Racconto di Armando Ermini; approfondimenti, introduzione e foto di Alfio Ciabatti
Continua il nostro percorso sulle tracce della prima guerra mondiale. Il 2018 segna il centenario della fine del conflitto e dopo aver visitato il teatro della guerra bianca e il Pasubio, era doveroso e interessante visitare il fronte sull’Isonzo sul Carso dove furono combattute le grandi e decisive battaglie della Grande Guerra. Battaglie diverse da quelli ottocentesche, sia per la staticità che per l’utilizzo delle nuove armi come la mitragliatrice e le artiglierie che comportarono una grande quantità di caduti. L’obiettivo dell’escursione del 13 e 14 ottobre 2018 erano i luoghi di due personaggi: Niccolò Gavotti e Giuseppe Ungaretti, persone molto diverse ma ambedue con i valori del tempo, che hanno lasciato il segno nella oramai labile storia del grande conflitto.
Il Carso è una propaggine orientale delle Alpi. Si estende tra il nord-est dell’Italia tra le province di Gorizia e Trieste e la Slovenia e Croazia. Questa zona, composta prevalentemente di rocce calcaree, ha rilievi poco elevati e tondeggianti. È attraversato dal fiume Isonzo che prima di arrivare a Gorizia, ne incide in modo evidente il territorio. Dalla conca di Plezzo al monte Sabotino, che domina le basse colline davanti a Gorizia, l’Isonzo scorre tra ripidi versanti. Prima dell’inizio del primo conflitto mondiale, corrispondeva pressoché al confine fra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico. Nell’approssimarsi del conflitto, l’area isontina fu individuata dal Regio Esercito il logico possibile punto di sfondamento verso Trieste e la Dalmazia e le pianure dell’est dell’Impero Austro-Ungarico. Il resto del confine essendo in zona alpina aveva caratteristiche non adatte al movimento delle grandi unità da combattimento. Intorno a questo fiume si svolsero le 12 cruente battaglie che presero il nome appunto dall’Isonzo, con i maggiori dispendi di vite umane da ambo le parti.
Pasubio, Grappa, Adamello, Isonzo, Piave, Sabotino, San Martino, sono nomi che a me, che ho frequentato le elementari negli anni cinquanta, erano già noti da quell’epoca. Ma, appunto, erano solo nomi. E tali, o poco più, erano rimasti anche quando iniziai a frequentare quelle montagne. Percepivo con distacco il periodo della Grande Guerra, anche per contrarietà ideologica. Mio padre possedeva diversi libri sull’argomento, una quindicina, e non mi capacitavo del perché fosse così appassionato; proprio lui, uomo così pacifico che quando mia madre si spaventava per un geco o un ragno su una parete di cucina, li poggiava delicatamente fuori dalla finestra dicendo «anche tu hai diritto di vivere». Dopo la sua morte avvenuta nel 1996, in modo (apparentemente) casuale iniziai a sfogliarne uno, Le scarpe al sole, di Paolo Monelli, e di colpo capii. Quei luoghi iniziarono a prendere forma, e in qualche modo vita. Non si trattava tanto di battaglie, tattiche e strategie militari, ma di storie di uomini che vivevano in condizioni durissime, mandati a combattere, magari dalla lontana Calabria o Sicilia, contro altri uomini come loro, con gli stessi pensieri per la moglie, i figli, la morosa, o i più fortunati anche per la mucca da mungere o la botteguccia artigiana lasciata a se stessa. La guerra di trincea (spesso poche decine di metri separavano quelle nemiche) e gli assalti alla baionetta, si risolvevano per lo più in terribili, e militarmente inutili, carneficine, ma paradossalmente avevano il merito di costringere i soldati avversari a guardarsi negli occhi e scorgere in quelli altrui la stessa propria umanità. Molta è la differenza rispetto a un colpo di fucile di precisione da grande distanza, più ancora rispetto a un bersaglio inquadrato su uno schermo quasi fosse virtuale, un video gioco, insomma.
E quei soldati spesso analfabeti, intuivano così bene di dover uccidere o essere uccisi da uomini come loro, che nella Grande Guerra gli episodi di solidarietà umana fra nemici furono innumerevoli e commoventi. Non c’è spazio per raccontarne qualcuno, ma varrebbe davvero la pena.
È con questo spirito che ho vissuto i due giorni sul Carso, tra la Slovenia e il Friuli, ove non ero mai stato, e ringrazio il CAI di Firenze per le meritorie iniziative a ricordo di quegli anni ormai lontani ma sempre tanto significativi per la nostra storia. Camminare non è solo attività ginnica o sportiva, ma è attraversare spazi e luoghi che la natura e gli uomini modificano in continuità; come sul Carso, tanto da rendere difficile immaginarlo brulla pietraia com’era un secolo orsono. Natura e uomini: dal rapporto che si instaura fra di essi nasce la cultura umana. Bene fa dunque il CAI a espandere in questa direzione il senso e il significato del camminare: vivere la natura (bellissima quella carsica coi suoi stupefacenti colori autunnali) e la storia, ossia la cultura dei luoghi che si attraversano: memoria di antichi e ormai scomparsi mestieri come sulla Apuane, memoria di una delle più grandi tragedie dell’umanità come appunto sulle Alpi o intorno all’Isonzo.
Il Sabotino. Primo giorno.
Grazie all’amico triestino Sergio Stibelli della Sezione «XXX Ottobre» del CAI di Trieste, un singolare fisico prestato alla storia così competente e appassionato da aver riscoperto personalmente alcune vestigia dimenticate e su cui la natura ha ripreso i suoi «diritti», abbiamo potuto visitare punti non visibili dal sentiero di cresta che abbiamo percorso, e conoscere meglio ciò che i nostri occhi vedevano sì, ma senza poter capire fino in fondo: camminamenti, caverne, trincee, postazioni d’artiglieria, posti d’osservazione. E immaginare come potevano sentirsi quegli uomini in quei luoghi e in quel tempo: l’ansia prima dell’assalto alla baionetta, la paura da ricacciare indietro, i colpi di mitragliatrice che ti sfiorano e colpiscono il commilitone accanto, ma anche la vita nelle baracche, i piccoli problemi quotidiani, le pulci, la sete per la carenza d’acqua. Percorso bello e appagante anche dal punto di vista paesaggistico, con in basso la vista dell’Isonzo incassato fra i ripidi pendii del Sabotino, e dall’altro lato i monti San Gabriele, Monte Santo, Vodice e Kuk, mentre sullo sfondo si stagliano le Alpi Giulie con il Triglav e il Canin. Poi, dopo l’escursione, l’interessantissima proiezione di diapositive con foto d’epoca, dati, spiegazioni ecc., sempre a cura di Sergio. Ed infine l’ottima cena all’agriturismo, preceduta dalla «problematica» distribuzione dei partecipanti nelle camere ad opera di Italo, impegnato ad aggregare, unire, dividere e riaggregare secondo lo status familiare, il sesso, la propensione a russare e così via, con l’ineliminabile limite della matematica; per cui, poiché le coppie non intendevano (misteriosamente, dato le lunghe convivenze) scoppiarsi, non restava scampo: una signora avrebbe dovuto condividere la camera con due uomini. La gentile signora in questione (si dice il peccato, non il peccatore) ha chiesto e ottenuto una diversa sistemazione, sottovalutando una occasione irripetibile e unica.
Il monte Sabotino (609 mt) è una montagna che sovrasta la piana di Gorizia distinguendosi dai rilevi intorno per la sua forma evidente. Durante la Grande Guerra per via della sua posizione strategica, rappresentava un punto chiave della difesa Austro-Ungarica e già da prima dell’inizio delle operazioni belliche, fu fortificato con caverne e osservatori. I soldati austriaci costruirono una centrale idroelettrica sul sottostante Isonzo che produceva l’elettricità necessaria per le comunicazioni, le perforatrici, le pompe per l’acquedotto, la ventilazione e l’illuminazione e altri servizi. Per portare viveri e munizioni alle truppe, fu realizzata una funicolare su rotaie per il trasporto di merci dalla valle del fiume Isonzo e una «mulattiera» che saliva da Salcano (Solkan) sul versante nord-orientale. Questa situazione durò fino al 6 agosto del 1916 quando il Sabotino fu conquistato dagli italiani durante la sesta battaglia dell’Isonzo. Subito dopo, da parte degli italiani fu necessario rinforzare le posizioni. L’incarico fu dato al capitano del Genio ing. Niccolò Gavotti. Costui, ingegnere di nobile casata e brillante ufficiale seppure di complemento, riuscì, malgrado forti resistenze interne, a convincere gli alti gradi dell’esercito sull’efficacia del suo concetto di fortificazione per l’artiglieria in caverna. Con la Compagnia Lavoratori che prenderà il suo nome, unico esempio nel conflitto, realizzò sul Sabotino e poi sul Grappa due imprese apparentemente impossibili: allestire i più grandi apprestamenti difensivi del 1915-‘18 in tempi molto ristretti. Nei giorni successivi la conquista del Sabotino, nel mese di agosto 1916, con la sua compagnia, costruì la strada carrareccia lunga 16Km che da Podsenica arrivava fino alla quota 535. La strada fu costruita, nel tempo record di soli 16 giorni. Gli zappatori, così allora si chiamavano i genieri, della sua compagnia, a quota 500 modificarono l’esistente sistema di gallerie austriache, in caverne per cannoni (le cannoniere) con le feritoie rivolte verso il Monte Santo e il San Gabriele. Nel particolare sistema di gallerie che prese il nome di «Gallerie delle otto cannoniere», furono posizionati vari cannoni da 105/28 e 75/27. Si racconta che le bocche da fuoco una volta posizionate all’interno, all’inizio delle operazioni non avessero ancora la feritoia aperta verso l’obiettivo ma solo un sottile diaframma di roccia per mascherare la posizione all’avversario. All’alba del 12 maggio del 1917, inizio della Decima battaglia dell’Isonzo, la sottile parete di roccia fu demolita e i cannoni iniziarono il tiro verso il Kuk, Vodice, Monte Santo e il San Gabriele cogliendo di sorpresa gli austriaci. Dopo il novembre 1917 con la ritirata di Caporetto le postazioni furono abbandonate.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la firma del trattato di Parigi nel 1947, il Sabotino fu diviso tra Italia e Jugoslavia a cui subentrò nel 1991 la Slovenia. Da allora il Sabotino è un parco naturale dove storia e natura si fondono in modo armonioso.
Monte San Michele e Redipuglia. Secondo giorno.
Giornata, direi, evocativa e meditativa ancor più della prima. Ancora trincee e caverne italiane ed austriache, e affusti di cannone e residui di acquartieramenti nella roccia e di impianti logistici militari, certamente. Ma la visita al Sacrario di Redipuglia per quanto limitata dai lavori in corso, al limitrofo colle di Sant’Elia costellato di lapidi e sculture, alla modesta elevazione del vicino monte di San Michele dove è situato il parco dedicato al poeta Ungaretti che in quei luoghi combatté, ai piccoli ma numerosi musei di guerra sparsi su tutto il territorio, evocano pensieri su quanto sia tragica la guerra e quanto importante la pace. Ma soprattutto debbono accomunare tutti i caduti di tutte le parti, indistintamente, nella memoria di quegli anni tragici e dolorosi, e nell’omaggio doveroso che loro si deve. Il sentimento di amor patrio è lodevole e giusto se include il rispetto rigoroso per il simmetrico sentimento altrui, senza mai sfociare in malinteso e asfittico nazionalismo.
Diciamolo, allora: le frasi scolpite sulle numerose lapidi, sui cippi ricordo ecc., sono alle volte ammantate di una retorica che stona ormai alle nostre orecchie. Ma è anche vero che se la retorica di allora e degli anni seguenti fu eccessiva, ancor più sbagliato è il nostro disincanto del mondo, il disinteresse per la memoria storica, quasi fossimo schiacciati solo sul presente, e come se il futuro potesse avere una direzione consapevole senza i sedimenti del passato.
Una celebre frase di Bertold Brecht recita, «beati i popoli che non hanno bisogno di eroi». Credo che quella frase sia forse infelice e irrealistica. Piuttosto, «beati i popoli che hanno eroi quando c’è bisogno», perché prima o poi quel tipo d’uomo necessita. Eroi, però, non nel senso di micidiali e insensibili macchine da guerra, bensì uomini normali che sappiano trovare dentro di sé il coraggio e la determinazione necessari al momento giusto, che sappiano praticare le virtù (da vir-uomo) virili del coraggio e dell’onore, ma che mai perdano il senso di umanità anche quando, come talvolta necessario, usano la forza. Eroi controvoglia, mi viene da dire, e forse per questo ancor più eroi. Ho sempre preferito Ettore, che adempie al suo dovere civile recandosi al duello con l’invincibile Achille (il guerriero per antonomasia animato da furor belli), sapendo che sarebbe morto e lasciato soli l’amata Andromaca e il figlioletto. Di questi eroi normali ce ne furono molti, allora, ed è stato giusto ricordarli ricalcando coi nostri confortevoli scarponi quelle orme impresse in ben altre e tragiche circostanze.
Nel furore dei combattimenti sotto il monte San Michele nei pressi di Gorizia, combatté il soldato e poeta Giuseppe Ungaretti (Alessandria d’Egitto 1888 – Roma 1970). Arruolatosi come interventista convinto, nelle trincee sotto il monte San Michele prese coscienza della drammaticità della guerra abbandonando presto i suoi propositi.
Ungaretti da sensibile letterato, nel fango delle trincee comprese la fragile condizione dell’essere soldato e la fraternità che si creava nella sofferenza nell’estrema precarietà della situazione. In quei difficili momenti scaturirono alcune delle più toccanti fra le sue poesie. Durante i brevi periodi di riposo tra i combattimenti, iniziò a scrivere su foglietti di vario genere una sorta di diario in forma di poesia. Erano poche ma significative parole con annotata la data e il luogo. Il tenente Ettore Serra anche lui letterato, conosciuto in quei momenti che diventò poi suo amico, dopo avere letto le poesie, lo convinse a farsi consegnare gli scritti per raccoglierli e nel 1916 ne fece stampare a Udine una raccolta di 80 copie con il titolo «Il Porto Sepolto». Al suo interno erano comprese 29 poesie, alcune divenute poi famosissime come «San Martino del Carso».
San Martino del Carso
Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
È il mio cuore
Il paese più straziato
La famosa poesia San Martino del Carso scritta da Giuseppe Ungaretti nel 1916 nei momenti di riposo nelle trincee sotto il Sabotino.