali mentre silenziosi ci facciamo strada sull’esile profilo della cresta. Un tratto iniziale di misto, una rampa rocciosa in discesa e siamo al primo traverso nevoso, il primo vero ostacolo da superare.

Picca, piede, piede, picca… Picca, piede, piede, picca...” Sul movimento ci siamo. Adesso basta non guardare in giù e rimanere concentrati. La neve inconsistente e l’assenza di una traccia ci costringe a percorrere tutto il traverso faccia a monte. Siamo legati a 3 mt. e di protezioni tra di noi non ce ne sono: c’è solo la fiducia nei compagni e la fiducia nella propria concentrazione.

L’errore è bene non prenderlo nemmeno in considerazione. Le punte dei ramponi affondano nella neve inconsistente. La sensazione prodotta è strana: sembra di stare con le ciabatte in bilico su una placca bagnata… “ che terranno o non terranno?”. “Picca, piede, piede, picca “, siamo fuori dal traverso. Continuiamo su per un risalto roccioso ancora imbiancato dalle ultime nevicate. Nicco procede veloce e noi facciamo altrettanto: siamo in perfetto orario con i tempi. Il vento si fa più forte e adesso ha iniziato anche a nevicare: “Ma ‘sto tempo, non dovrebbe migliorare?”. Per ora del sole non si vedono nemmeno gli albori, le uniche luci che si vedono in lontananza sono quelle dei lampi verso il confine svizzero. Mah, speriamo bene. I traversi si susseguono uno dopo l’altro intervallati da brevi tratti rocciosi. Cerco di scacciare via i brutti pensieri e di concentrarmi, ma i dubbi son sempre lì pronti ad assalirmi la mente: “ma se scivolo che succede… E se Nicco mette male un piede… E se… ” troppi ma e troppi se, devo non pensarci.

Finalmente il traverso fotogenico, ma del sole nemmeno l’ombra. La macchina fotografica rimane in tasca.

Qualche dubbio su come procedere e poi Nicco attacca il traverso. Sempre di conserva, sempre senza protezioni intermedie, sempre faccia a monte. Ma questa volta si scende! Data la grossa quantità di neve decidiamo infatti di aggirare l’Androsace scendendo una ventina di metri per andare ad imboccare un canale nevoso. Siamo a 4.107 mt. di quota. La metà è superata, ma la mente inizia ad essere stanca. D’altronde si sa, “la montagna è testa” e in effetti è vero: per fare la Kuffner non servono l’8a da falesista, avambracci alla Popeye o, bicipiti alla Schwarzenegger. Serve una mente d’acciaio e un po’ di banane nelle gambe. Una successione di passaggi su roccia e un tratto di cresta larga. Poi il dubbio: “si passerà di qua o si passerà di là?” il dubbio che tormenta ogni alpinista. Trovare la via è un’arte. Ci vuole occhio ed esperienza. E ovviamente anche una buona dose di quello che inizia per “c”. Di quello però sfortunatamente noi non ne abbiamo e infatti optiamo per l’alternativa sbagliata.

Un diedro di misto inizialmente strapiombante, poi una sessione appoggiata intrisa di neve con pochi appigli e infine un traverso discendente di misto. Attrezziamo una sosta e ci lanciamo nella sfida. Nicco tenta, ma non riesce a passare lo strapiombo: “Carlo siamo nelle tue mani, io di qui non passo”. Qualche tentativo, un azzero su friend, un po’ di coraggio e ce la fa. Mitico Carlino! Ovviamente a tre metri da noi, dietro un pilastrino roccioso, c’era un comodissimo canalino nevoso. Ma va bene così, abbiamo aperto una variante!

Il sole si è finalmente mostrato ai nostri occhi, la nebbia si è dissolta e lo sguardo spazia a 360 gradi, ma il vento ha ripreso a soffiare impetuoso. Un altro canale nevoso chiuso tra due bastionate rocciose, un breve traverso poco esposto e siamo al pendio finale. Mi giro indietro a guardare ciò che abbiamo percorso: la verticalità è impressionante e il bivacco della Fourche altro non è che un minuscolo puntino immerso in un oceano di granito e neve, quasi invisibile ad occhio nudo.

Gli ultimi metri tra maestosi gendarmi di granito e siamo a un colle. Ci abbracciamo felici: ce l’abbiamo fatta! Il viaggio è compiuto, almeno quello d’andata… adesso bisogna scendere. Dopo un breve tentativo di arrivare in cima, Nicco si rende conto dell’ora tarda e decidiamo di iniziare la lunga e infinita discesa rinunciando a malincuore alla vetta. Un lungo pendio a 50 gradi sulla spalla est e siamo al Col du Maudit, percorriamo lentamente la breve risalita alla cresta del Tacul fin quasi sotto la vetta e iniziamo la discesa della sua parete nord, tracciata come d’inverno. La neve marcia e i crepacci minacciosi con cui Carlo ha un incontro molto ravvicinato, rendono la discesa molto più faticosa.

L’Aiguille du Midi sembra così lontana!

Tic-Toc, Tic-Toc, le lancette dell’orologio continuano a scorrere in avanti: non sapendo a che ora chiudano gli ovini per Punta Helbronner dobbiamo correre. Butto la corda nello zaino e inizio la corsa contro il tempo. Testa bassa e passi regolari. Il lungo pianoro e 350 mt. di dislivello ci separano dalla funivia dell’Aiguille du Midi, abbiamo 45 minuti di tempo per percorrerlo se vogliamo prendere gli ovetti per arrivare al Torino.

Stacco Nicco e Carlino un po’ più affaticati arrivando mezzora prima di loro per informarmi sugli orari.

Fortunatamente ci eravamo sbagliati: c’era un’ora in più di tempo! La Kuffner è fatta, non è una cresta qualunque.

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