“Lagastrello-Cerreto” di Mariella Braccini

Gennaio 2010
Lagastrello – Cerreto, solo andata: non una minaccia ma una realtà, nel senso di percorso, nel senso di escursione, nel senso di pullman che ti lascia in un posto e ti viene a riprendere in un altro e tu non devi scarpinare per recuperartelo (anche) o in alternativa fare un anello (escursionistico). Vado, non vado, sarà troppo difficile? Ho già fatto qualcosa di simile o no? Mi vedo appesa a qualche spuntone di roccia incapace di andare avanti o indietro, bloccando magari tutta una fila di persone per la mia imbranataggine … Santa Fifa è sempre in agguato: beh, non sarei la prima, immagino … E poi gli altri aspetterebbero ed io sopravviverei, spero, per quanto ferita nell’amor proprio. Ma devo dire che mi ferisce un po’ anche il pensiero di aver bisogno di essere salvata dal periglio …
Ho fatto qualcosa del genere in passato? Ho fatto dei tratti attrezzati? Ferrate cioè? Qualcosa sì, certo, e poi…Beh, andiamo: mio marito ha già deciso ed io decido subito dopo: mi piacerà sicuramente e…il resto si vedrà. Ho imparato, e cerco di applicarlo per non dimenticarmelo, a non preoccuparmi troppo. Scopriamo, ancora prima di partire, che uno degli accompagnatori è assente e la gita, ma questo lo sapremo dopo, è amputata di un tratto ritenuto difficile: la sostanza dell’escursione però resta intatta. Partire ogni tanto la mattina presto comincia a diventare, per me e mio marito, un’abitudine rinnovata che scopro mi costa meno di un tempo. Lo zainetto sulle spalle, la luce che c’è e non c’è a seconda delle stagioni, l’appuntamento in piazza con il pullman … e infine la partenza, questa come le altre volte.
Imbocchiamo l’autostrada fino a Sarzana e poi ancora una strada tutta curve che ci porta fino all’attacco dell’escursione: giusto il tempo di cambiarci le scarpe e via: via con il sentiero e un tuffo nel passato. L’ignoranza dei luoghi, dei nomi, l’ostinato non ricordare, non legare a volte luoghi e nomi mi difende un poco: ma perché difendersi? Riandare alle mie esperienze di montagna è, per me, sfogliare l’album dei ricordi; ho avuto la fortuna di non farlo da troppo vecchia: troppo vecchia per potermeli vivere ancora. Ma sono così lontani che la realtà sfuma nella fantasia, nel mezzo inventato, nel Chissà. E’ il mondo dei tesori sotterranei, quelli che ti vengono in soccorso quando il resto fallisce, e della nostalgìa. Nostalgia sottile che mi prende come cominciamo a salire fra la trasparenza verde degli alberi, mentre i miei piedi calpestano il suolo appena umido del bosco, con le foglie cadute e le erbe nascoste. La luce arriva a noi filtrata dalle foglie, si fa strada più diretta nel diradarsi dei rami: i raggi del sole ci scaldano: tra poco lo vedremo scoperto all’allargarsi degli alberi, ma ancora no. Saliamo e poi ancora di più. Il sentiero disegna delle curve e noi le seguiamo guidati dai segni rossi e bianchi che spiccano fra le tinte più morbide della vegetazione. L’affanno leggero che mi prende mi dà la dimensione del limite del mio corpo, della mia resistenza fisica e delle mie possibilità: così è per tutti. Siamo un gruppo numeroso e di età variabile e a tratti ci fermiamo per aspettarci: fra poco, come programmato, ci divideremo su due percorsi diversi per riunirci a fine gita.
Arrivano i ricordi: hanno il colore dei miei vent’anni, portano l’odore della giovinezza, della casa dei genitori, degli amori giovanili che lasciano la loro impronta indelebile nel cuore. E’ come una voce tenera che parla dentro di me e che viene dal passato: dalla dolcezza dell’accudimento per la bambina e per la ragazzina, dalla nostalgia che prende il volto, sfumato dalla lontananza e dalla verde trasparenza delle foglie, degli amori perduti, degli amori lasciati alle spalle per volontà o per destino: “Piccola mia, non ho potuto darti di più”. Quando sali, su, su, con l’energia viva che aspetta solo di liberarsi e cerca insieme un canale e un argine: usciamo infine dal bosco. Usciamo incontro al sole, agli speroni nudi di roccia che lanciano verso il cielo il loro grido di forza pietrificata: come altrimenti descrivere la potenza racchiusa, la potenza imprigionata negli strati che affiorano come ferite fra la vegetazione… Una potenza che si è accumulata nel tempo sul fondo dei mari e dei bacini lacustri e che ora si trova a misurarsi con la luce del sole. E come descrivere la voragine, addolcita dai vapori dell’umidità, dagli accumuli detrito, dal verde dell’erba e degli arbusti, che disegna i pendii, che separa una cima dall’altra, una cresta dall’altra, uno sperone dall’altro.
I mirtilli quassù non sono ancora maturi, non sono anzi ancora comparse le piccole macchie bluastro scuro che punteggiano, a quota inferiore, la vegetazione bassa. Ma prima di arrivare fin qui ci siamo già separati, divisi in due gruppi per due itinerari di differente difficoltà. La separazione è avvenuta al rifugio Città di Sarzana, accanto a un placido laghetto verde, a due minuti di percorso da una sorgente, come dice il cartello. Guardiamo l’itinerario sulla carta grande esposta su un pannello turistico-escursionistico, mangiamo qualcosa, chi vuole, ripartiamo. E poi sono le creste, il crinale verso cui saliamo un po’ alla volta, i punti attrezzati là dove la roccia nuda affiora lungo il nostro cammino e il pendio scivoloso si fa troppo vicino. All’attacco della prima ferrata ci fermiamo per “vestirci” ovvero per metterci addosso un’imbracatura. Possediamo o abbiamo preso a nolo l’attrezzatura a norma e ora la indossiamo.
Io mi “avvito” nella mia. E meno male che la avevo provata il giorno prima a casa! Qui le gambe, lì le braccia, stringere qui, annodare di là, moschettoni, lacci, fibbie: beh, diciamo che è un modello un po’ complicato: non ricordo di aver messo nulla di simile nella mia verde giovinezza ma può darsi che la memoria mi faccia difetto. Anzi, sicuramente. Vedo che altri hanno i miei stessi problemi. La guida controlla che sia tutto a posto: partiamo. Scopro con piacere che non è difficile: in fin dei conti si tratta di attaccarsi e di fare sicura su un cavo metallico fissato alla parete di roccia al fine di rendere più sicuri e più facili dei tratti pericolosi. Ma è più una riscoperta che una scoperta e mi rendo conto a posteriori che ho fatto cose più difficili in giovinezza anche se non sotto la luce del sole. Nel buio delle grotte però sì, e lì non c’era la vista rassicurante e libera del cielo aperto ma l’oscurità più totale rischiarata dalle lampade ad acetilene (si usa ancora?) o anche a pile. Ho sempre pensato che ho potuto fare certe cose grazie al buio. Al buio che ci confinava al nostro bozzolo di luce oscillante e impediva di rendersi conto dei baratri che superavamo così, incoscientemente anche in libera a volte, alcuni di noi. Il primo tratto attrezzato finisce seguito da un secondo, da un terzo fino a che perdo il conto, ma non sono molti, e neanche lunghi in realtà e forse per una mia incoscienza, forse per la sicurezza data dal cavo metallico, non mi sembrano difficili. In alcuni punti arrampichiamo un poco, in altri, almeno due, scavalchiamo il crinale. E’ più difficile cavalcare lo spuntone di roccia che tagliare il pendio, ma tutti, chi con facilità, chi con difficoltà, lo facciamo. Sotto di noi si allungano in scivolata i lastroni di roccia che digradano nel prato, giù fino al fondo di valli pensili, e ancora la vista si spinge a individuare le valli a v dai fianchi ripidi che scendono verso l’incisione praticata dalle acque di scorrimento. E’ un mondo selvaggio e naturale che ci comunica la sua grande forza.
Sopra di noi il cielo non è più azzurro come alla partenza e le nuvole che si accumulano irregolarmente coprono spesso il sole. Contro il verde della vegetazione e il grigio della roccia, i nostri abiti, le giacche, i pantaloni, disegnano macchie di colore. Aria frizzante come il vino: dove ho letto queste parole? In un libro di ormai molti anni fa riferito a un luogo diverso e lontano da qui ma che anche a qui si adattano benissimo. Non ricordavo che l’aria di montagna facesse questo effetto: è da un paio di anni che l’ho ritrovato: aria frizzante come il vino e che come il vino può dare alla testa. E’ il vento che ci passa addosso, ci scompiglia i capelli e corre fra le rocce e l’erba: chi siamo noi che possiamo permetterci questa forza e questa gioia? Questa gioia di essere sani, vivi e liberi e di respirare a pieni polmoni l’aria selvaggia dei monti? Chi siamo noi e quale dio dobbiamo ringraziare per questo? Discutiamo brevemente su come organizzarci e poi ci fermiamo a mangiare i nostri panini. C’è ormai solo un tratto di ferrata e lo facciamo di slancio: slancio verticale e non orizzontale, questa volta. Trovo divertente fare questa piccole arrampicate, soprattutto quando si ha a portata di mano un rassicurante cavo. E dopo è discesa: prima scoperta e poi, nell’ultimo tratto, dentro il bosco. Discesa che ci ricongiunge infine all’altra metà del gruppo che ha fatto un percorso meno “roccioso”.
Una volta in pullman ci cambiamo le scarpe e ci rifocilliamo: resta da fare la strada del ritorno, ma c’è chi guida e possiamo permetterci una ristorante pisolata. Ci resta il ricordo di una bella giornata, qualche fotografia e domani qualche crampo di stanchezza postuma alle gambe. E una porta aperta su una nuova esperienza.
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