150 anni di scienza in montagna – di Andrea Tozzi

Nel 1868 Whymper, dopo alcuni anni di tentativi, aveva da poco conquistato il Cervino. Impresa epica, che vedrà purtroppo la morte di quattro persone durante la discesa: i primi della cordata precipitano  nel  vuoto scomparendo alla vista dei tre sconvolti superstiti. Immaginiamo la situazione molto critica, la tensione alta ed è in quel momento, racconterà poi Whymper, che i tre assistono alla visione incredibile di tre croci che si stagliano nel cielo. 

È il primo riferimento storico di un non troppo raro fenomeno ottico detto Glorie1  a cui può capitare di assistere se si è  in  alta  montagna  o  magari  a  bordo di un aereo e si guarda dal lato opposto del sole: se c’è una nuvola o della nebbia, si può talvolta vedere la nostra ombra proiettarvisi sopra e attorno ad essa notare la presenza di una aureola colorata, simile sull’arcobaleno, ma con i colori invertiti. Mi piace pensare che il racconto di questa visione sia arrivato agli orecchi del tisico inglese Charles Thomas Rees Wilson che nel tentativo di spiegare il curioso fenomeno costruì nel 1899 la «Camera a Nuvola», poi ribattezzata «Camera a Nebbia» e che è stato il primo strumento che ha permesso all’umanità di vedere le tracce di passaggio delle particelle  elementari; non di meno! Invenzione per la quale gli fu assegnato il premio Nobel per la fisica nel  1927  insieme  a  Arthur  Holly Compton  (quello  dell’effetto Compton).

Ecco un primo esempio di «scienza in montagna»  un’osservazione  fortuita ha portato, durante la ricerca della sua spiegazione, ad uno sviluppo tecnologico e scientifico con importanti ricadute. All’epoca  nessuno  si  sognava  di  fare scienza in cima ai monti, già era abbastanza  ardita  l’idea  di  frequentarle,  le cime, figurarsi di usarle per scopi scientifici.  Ma  150  anni  dopo  le  montagne si  sono  dimostrate  essere  degli  ottimi punti di osservazione della Natura. Se oggigiorno pare scontato osservare l’Universo dalla cima di una montagna, nel 1868 ancora nessuno ci aveva pensato: Sir William Herschel aveva già compiuto osservazioni del cielo usando telescopi sempre  più  grandi  che,  come  diceva lui, avevano un «poter di penetrazione dello spazio» sempre maggiore arrivando  fino  a  costruirne  uno,  nel  1789,  di 48 pollici di diametro (122 cm circa) basato su di uno specchio metallico che ancora splende dietro una teca al Museo della Scienza di Londra. Fu lui, con le sue osservazioni, a tracciare la rotta della moderna cosmologia e a mostrare come il nostro Sole non fosse altro che una  comune  stella  all’interno di uno dei tanti «ammassi» che si attraevano, fondevano e scontravano mossi dai complessi legami gravitazionali. Le osservazioni venivano compiute da luoghi posti nelle vicinanze di grandi città industrializzate come Londra o Parigi dove sorsero veri e propri osservatori. Bisognerà aspettare il 1894 per vedere un telescopio finalmente posto in montagna: è un 36 pollici, in vetro, prodotto dalle officine ottiche di George Calver di Chelmford (UK) e alloggiato su un rivoluzionario montaggio meccanico realizzato da Andrew A. Common (UK) che dopo essere passato da un venditore di tappeti a cui fu venduto dallo stesso Common per 2500 sterline, approdò all’astronomo dilettante Edward Crossley, che lo donò infine al neonato Osservatorio professionale di Lick sul Monte Hamilton, in California. Ecco che per la prima volta la montagna veniva usata per osservare il cielo, facendo uso di uno strumento ottico all’avanguardia, dotato anche di lastre fotografiche e  di  un  montaggio di tutto rispetto. È il Lick Observatory, tuttora funzionante: il primo osservatorio permanente dell’umanità posto in cima ad una montagna. Fu costruito tra il 1876 e il 1887 da James Lick per 700 mila dollari, che fanno circa 20 milioni di euro attuali: cifra curiosamente simile a quanto può costare un moderno telescopio di classe otto metri!

Da allora quel fantastico luogo di osservazione dell’Universo che sono le montagne non hanno mai smesso di ospitare telescopi sempre più grandi, strani e potenti(2):

  • 1949, il Palomar Observatory sull’omonimo monte (1712 m) con il suo specchio monolitico di 5  metri  di  diametro ha segnato un’epoca;
  • 1993, il Keck Observatory sul vulcano Manua Kea (4145 m) con due telescopi segmentati da 10 metri;
  • 1998, il Very Large Telescope (VLT) sul Cerro Paranal (2635 m) con i suoi quattro telescopi monolitici da 8.2 metri; 2005, il Large Binocular Telescope (LBT) sul Monte Graham (3221 m) con i suoi due specchi da 8.4 m.

Ma la montagna si è popolata anche di altri laboratori: agli inizi del XX secolo in Italia la Capanna Margherita,  sorta nel 1893 e posta a 4554 m sulla Punta Gnifetti, fu usata per i primi studi di fisiologia d’alta montagna e tutt’ora si continua a farlo.
Nel 1987, su iniziativa di Ardito Desio, il CNR costruisce a 5050 m, giusto ai piedi del Monte Everest, la famosa Piramide: è un laboratorio in cui si compiono vari studi di carattere climatico, ambientalistico e medico.
Nel 1996 sui 3220 m del Plateau Antartico è sorto Dome C in cui si fanno studi di glaciologia, fisica dell’atmosfera e astronomia. E come non ricordare la grande intuizione del fisico Giuseppe Occhialini (socio della Sezione Cai Firenze e speleologo), detto Beppo, che nel 1954 chiese a un giovane Walter Bonatti di  portargli  sul K2 una serie di lastre fotografiche che effettivamente furono prese in carico dalla missione e trasportate davvero nel lontano Karakorum. Il pacco fu, mi immagino, caricato di malavoglia sugli zaini e portato in su allo Sperone Abruzzi e là «dimenticato» verso quota 7000 dai conquistatori del K2 che al ritorno ben si ricordavano della cosa tanto da far loro dire che le lastre eran lassù, «chi vuole può salire a riprenderle!»(3). Fu un tentativo geniale di misura dei raggi cosmici e un antesignano degli studi di fisica delle alte energie. Studi che attualmente si compiono non solo nell’alta atmosfera, ma anche in dentro le montagne: il laboratorio del Gran Sasso ospita fra i più importanti esperimenti di questo genere di fisica.

La montagna dunque non come luogo di sfide o meta di sogni, ma come luogo di lavoro e di studio: l’ambiente lassù, lo sappiamo bene, è spesso ostile, freddo, difficile e talvolta di pericoloso raggiungimento. Può capitare di rimane isolati, impossibilitati a scendere, soli con questi grandi strumenti che reclamano attenzioni e cure continue anche, e in particolare, se fuori infuria la bufera o il freddo si fa talmente intenso da gelare tutto. Ci vuole attenzione, direte voi, per lavorare in questi laboratori così lontani dalle città, dove anche i mezzi di soccorso non possono sempre arrivare, ma io vi dico che più che altro ci vuole passione, curiosità, professionalità e consapevolezza dei luoghi. Oh guarda… son le stesse cose di cui necessitano gli alpinisti! Quasi mi vien da pensare che siano i luoghi e la Natura che circonda le persone a plasmarne il loro modo di essere e che quando ci si allontana dalla Natura rifugiandosi nelle città, nate per imbrigliarla e controllarla, si cambia modo di essere e di pensare. Ed ecco che anche la montagna comincia ad apparire ai più un luogo remoto e  lontano,  inavvicinabile  e  pericoloso, incomprensibile e alieno come tutte le cose, o persone, che non si conoscono e il nostro sodalizio si ritrova ad essere uno dei pochi luoghi in cui si tenta di riavvicinare l’uomo a queste strane entità che son le montagne, meta di matti o alla meglio di scienziati che, a ben veder, dei matti son la punta di diamante!

(1) Vedi  articolo  «Glorie  nell’alto  dei  monti!»  Annuario CAI FI 2012, p.42

(2)Vedi articolo «Specchi in montagna», Annuario CAI FI 2011., p. 20.

(3) «Alla scoperta dell’Universo Invisibile» di G.F.Bignami, Le Scienze, Dicembre 2007, pag. 68.

 

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