“Borghi del Casentino, più o meno dimenticati” di Giuliano Pierallini

Annuario 2008

Il Casentino, sia il territorio più a ridosso della giogaia montana appenninica, sia quello che propende maggiormente verso la piana ove scorre l’Arno che s’avvia, dopo la grande curva, verso Firenze, offre un paesaggio fra i più ricchi e variegati dell’intera nostra Regione.

Un territorio che più lo si conosce, più lo si apprezza, finché si finisce con l’amarlo sia per le innumerevoli bellezze naturali, sparse con grande dovizia lungo l’intera area, sia per le numerosissime tracce storiche ed artistiche

Il borgo di Sarna

disseminate un po’ ovunque, dai piccoli insediamenti, ai centri più rinomati, confermando con ciò quanto ricca e fortunata sia la nostra Regione e quanto favoriti siamo stati noi che abbiamo la fortuna di goderne appieno.
Certo nulla è dovuto solo al caso, indubbiamente un insieme di fattori e circostanze hanno fatto sì che tutto ciò si avverasse ed ancora oggi si riscontri l’alacrità degli abitanti che mantengono vivo l’interesse anche grazie ad una serie multiforme di offerte di ampio e variegato genere.
La presenza del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna rafforza  indubbiamente  il  coinvolgimento,  costituendo  un  fondamentale  polo  di aggregazione, si aggiunga la simpatia, la disponibilità e la buona organizzazione, ecco spiegato il crescente successo di chi provenendo dalla Romagna, da Arezzo o dal Passo della Consuma, può vivere un viaggio o una vacanza sicuro di non rimaner deluso. Malgrado tutto ciò, se si osservano in maniera frettolosa i flussi abitativi stanziali e stagionali, come sarebbe opportuno volendo conoscere l’attrattiva reale di un territorio, si possono riscontrare delle località “minori” che vivono uno stato di marginalizzazione abbastanza evidente. A questo concorrono tutta una serie di motivi che non è qui il caso di indagare, ma posso assicurare, per aver percorso a lungo l’intero comprensorio, che anche questi più modesti borghi mostrano intero il fascino del tempo passato che non cessa di sorprenderci per varietà e peso culturale.

Vorrei dire anzi che proprio nelle frazioni minori dimenticate si apprezza realmente l’opera dell’uomo che ha lasciato tracce ancora evidenti insieme a quell’Arte del Lavoro che emana da ogni manufatto, testimoniando la fatica e la genialità delle popolazioni sollecitate talvolta da condizioni ambientali non sempre favorevoli. Queste brevi note, per ragioni di spazio, si configurano come un invito, magari sfruttando una bella giornata di sole, a raggiungere qualcuno di questi siti, a scoprirne altri non nominati, senza furia, col passo lento di chi vuoi vedere e capire, parlando magari, se possibile, con i vecchi che hanno spesso ricordi importanti da trasmetterci, di modo che si possa conservare almeno qualche traccia di testimonianza che diversamente sono destinate a scomparire con chi le ha vissute.
Ho scelto Poppi come cuore del nostro eventuale giro, sia per importanza storica che geografica, da qui il Casentino si irradia verso almeno sei direzioni: Firenze, Londa-Dìcomano, Forlì-Santa Sofìa, Bagno di Romagna, Sansepolcro, Arezzo. Lungo queste direttrici sono sparse quelle località che ho scelto di prendere in esame, ovviamente attraverso un giudizio arbitrario e senza alcuna velleità di voler stabilire sciocche priorità.

Da Ponte a Poppi sale la strada per Camaldoli, percorsi circa tre chilometri si incontra il piccolo abitato di Avena ed un chilometro più avanti, per una strada bianca secondaria, si giunge all’ancor più minuscolo insediamento di Agna, nuclei che godono entrambi di una favorevolissima esposizione, di  risorse idriche che scendono dal  monte e di  una sopraelevazione rispetto alla piana, condizioni, come è facile intuire, cui le antiche genti guardavano con estremo favore. Entrambi questi luoghi sono accreditati come facenti parte degli insediamenti etruschi particolarmente rappresentati in Casentino, come si può rilevare dalla toponomastica, a testimonianza della loro importanza, al tempo, non certamente trascurabile; sorgono entrambi all’ombra di una chiesa patronale, San Lorenzo ad Avena e San Bartolomeo ad Agna che, come di quest’ultima scrive Don Alfio Scarini, parroco della celebre Pieve a Socana, “è chiesina graziosa ed austera, costruita in pietra fìlareto, conserva intatte le sue linee architettoniche primitive”.

Il borgo di Badia a Tega

Per quanto riguarda San Lorenzo, sì tratta di una costruzione del 1700 nella quale si è provveduto a trasferire il luogo di culto che faceva capo al Castello dì Ragginopoli, antico avamposto di una certa importanza facente parte del si-stema difensivo della zona. Oltre Castel Focognano, uno dei comuni più conosciuti del Casentino, ricco di scorci panoramici e pregevoli costruzioni del passato, la strada si arrampica lungo una serie di tornanti che seguono le propaggini del Pratomagno, sino a raggiungere Carda, un delizioso borgo solitario che domina il corso del Soliggine e del Faltona, addossato al declivio a formare schiera e protetto dalla parrocchiale delle Sante Flora e Lucilla. All’ombra del campanile fa mostra, con imponente angolo petroso, il residuo del vetusto Castello posto in posizione vigile sull’accesso del poggio; il complesso è stato ben conservato ed offre ancora l’immagine di severa nobiltà che gli è dovuta, pur avendo perduto, inserito nel quadro dolcemente collinare, l’aspetto guerresco; questa inevitabile mutazione ha favorito l’insediamento civile di chi ha voluto rivivere l’ambiente medioevale all’ombra di antiche protezioni. Tutto l’abitato gode di una cura scrupolosa, abbastanza insolita da ritrovare in una frazione d’altura certamente non aperta alle comodità di cui la società ed i singoli abitanti amano ormai circondarsi. Fa bene allo spirito venire quassù e ritrovare il sano attaccamento per il “borgo antico”, segno che il ricordo regge ancora; non tutto, delle vecchie radici, appare perduto o inesorabilmente trasformato, e questa sensazione procura il piacere più forte nel percorrere gli erti acciottolati, le strette, contorte stradine, potendo gettare uno sguardo attraverso le piccole finestre incassate, ripercorrendo con lo sguardo la cerchia delle antiche mura memori delle storie passate che non è giusto dimenticare.

Proseguendo ancora lungo un paesaggio che mostra via via segni di abbandono, si perviene a Calleta, estrema frazioncina che si perde nel verde della foresta, estremo avamposto di boscaioli, carbonai e cacciatori, contrada veramente nascosta, paradiso di fungaioli che ripercorrono, da sempre, le tracce note solo a loro ed a qualche escursionista solitario che più che camminare ami leggere il libro delle presenze nascoste, delle quali, la montagna, dispensiera premurosa, intende riappropriarsi, ma mai del tutto. Questo è il regno del silenzio, qui ci si può muovere per l’intera giornata vivendo esclusivamente i rumori della natura che non siamo più abituati ad ascoltare ed a riconoscere, il fruscio che segna il passaggio di qualche animale, le tracce più o meno evidenti, il verso di qualche volatile, il tutto mescolato al rumore dei propri passi che, in questa quiete, appare fortissimo. Sopra la testa, lassù oltre le cime svettanti degli alberi, fanno capolino le nubi  che segnano il limite dell’orizzonte visibile appena poco sopra le verdi punte giovanili, il vento accarezza i rami frementi che paiono percorsi da brividi di piacere, l’acqua gorgoglia leggera nel nascosto rivo, lisciando morbida le pietre muscose dalle quali emana forte l’effluvio dell’erba macerata.
Fra i borghi dimenticati che spesso, più che tali, risultano disagevoli da raggiungere o malserviti oppure ancora non dotati di quei servizi essenziali ai quali oggi non si sa più rinunciare, ce n’è uno che veramente assurge a simbolo di doloroso abbandono, un colpevole ripudio che fa male a chi vi si appressi incredulo per tanta mancanza di rispetto nei confronti della suggestione naturale del luogo, per il peso della Storia, per le tracce umane che raccontano usi e modi destinati a scomparire. Il discorso porta inevitabilmente a Gressa, un angolo di  mondo posto a pochi chilometri da Bibbiena, il centro più importante di tutto il Casentino, che si raggiunge prendendo a manca una modesta sterrata uscente dalla strada per La Verna; rapidamente si giunge a ciò che ormai rimane di un interessante abitato, un tempo fiorente, sorto all’ombre di un fortilizio che ne garantiva la sicurezza, tutt’uno con il monte che tende a riappropriarsi degli spazi che gli erano stati contesi. Immaginiamo come nell’XI sec. dovesse presentarsi il complesso: la porta di accesso ben protetta dalle mura, il selciato ciottoloso tipico dell’alto medioevo, le direttrici strette e disagevoli che meglio si prestavano alla difesa, in forte pendenza a seguire l’obliquo sbalzo, le poche case di pietra addossate, basse, con poche finestrelle cinte d’inferriata, le porte basse ed anguste e, poco lontano, il torrente che, da numerose captazioni, garantiva l’unico bene irrinunciabile per non più di qualche decina di famiglie che si consumavano nel duro lavoro. Sotto la torre del Cassero, un tempo assai più alta, scapitozzata in seguito a qualche lotta perduta, all’interno delle mura trovava posto anche una piccola chiesa, unico servizio offerto a quelle anime veramente “dimenticate”, nè mancavano fra chiesa e Castello le preziose cisterne, i cui resti sono ancora visibili, onde poter sostenere gli inevitabili assedi. Oggi regna solo silenzio e desolazione, l’erba cresce alta, i muri crollano, qualche frana tende a spianare quanto era stato conquistato con grande fatica, pare che vi resista una sola famiglia della quale peraltro non ho trovato traccia ma, in ogni caso non c’è da illudersi circa la sorte futura se non vi sarà chi, amministratore o privato, se ne prenda amorevole cura. C’è comunque troppa indifferenza generale e ricerca di vantaggi immediati perché si possa sperare di giungere in tempo a far qualcosa; il recupero deve svolgersi entro un tempo limite oltre il quale ogni sforzo diviene inutile e nulla è più deprimente di un  cumulo di sassi, che hanno una storia, ormai abbattuti, fra travi marcite affogate da ortica, rovi edera implacabile che, insieme alle mura, abbatte ogni speranza.

Raggiolo

Ritornando in comune di Poppi, sull’altro versante del torrente Sova che discende dalla foresta di Camaldoli, pos-siamo raggiungere, in un paio di chi-lometri, Lierna, un abitato appollaiato a mò di nido d’aquila che, sfruttando un contrafforte del monte Corniolo, si pone a cavaliere della valle accogliente le fresche e limpide acque precipiti dalle abetaie camaldolesi. L’immancabile Castello degli onnipresenti Conti Guidi, pur ridimensionato ed in buona parte inglobato fra le costruzioni, ci porge il benvenuto e nello stesso tempo ripropone antiche glorie che avevano visto coinvolta anche la Repubblica Fiorentina quando questa, in fase prepotentemente espansiva, andava via via acquisendo le “castella” in funzione di avamposti offensivi e difensivi. Malgrado le trasformazioni e le ingiurie del tempo si ha ancora una precisa idea del borgo fortificato,  cinto da  solide  mura,  nelle quali  si  affaccia ancora  un’interessante  porta d’accesso raccordantesi con l’angolo della Chiesa-baluardo il cui accesso è consentito da un’impervia rampa facilmente difendibile, stante l’epoca nella quale, anche il rispetto per il luogo sacro, poteva esser messo in seria discussione. All’interno dell’abitato che s’avvita intorno al Cassero incombente, la parte vigile del maniero, fa bella mostra la tozza torre, forse scapitozzata durante qualche aggressione, ed il vetusto palazzo nobiliare che rifulge tutt’ora di  linee eleganti, mantenuto, com’è avvenuto nel tempo, con sorprendente osservanza. Tutto il complesso vive di una calma distesa, lontano dal chiasso maleducato cittadino, qui amano ritrovarsi coloro che, della natura, dell’arte e della storia, hanno una visione colta e ben educata; le poche presenze locali salutano e s’intrattengono volentieri, mostrando disponibilità  al dialogo; mai la conversazione è banale, vien fuori sempre qualche preziosità, un ricordo, un aneddoto. Le case, all’interno, raccolgono poca luce e mostrano ambienti angusti, ma l’aria fuori è pulita e profumata in ogni stagione, la luce taglia violentemente la superficie dei muri e del selciato, i cani scodinzolano in maniera amichevole, i gatti dormono pigramente, si ha persino paura di far rumore con i propri passi, qui la cosa più importante è ascoltare.
Se si risale da Pratovecchio per raggiungere il Sacro Eremo di Camaldoli, percorso un non lungo tratto in direzione di Poggio Scali dominante dall’alto dei suoi 1.520 metri il corso dello Staggia che corre verso Stia all’abbraccio con l’Arno, prendendo il bivio a sinistra, a destra si andrebbe a Casalino, si sormonta Lonnano, altro borgo periferico che si fa ricordare per la sua storia e le non marginali evenienze artistiche della sua Chiesa, pur di modeste dimensioni. Fra storia e leggenda, si parla di questo villaggio negli anni intorno al mille, quando un certo Ildebrando, Vescovo di Firenze, avrebbe donato al Monastero di San Miniato al Monte la possidenza casentinese, il che può ragionevolmente darci una misura di quanto questa dovesse essere non marginale. In merito non sappiamo molto di più, ma il Medioevo, i cosiddetti secoli bui, ci hanno ripetutamente sorpreso, raccogliendo anche in queste lontane contrade tesori quali non sempre è possibile riscontare nei centri più accreditati; ovviamente questo avveniva anche perché il decentramento permetteva una maggior protezione dei beni culturali in generale e delle stesse anime preposte alla sorveglianza, in particolar modo quando, questi siti, si collocavano in luoghi montani di più difficile accesso.

Si  accennava  all’esistenza del piccolo edificio di culto che, pur nelle assai  modeste proporzioni ed in barba agli inevitabili rifacimenti legati al gusto delle varie epoche, ripropone tutt’ora una linearità di forme essenziali, unita ad alcune preziosità assai poco comuni in sì semplici borghi. La finestra settecentesca della facciata evidenzia la collocazione della bifora classica originale, caratteristica dell’epoca romanica, mentre sopra la porta d’ingresso fa bella mostra di se un arco a tutto sesto che conferma inequivocabilmente, caso mai ve ne fosse bisogno, l’appartenenza al medesimo stile, il più appropriato, a mio avviso, per esaltare la sobrietà e la sacralità degli edifici religiosi. Nè si può evitare di parlare del tozzo campanile quadrato con le tipiche quattro aperture sommitali della cella campanaria che gettano lo sguardo nelle quattro direzioni dell’orizzonte onde ognuno che v’affigga gli occhi se ne senta confortato. Passando all’interno, rimasto fortunatamente semplice, ma non indifferente, notiamo che lungo le pareti affiorano pietre preesistenti che rivelano una raffinata lavorazione, nè appare banale, nella Cappella dell’Addolorata, una ottocentesca statua in legno intagliato di Nostra Signora, una realizzazione che mostra una forte espressività ed, allo stesso tempo, un naturale, umano dolore.
Sulla direttrice che da Bibbiena va a Poppi, una breve deviazione sulla destra invita alla visita del borgo di Memmenano, un puntino nero appena accennato sulla carta geografica più dettagliata, una località, oltrechè dimenticata, apparentemente insignificante; solo apparentemente però perché, grazie alla donazione del Vescovo di Arezzo al parroco locale, la Chiesa di San Matteo può fregiarsi di una delle evenienze artistiche di maggior pregio di tutto il Casentino e sostanzialmente dell’intera produzione dell’arte della ceramica invetriata. Faccio riferimento alla sontuosa terracotta di Andrea della Robbia che, alcuni critici, vogliono essere, fra quelle casentinesi che pure sono tante e di gran pregio, quella più finemente riuscita e dalla composizione maggiormente curata; riporto fedelmente la descrizione che ne fa Don Alfio Scarini nella sua Guida del Casentino: “ II quadro robbiano di terra invetriata bianca su fondo azzurro raffigura la Pentecoste. La composizione ci presenta i dodici apostoli in duplice fila; al centro la Madonna con lo sguardo rivolto alla Colomba, simbolo dello Spirito Santo. In alto è l’Eterno Padre circondato di teste angeliche che tiene le braccia aperte. Ai lati dell’Eterno Padre quattro gruppi di angeli a mani congiunte che contemplano estasiati la gloria di Dio. La cornice del quadro è ornata di teste di putti decisamente vive, manca invece la cornice floreale che ritroviamo nella altre tavole robbiane; forse è andata perduta insieme al basamento”.

Gressa

Se, risalendo da Bibbiena, si imbocca a sinistra la strada che costeggia il torrente Teggia, le cui limpide acque scendono tumultuose da sotto le pendici del Pratomagno, si giunge dopo un non lun-go percorso ad Ortignano che, possiamo a buon diritto dire, non essere certamente “borgo dimenticato”, quale risulta essere il tema di questo inciso casentinese. Ma se viene rammentato, oltre che per una certa sua storia e per il rilievo che si può dare alla Chiesa di San Matteo, è perché da qui si diparte l’accesso ad una località veramente dimenticata e nascosta, a quel nucleo di case abbarbicate alla montagna che circondano la Badia Tega, immersa nei boschi ombrosi e silenti, ove il ricordo di un tempo semplice e genuino si coglie ad ogni piè sospinto. Appare sorprendente, ai nostri giorni, ma non certamente in passato quando gli Eremi erano sparsi particolarmente nei luoghi più remoti ed idonei alla privazione ed alla meditazione, che in questo fazzoletto scosceso, in questa Badia, risiedesse stabilmente un certo numero di monaci. Se dovessimo giudicare con il metro di oggi dovremmo dire che, una parrocchia in questa località, mai la si dovesse pensare, invece nel primo quarto del XIII sec. qui viveva una comunità che sicuramente doveva essere ben superiore per numero alle pochissime e vecchie persone che vi risiedono oggi. Appare altresì poco usuale che in una località così remota, all’interno dell’edificio religioso, vi siano dipinti di un certo valore artistico che ci fanno indubbiamente prendere coscienza di quanto sia cambiato il peso sociale di questi villaggi oggi apparenti, quando va bene, come sotto teca, mentre in passato registravano evidentemente punte abitative e concentrazione di attività montane.
Sempre da Ortignano, proseguendo in salita su sinuosa strada asfaltata, in circa quattro chilometri si perviene a Raggiolo, villaggio fra i più alti dell’intero comprensorio casentinese, popolato abbastanza nel periodo estivo grazie al rientro dei vari emigrati; durante il resto dell’anno appare, al visitatore occasionale, praticamente vuoto, le porte e le finestre chiuse, i vicoli deserti, la vita sociale inesistente. Malgrado questo va detto che sono state compiute, con avvedutezza, opere di restauro e di conservazione che si fanno notare per il buon gusto e l’inserimento felice nel contesto montano. Qui il castagno la fa da padrone, passeggiare senza meta alcuna in questi boschi è privilegio di ogni stagione, non solo in quella della raccolta che ricompensa coi preziosi frutti, ma soprattutto nell’inverno quando la neve livella ogni asperità ed invoglia a calcare il piede sul manto incontaminato, con passo facile e morbido; ma attenzione, dietro la seduzione è l’insidia, si scivola, si vacilla, si deve tener la rotta con attenzione poiché la traccia appare e scompare in una sorta di dialogo. Malgrado tutto ciò l’avventura invernale in questi boschi dimenticati è piena di fascino perché permette, a chi ami la natura, di ritrovarsi in perfetta solitudine, di poter ascoltare e ritrovar se stessi, per cui, il “borgo dimenticato” non è  più condizione negativa ma piuttosto oasi di salvezza, di rigenerazione, la classica boccata dì salute prima di riaffrontare i barbari ritmi quotidiani. Nel triangolo formato fra Bibbiena, Chiusi della Verna e Chitignano, sta Sarna posta su di un rilievo che domina due torrenti, il Corsalone ed il Rassina, entrambi affluenti dell’Arno, scesi dai sacri boschi francescani. Il  toponimo, come tantissimi  in  Casentino,  pare di  origine etrusca  e,  come afferma  il  già citato Don Sante Scarini, dovrebbe significare “vicino alle acque”, come l’orografìa vuole chiaramente mostrare. Le origini del borgo risalgono a qualche anno prima del 1000; per via della invidiabile posizione nella quale si trova è stato numerose volte oggetto di dispute che hanno visto, volta a volta, impegnati gli onnipresenti Conti Guidi, il Vescovo aretino Tarlati, i Monaci, finché nel 1400, la Repubblica Fiorentina, aveva messo tutti d’accordo impossessandosi praticamente dell’intero Casentino. Dicono i testi che, fino al 1700, Sarna fosse Monastero fortificato; distrutto da un incendio era stato riedificato nella seconda metà dello stesso secolo. Oggi si presenta ai nostri occhi un insediamento che non stentiamo a riconoscere racchiuso da mura, ordinato, con i maggiori segni distintivi ancora ben riconoscibili, quasi tutti facenti parte dell’antico Castello, solo all’interno del quale veniva garantita una certa sicurezza. La porta d’accesso, in proporzione, appare ancora imponente, molte case che hanno subito rifacimenti e restauri non nascondono la loro vetusta origine, affiorano ovunque segni inconfutabili, pietre lavorate, archetti, eleganti architravi di impegnativa fattura. L’agglomerato sembra vivere ancora oggi fuori del tempo e dello spazio e, per originalità, è sicuramente uno dei borghi più importanti che abbia potuto vedere; nulla è fuori posto, tutto appare consono e valorizzato, vecchi camini, portali, stemmi gentilizi; la pietra, per chi sappia vedere ed interpretare, racconta storie di gesta antiche. Sta a noi raccoglierle per non disperderle e soprattutto non dimenticarle poiché senza ricordo del passato non v’è speranza per il futuro.

Poco prima di giungere a Bibbiena da Arezzo, varcando l’Arno sulla sinistra ed inerpicandosi per un paio di chilometri sulle alture che si aprono verso Castel Focognano e Pieve a Socana, centri stupendi tutt’altro che dimenticati, arriviamo a Terrossola, un borghettino minuscolo, stretto intorno ad una chiesina dal campanile a vela curiosamente sproporzionato per la grandezza, a vicoli stretti, a terrazzini di terra faticosamente strappati alle pendenze, ad una piazzetta che due macchine bastano a riempire; qualche persona affacciata osserva con curiosità e sorpresa il forestiero che sia giunto sin quassù. Il villaggio pare veramente una scommessa nei confronti della precarietà, questo si evince al primo impatto quando vien da dire: tutto qui? Ma poi l’occhio mette a fuoco, la Storia svolge le sue spire, il racconto inizia a fluire ed allora ci si accorge, o meglio si prende atto, che proprio da qui, un passato glorioso ha mosso passi importanti ed invidiabili. Vi passava la romana Via Major, importante arteria viaria che ha retto sino all’800; questa garantiva  senza  dubbio  traffici  importanti, notorietà  ed  una  invidiabile  ricchezza commerciale; nei documenti di poco antecedenti al 1000 si parla di una “Terrubiola”, accostamento che farebbe pensare al colore rosso della sua terra, caratteristica che non ha conferma esclusiva in tempi storici più recenti.
Più  avanti  nel  tempo  i  pellegrini  che  andavano  a  Roma,  lungo  una  delle  tante “Francigene”, avevano qui un loro ricovero, un punto di ristoro e persino un piccolo “ospitale” in grado di soccorrerli fisicamente, La Chiesa, la cui sproporzione, come accennato, fra corpo centrale e campanile, appare evidente, contiene ricchezze impensabili: due campane, una del 1323 l’altra del 1297, una fascinosa tavola lignea della Vergine, posta dietro l’altar maggiore, per la quale, circa l’autore, si fanno nomi che lasciano sbalorditi: Benozzo Bozzoli, Francesco Botticini, la Scuola del Ghirlandaio? Sicuramente un grande artista, ma dove siamo? A Firenze? No, a Terrossola.
Qui si conclude questa necessariamente breve escursione attraverso i borghi più o meno dimenticati del Casentino, la scelta è stata personale e non ha avuto lo scopo di stabilire graduatorie d’importanza ma soltanto l’ambizione di suscitare un certo interesse, di vellicare la volontà di venire a vedere di persona, con calma, con curiosità, con la voglia di capire le cose ed ascoltare le persone che si avrà la sorte e la fortuna d’incontrare. Non ringrazierò mai abbastanza Don Alfio Scarini che, con la sua Guida del Casentino, mi ha condotto per mano, passo passo, ed ha fatto risuonare la sua voce nelle mie orecchie così come era avvenuto quando ero andato a trovarlo a Pieve a Socana, organizzando anche un’uscita sociale. A chi leggerà queste modestissime note dico: ora lo sapete, andate in Casentino, le scoperte, non solo dei borghi ma di ogni genere, sono assicurate, la natura è splendida e ridente, la gente cordiale e disponibile, la cucina ottima, la Storia è piena di riferimenti ed anche il Grande Fuggiasco qui era di casa.

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