“Alessandro Volta, alpinista e scienziato” di Roberto Masoni

Maggio 2007

C’è uno scaffale nella mia libreria che non gode della considerazione degli altri. Vi accatasto un po’ di tutto: libri, riviste … uno scaffale insolitamente confuso rispetto all’ordine che regna sugli altri dove albergano libri su due, tre file rigorosamente … regolati per materia, argomento. E’ su questo scaffale che finisce per trovare posto tutto ciò che è ancora da leggere. I libri più fortunati vi rimangono solo pochi giorni, qualcun altro vi rimane parcheggiato più a lungo assuefacendosi di buon grado all’inerzia che li circonda eppure per certi versi sicuri di essere letti … prima o poi. E’ a questo scaffale che attingo nei momenti di pigrizia ed è qui che qualche settimana fa ho riscoperto un volumetto, sepolto da altre pubblicazioni, dal titolo “Alessandro Volta alpinista” donatomi, molti mesi fa, da un amico istruttore . Ne è Autore Mario Cermenati per cura della Sede Centrale del CAI.

Alessandro Volta

Alessandro Volta … molti lo ricorderanno, per trascorso scolastico, come l’inventore della pila, qualcun altro, riduttiva-mente, come l’uomo delle diecimila lire. Devo pur dire, dopo aver letto il volume di Cermenati, che Volta fu, tuttavia, qualcosa di più. Soprattutto in virtù del particolare periodo storico che contraddistinse peraltro la fondazione del Club Alpino Italiano e l’azione autonoma nell’alpinismo. E’ d’ob-bligo infatti ricordare come l’origine dell’alpinismo in Italia ebbe scopi essenzialmente scien-tifici dichiaratamente espressi dallo stesso Quintino Sella nel delineare nell’alpinismo un “potentissimo incentivo non solo a tentare nuove salite, a superare difficoltà non ancora vinte, ma all’osservare quei fatti di cui la scienza ancora difetta”. Concetto ancor più marcato nel primo articolo del nostro Statuto che recita come il CAI abbia per “iscopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione” ma anche “la conoscenza e lo studio delle montagne”. Non a caso i primi ad affrontare i disagi ed i pericoli del monte furono scienziati particolarmente dediti alla scrupolosa osservazione ed allo studio dei fenomeni naturali che la montagna amplificava e che sembrava offrire, come poi la pratica ha confermato, un fertile terreno di ricerca.

Esce da questo supposto, con insolito vigore ed indiscusso valore, la figura di Alessandro Volta, una figura che ha nei tratti alpinistici del suo interprete il fulcro dell’attività del periodo. Un’attività che lo vide, ad esempio, coltivare, con spassionato interesse comune, l’amicizia con Orace Benedict De Saussure, da molti considerato il padre dell’alpinismo, con il quale ebbe stretti contatti personali ed epistolari. Ed è proprio la sincera amicizia con il grande naturalista ginevrino, grande promotore della prima salita del Monte Bianco, a suggerire a Volta, per primo e con grande entusiasmo, di intitolargli quella vetta. Una proposta che non raccolse esclusive adesioni tanto che De Saussure dovette accontentarsi di un torrione al Mont Banc de Tacul. Quella cima, quella del Monte Bianco, alla quale Volta non ambì mai almeno stando a quanto traspare dai suoi scritti, e che figurava, già dal 1595, con il nome di Monte Maledetto (Mont Maudit) o con quello di Monte Aghiacciato, a causa dei suoi estesi ghiacciai, ma considerata fin da allora, per quanto sconosciuta, la più alta della catena alpina. Volta compì, invece, più volte la traversata delle Alpi per recarsi in Svizzera, in Francia, in  Alsazia, in  Savoia e nel resto d’Europa.
Da buon naturalista, e con stupefacente modernità, Volta praticò per indispensabilità i viaggi attraverso le Alpi: tanto più erano, infatti, utili le ricerche di laboratorio quanto più lo era poter studiare ed imparare sul campo le più svariate manifestazioni naturali, le complesse morfologie glaciali, la vita dei fiumi, lo stato delle valli. Volta rimase sinceramente affascinato da questo ambiente così selvaggio, ne fu convinto appassionato e ne descrisse più volte le bellezze: “… quelle alte cime e le parti superiori della valle hanno un aria di decrepitezza che ferisce lo sguardo e che è impossibile di non ravvisare […] Nel mentre che tutta l’anima è assorta da tale meditazione e compresa da grandi oggetti, l’occhio è anche incantato (a misura che ci avanziamo nella valle salendo) dalle prospettive terribili insieme e maestose de’ dirupi, delle superbe cascate, del fiume medesimo …”. Per l’appunto da qui esce prepotente la figura di Volta alpinista. Un alpinismo, il suo, dal significato scientifico e, se vogliamo, anche un po’ artistico eppure di estrema validità anche se non attuale nelle determinazioni. Inutile, in questa sede, affrontare paragoni con l’alpinismo attuale ma resta il fatto che se da una parte l’alpinismo è oggi ricerca di sviluppo tecnico e valorizzazione personale, dall’altra era più semplicemente il veicolo indispensabile alla conoscenza ed alla comprensione delle manifestazioni originari del cosmo, fossero esse geologiche, fisiche, talvolta eccelse. L’alpinismo, insomma, poteva configurarsi, proprio nel rapporto dell’epoca, come escursionismo a piedi a tutti gli effetti eppure impegnativo proprio per la mancanza di conoscenza e di attrezzature adeguate. Una pratica svolta non solo in superficie ma, talvolta, anche speleologica nel senso che l’esplorazione delle cavità concedeva la possibilità di una vasta campionatura paleontologica.

La pila

V’è un altro aspetto che sarebbe interessante approfondire: il fatto cioè che i monti appaiano a Volta, ed agli altri studiosi, suoi contemporanei, che frequentavano l’ambiente montano, co-me luoghi di sgomento, erogatori di malanni, promotori di orrore. Rileg-gendo Goldsmith trovo infatti interes-sante come avesse paragonato la montagna ad un luogo d’inferno o, nel migliore dei casi, come ebbe a di-chiarare Chateaubriand, un luogo affatto grandioso, né grazioso. Vale, a tale proposito, ricordare come anche gli strumenti più diffusi negli scienziati dell’epoca, cioè il barometro ed il termometro, fossero mal visti. Volta stesso si trovò più volte minacciato. Lo scienziato era sostanzialmente mal visto, la sua presenza insospettiva non poco i valligiani che interpretavano gli strumenti come macchine infernali tanto da accerchiare gli scienziati con pistole ed archibugi, addirittura minacciandoli di morte. I monti erano sostanzialmente venerati e per questo non profanati, una sorta di alpinismo platonico che si limitava al raggiungimento dei passi, dei valichi da dove poter contemplare le cime ancora, ovviamente, vergini.
Vediamo allora come erano utilizzati questi barometri, questi strumenti infernali. Anzitutto, e finchè il cammino stabilito lo permetteva, venivano trasportati a cavallo per ovviare al loro peso ed ingombro. E proprio sull’itinerario studiato a tavolino venivano poste delle “stazioni” distanti fra loro circa due, tre ore di marcia. Dopo aver verificato la bontà dello strumento si procedeva all’osservazione della quota e, grazie ai termometri, anche ai gradi di calore sia al sole sia all’ombra. Tutto ciò ad un’ora prestabilita in modo tale che si potessero comparare le osservazioni eseguite nelle varie “stazioni” presidiate da addetti idonei alle rilevazioni scientifiche.
I viaggi di Volta furono molti. Anche in Toscana ebbe a visitare Pietramala e salire la vetta del Covigliaio dove studiò i fuochi del terreno, che egli definì prodotti da aria infiammabile, e che, per quanto non alpinisticamente di rilievo, rimane una valida testimonianza in chiave appenninica. Ma è soprattutto nelle intenzioni che va inquadrata l’opera di Volta, quell’opera che, per ripetere parole sue, permetteva di cogliere “il complesso e l’aspetto” dei monti tanto da offrire “ai sensi soprafatti ed alla meditazione profonda che succede, argomenti parlanti delle estreme vetustà di questo nostro globo”. In quest’ottica Volta fu più volte nell’area del Gottardo che era ritenuto, ai suoi tempi, il passo più elevato d’Europa, molto più del Sempione, dello Spluga e del Gran San Bernardo anche se in seguito i fatti dimostrarono il contrario. Vale la pena ricordare che il Gottardo era all’epoca il punto maggiormente frequentato delle Alpi e quindi il più conosciuto. Da qui Volta salì l’Alpe di Fieudo dove riuscì “a grande stento” a sedere “sull’estrema vetta”. Ma salì anche molte altre e svariate cime dell’arco alpino anche se oggi considerate affatto  trascendentali.
Lasciando ai lettori la curiosità di approfondire l’argomento, dirò che Volta può senz’altro essere collocato fra i precursori dell’alpinismo, una pratica nella quale mostrò di avere grande intuito e nella quale si rese fautore del Club Alpino Italiano al pari di molti altri grandi scienziati come Galeazzi, Moro, Vandelli, Spallanzani, Targioni Tozzetti, Zanichelli e molti altri.
Concludo con una frase di Hermann Buhl, sapientemente ricordata da Claudio Smiraglia, nella prefazione del volume di cui abbiamo parlato: “Chi ama le montagne intensamente, ben merita di essere chiamato alpinista …”. Niente di più vero.

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