“Borghi della Valdambra” di Pasquale Parcesepe

Annuario 2008

Terra di boschi, castagneti, pascoli e poggi coltivati a ulivi e viti. Ma anche piccoli borghi con tracce visibili di cinte murarie, rocche e piccoli castelli …

Lineamenti geografici
La Valdambra è situata al centro del triangolo Firenze-Arezzo-Siena, tra il confine meridionale delle colline del Chianti e il Valdarno Superiore. La maggior parte del suo territorio si trova nel comune di Bucine (AR). Essa è una “microregione” a sé stante dal punto di vista storico, geografico e culturale. Ricca di boschi, castagneti, pascoli e poggi coltivati a ulivi e viti, la Valdambra è costituita da piccoli borghi con tracce visibili di cinte murarie, rocche, piccoli castelli collocati a scacchiera sui dossi che rappresentano la caratteristica del suo paesaggio e da fattorie e poderi che conservano intatto il sapore rurale della campagna toscana. E’ attraversata dal fiume Ambra, che finisce il suo corso nell’Arno nei pressi di Levane (località Acquaborra).

Pietraviva

La Valdambra è stata fin dall’antichità un interes-sante e spesso conteso territorio per le comu-nicazioni fra vallate diverse. Tutt’oggi rap-presenta un’area coperta da un ampio numero di strade age-volmente percorribili. E’ attraversata intera-mente sul fondovalle dalla strada di facile comunicazione n.540, che la collega da una parte con la n. 69 del Valdarno Superiore (Firenze Arezzo) e dall’altra con la superstrada Perugia-Siena. Dalla n. 69 si dirama nei pressi di Pergine Valdarno la strada che sale fino a Civitella Val di  Chiana e che pertanto rappresenta un collegamento diretto con questa valle. Dal fondovalle, nei pressi di Capannole, sale fino a  S.Pancrazio la strada che scende poi anch’essa verso la Valdichiana (Monte S. Savino). Da Ambra, invece, una strada collega la Valdambra a Palazzuolo, dove confluisce nell’Arezzo – Siena (via Monte S.Savino). Sul versante opposto, verso le Colline del Chianti, si trovano la strada che da Bucine sale verso Mercatale Valdarno e quella che da Ambra sale a Cennina.

I centri principali
La maggior parte del territorio della Valdambra, come si diceva, è costituito dal Comune di Bucine e dalle sue frazioni: Pogi, Capannole, Badia Agnano, San Pancrazio, Ambra, Pietraviva, Badia a Ruoti, Sogna, Rapale, Cennina, Montebenichi, Mercatale Valdarno, Galatrona, San Leolino. Qui di seguito ci occuperemo di alcune di queste, mancando lo spazio per occuparsi di tutte.Bucine
Il paese si trova ad una altitudine di circa 200-250 m, dalla base di una collina dove passa la linea  ferroviaria  Roma-Firenze e il fiume Ambra, alla vetta della stessa collina che digrada poi verso la frazione Pogi e il cuore della Valdambra. Il centro abitato di Bucine conserva ampie zone verdi e alberi secolari, che presentano aspetti di notevole interesse naturalistico: la zona della stazione ferroviaria, quella del Teatro, degli uffici comunali, di piazza Menotti, via Calimara e San Salvatore. Anche la Villa Chiaromanni presenta nel suo parco una interessante varietà di specie vegetali, luogo di sosta e riparo per molti piccoli uccelli.

L’origine del nome Bucine è incerta, forse dall’etrusco, forse dal latino (bucina) Ma l’etimologia più probabile sembra quella che fa derivare il toponimo da “bucine”, rete a forma di conchiglia per pescare o per uccellare, come potrebbe dedursi dagli stemmi più antichi della podesteria, dove è raffigurato un leone rampante che regge una rete di forma conica.Le prime informazioni storiche relative a Bucine risalgono al  secolo XI. Risulta infatti che a quell’epoca la parrocchia di S. Tiburzio a Bucine era soggetta alla Badia di S. Pietro a Ruoti. Nel XIII secolo aveva signoria su Bucine la casata dei conti Guidi di Modigliana, proprietaria in zona anche di altri castelli. Il conte Guido Guerra il Vecchio ordinò che venisse costituito, con questi suoi possedimenti, il Viscontado della Valdambra, che nel 1208 ebbe un proprio statuto. Nel 1255 il conte Guido di Tegrimo pose Bucine e gli altri suoi castelli della Valdambra sotto il protettorato del comune di Arezzo. Il 31 ottobre 1335, i 257 uomini del comune di Bucine, in una riunione (parlamento) tenuta nella chiesa parrocchiale dei SS. Apollinare e Ercolano, insieme al rettore della comunità elessero due sindaci per fare atto di sottomissione al comune e al popolo di Firenze. Il giorno successivo, i sindaci fecero la sottomissione nelle mani di Matteo di Borgo Rinaldi podestà di Montevarchi, che accettò per il comune di Firenze la giurisdizione sulla torre e sul castello, affidando la custodia della torre a Casino Ciucci di Montevarchi con l’assegnazione di 4 famigli e quella del castello a cinque cittadini, anch’essi di Montevarchi, ai quali furono concessi per la difesa 25 famigli. Due anni dopo, Firenze acquistava per 23.800 fiorini d’oro le porzioni che i Guidi e i Tarlati possedevano ancora delle terre e dei castelli del Viscontado di Valdambra: da quel momento Bucine e le altre terre del Viscontado seguirono le sorti della Repubblica fiorentina.
Il centro storico è dominato dal castello, che ha antiche origini antecedenti all’XI secolo. Ancora  oggi è possibile vedere alcuni tratti della cinta muraria, in parte ricoperti dalla vegetazione, e un edificio in via del Castello, la cui struttura fa pensare che facesse parte della rocca dei conti Guidi. Salendo fino alla piazzetta posta sulla sommità del castello, oltre ad un bel panorama, troviamo la Pieve di

La Pieve di Capannole

S. Apollinare che, rovinata in parte nel 1710, fu ridotta in cappella. In origine questa chiesa era intito-lata anche a S.Ercolano. Poiché per la festa di S. Apollinare era proibito mettere il basto al somaro e quindi lavora-re, mentre non lo era per S.Ercolano, la popolazione considerava quest’ultimo un santo minore, e si finì per non ricordarlo più nel titolo. Ristrutturata intorno al 1950, la chiesa ha subito notevoli modifiche. Una porzione di essa è stata inglobata in un edificio adibito a privata abitazione e ciò ha determinato lo spostamento del portale di ingresso che, rispetto all’attuale, era sulla destra. La parte più originale della chiesa è costituita dal piccolo campanile a vela, conservatosi attraverso il tempo nella sua forma primitiva. La cappella è dedicata oggi ai caduti della seconda guerra mondiale. Di fronte a questa si trova un minuscolo edificio, che all’epoca della presenza del cimitero nella piazza fungeva da cappella mortuaria.
Di una certa importanza è la Chiesa Parrocchiale. Già nel Settecento, la pieve aveva perso di importanza e al suo posto era stata elevata al rango di parrocchiale la chiesa dedicata a S. Giovanni Battista, che pertanto assunse anche il titolo di S.Apollinare. L’edificio religioso (ubicato in via N. Angeli) era stato costruito sopra un più antico oratorio, oggi sconsacrato, intitolato allo stesso S. Giovanni Battista. La chiesa, fatta presumibilmente edificare da uno Jacopo della famiglia Conti di Firenze, fu, nel 1581, ulteriormente ingrandita per volere di un altro Conti, Bartolomeo Sebastiano. Ciò si ricava dall’iscrizione (sormontata dallo stemma del Conti) scolpita sull’architrave della porta principale della chiesa. Le due porte laterali vennero aperte una nel 1741 e l’altra nel 1782. La chiesa si presenta a tre navate, divise da colonne di pietra serena con capitello sormontato da un dado brunelleschiano recante lo stemma della famiglia Conti e l’iscrizione IA COM (forse Jacopo Conti). Sopra all’altare di sinistra si trova un dipinto all’interno di una cornice di pietra rappresentante la Madonna delle Grazie opera di scuola fiorentina (XVI-XVII). Le due vetrate rappresentano i patroni S.Giovanni Battista e S.Apollinare.
Interessante è anche la piccola chiesa di San Salvatore che si trova poco fuori il centro del paese lungo la via omonima. Questo edificio, che alcuni fanno risalire al Duecento, è una semplice costruzione in pietra. Stando alla tradizione popolare, S.Salvatore era in origine un santuario edificato nel luogo in cui si era avuta l’apparizione del Cristo. Le compagnie religiose della Valdambra e delle località limitrofe erano giunte in processione a questo luogo santo, portando, con atto penitenziale, parte delle pietre necessarie alla costruzione della chiesa. Queste pietre, naturalmente tutte di dimensioni diverse, vennero murate intorno alla porta principale e a quelle laterali, mentre le pareti furono edificate con sassi provenienti probabilmente dalla vicina cava di S. Salvatore. Durante il restauro della chiesa del 1824, furono rinvenute le radici della quercia sulla quale la tradizione vuole che sia apparso il Cristo ad alcuni fanciulli. Queste radici sono oggi conservate in una teca in vetro appoggiata alla parete di sinistra. Un altro restauro fu eseguito nel 1902. In quell’occasione furono rimosse dalle pareti alcune pitture ritenute non idonee e nel 1903 fu posto dietro l’altare maggiore un dipinto del senese Augusto Bastianini raffigurante l’apparizione del Salvatore. Uno degli elementi più antichi della chiesa è il ciborio in pietra chiuso da uno sportellino in legno. Conservano ancora il loro aspetto originario il campanile a vela e i due portali d’ingresso.

Tra gli edifici civili di Bucine il più importante è senza dubbio il Palazzo Pretorio, attuale sede del Comune, posto al n. 2 di via Vitelli . Esso reca su due facciate gli stemmi in pietra con l’arme dei numerosi funzionari pubblici che si sono alternati, lungo l’arco di alcuni secoli, alla guida della comunità. La data più antica che si legge all’interno del palazzo comunale è quella del 1611. L’ingresso ha il soffitto a cassettoni, e in alcune stanze, attualmente adibite ad uffici, sono ancora visibili parti di antichi affreschi, forse secenteschi, di soggetto religioso. Di fronte al Palazzo Pretorio, al n. 1 di via Vitelli, esiste un edificio che in alcuni documenti è definito “casa comunale”. Anch’esso riporta sulla facciata anteriore numerosi stemmi in pietra, piuttosto mal conservati e tracce di stemmi affrescati. Da notare su questa costruzione la presenza di una cornice circolare in pietra entro la quale era collocato l’orologio pubblico. Nella parte inferiore dell’edificio si apriva un loggiato, del quale si notano i resti degli archi.
Altro importante edificio è il palazzo che, con la sua mole squadrata, domina la piazza della Pieve.  La sua origine può essere collocata tra la fine del Cinquecento e la metà del Seicento. Esso, all’epoca della costituzione del feudo di Bucine, fu dimora dei marchesi Vitelli. Attualmente è proprietà dei marchesi Marchetti.Agli inizi del Novecento Bucine ebbe un suo teatro che divenne la sede della locale Società Filarmonica, fondata nel 1893. Questa associazione, con l’inizio di una attività teatrale, mutò, nel 1906, la propria denominazione in “Società Filarmonica Drammatica”. Per l’edificio del teatro, oggi in stato di abbandono, sono previsti lavori di restauro che ne consentano l’uso per scopi culturali. Nella piazza antistante il palazzo comunale, piazza del Popolo, è possibile ammirare il monumento ai caduti della guerra 1915-1918. Il bronzo, raffigurante la Vittoria alata, è opera dello scultore montevarchino Pietro Guerri (1865-1936). Nativo di Bucine fu Niccolò Angeli, insigne umanista. Vissuto a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento, insegnò latino e greco nello Studio fiorentino, pubblicò l’opera in lingua latina De re rustica, stampata dagli eredi di Filippo Giunti nel 1521, e commentò e corredò di sue prefazioni diverse opere di classici.

Pogi
Entrando in  Pogi dalla via Senese, si incontra il bellissimo ponte a schiena d‘asino, che scavalca l‘Ambra, con la sua struttura in pietra e mattoni a cinque archi, di epoca medievale, costruita forse sui basamenti di un preesistente ponte

Pogi - il ponte romano

romano percorso dalla via consolare Cassia Adrianea. Il castello di Pogi, di cui rimangono soltanto pochi ruderi, fu un dominio dei Conti Guidi e fece parte del Viscontado della Valdambra. Oggi nulla rimane della rocca se non alcuni ruderi, tra i quali quelli di un torrione abbattuto, sdraiato negli orti dietro la Chiesa del borgo. La chiesa di Pogi, intitolata a S.Donato, ha subito nel tempo modifiche e rifacimenti. Attualmente si presenta ad una sola navata con un altare centrale e due laterali. Sull’altare maggiore si può osservare un dipinto di pregevole fattura, raffigurante la Madonna col Bambino. Alla destra della Vergine è riconoscibile S. Donato vescovo di Arezzo, alla sinistra Santa Lucia. Ai lati di questo dipinto, incassate nel muro, all’interno di due cornici in pietra, si notano due piccole tele di buon livello artistico raffiguranti l’Annunciazione, quella di destra l’arcangelo Gabriele, quella di sinistra la Madonna. Dopo i Conti Guidi (ai quali è stata intitolata la strada perimetrale dell’antica terra murata) ebbe giurisdizione su Pogi Pier Saccone Tarlati di Pietramala, fratello di Guido vescovo e signore di Arezzo. Tornato di pertinenza dei Guidi nel 1322, nel 1337 Pogi, come le altre terre del viscontado di Valdambra, si pose sotto la protezione della Repubblica fiorentina.
L‘antica strada selciata, su cui oggi passa per un buon tratto il sentiero CAI n 27a, sfiora la Fonte dell‘Imbuta, Casa al Papa e si dirige rettilinea verso La Madonna, come viene chiamato in loco l‘ex oratorio dedicato alla Vergine della SS. Consolazione, ora sconsacrato e inglobato in moderne costruzioni abitative. Un altro tra i tanti scempi edilizi delle nostre meravigliose terre! Un piccolo sentiero si dirige verso Poggio dei Franchi, mentre la chioma di un gigantesco pino domestico e quella di un cipresso indicano la direzione per la Fattoria Jesolana, per la poderale Casa Stracca, per il nucleo abitato di Montozzi. A destra, dove la strada scavalca un piccolo torrente, inoltrandosi per il bosco, si raggiunge l‘antico nucleo di Casa Zanio, mentre, sul lato opposto, la strada conduce a Castiglione Alberti, un piccolo castello che ancora oggi si lascia “ leggere” nella sua struttura raccolta. Tornando indietro e deviando sulla strada che scende verso Capannole, si incontra ai margini di un’oliveta Il Paretaio, antica postazione di caccia, delimitata da lecci e cipressi.Capannole
L‘antico castello di Capannole, punto nodale di antichi percorsi, conserva l’aspetto originale che recenti interventi di recupero non hanno alterato. Situato in posizione di altura su una collinetta posta in prossimità della pieve di S. Quirico, ancora oggi conserva i tipici tratti del castello medievale, mentre ai suoi piedi, lungo la strada senese, in età più recente, si è sviluppato spontaneamente un piccolo borgo.

Punto di raccordo di strade provenienti dal Valdarno, da Arezzo, dalla Valdichiana, da Siena e dalle colline chiantigiane, Capannole ha avuto, fin dall’età romana, una grande valenza strategica, tanto che alcuni studiosi ritengono che qui, in prossimità della storica pieve di S. Quirico, fosse situata la stazione di tappa romana “Umbro flumen”, ricordata nella Tabula Peutingeriana. Inoltre, in questo luogo, sulla riva sinistra dell’Ambra, a 250 m. circa dal fiume, in direzione della fattoria di Vepri, nel terreno denominato “Roma vecchia”, sono stati rinvenuti ruderi di un edificio nobile in fasce di mattoni alternate ad “opus reticulatum”. Le vestigia dell’edificio fanno ritenere che si trattasse di una villa romana. Sicuramente la zona era abitata anche nell’alto medioevo, come testimoniano frammenti di ceramica rinvenuti in loco e attribuibili a quel periodo storico.
Ma la continuità del popolamento, tra età romana e medioevale, è testimoniata soprattutto dalla presenza della pieve, costruita sui ruderi della probabile stazione di transito di cui si è detto sopra. L’importanza della pieve era tale che nel XIII secolo da lei dipendevano ben nove chiese. Il documento più antico in cui viene ricordato Capannole è un atto di vendita del 1038 conservato nell’Archivio di Santa Maria in Gradi ad Arezzo. Già di proprietà della famiglia Vannucchi (Vannucci), fu da questa donato all’Abbazia di Agnano, e nel 1350 passò insieme a tutti i possedimenti di quell’ente ecclesiatico alla Repubblica fiorentina, seguendone le sorti politiche e militari. Con la riforma delle comunità attuata dai Lorena negli anni settanta del Settecento entrò a far parte del comune di Bucine.

Badia Agnano
Badia Agnano occupa la parte più elevata di una modesta collinetta che si affaccia sulla valle della Trove. Il complesso edilizio sorge principalmente sui pochi resti dell‘antico castello, di cui si distinguono tutt’oggi soltanto alcuni importanti elementi, quali la cinta muraria e una porta di ingresso. Servono ad ampliarlo le strutture dell’antico monastero (oggi ridotte ad abitazione privata), la chiesa dei SS. Tiburzio e Susanna e quella della Compagnia costruita nei primi anni del Seicento sotto il titolo della Visitazione.
Attraversando la piazza centrale del paese, percorrendo via Trento si raggiunge l‘antica Badia originariamente intitolata a S. Maria. La chiesa è un esempio di architettura romanica e conserva i caratteri tipici di questo stile, riscontrabili anche in altri edifici sacri del Valdarno e del Casentino. Presenta una pianta a croce latina, ad una sola navata, con transetto sporgente e tre absidi ben separate di cui quelle laterali più piccole. La facciata, con una finestra a occhio nella parte alta sopra il portone d’ingresso, presenta un paramento murario a filari di grosse bozze di arenaria; i muri laterali, infine, sono costituiti da filari regolari di bozzette squadrate. L’origine della Badia di S.Maria risale, probabilmente, a prima del Mille ed è legata alla nobiltà feudale toscana. Nell’XI secolo la Badia ebbe una nuova fondazione e, benedettina in origine, ma confluita successivamente nell’ordine camaldolese, in breve tempo ampliò il patrimonio fondiario e il controllo su numerose chiese in un ampio territorio che oltre la Valdambra interessava il Valdarno, la Valdichiana e il senese. Fra i priorati da essa dipendenti ricordiamo S. Maria in Gradi, S. Pietro a Soppioro (vicino a Laterina), S. Egidio a S. Pancrazio e S. Cristoforo alle Vertighe. La profonda crisi che a partire dal XIV secolo investì il monachesimo, ebbe una forte accelerazione nel secolo successivo con la cessione in commenda (assegnazione provvisoria) dei benefici e dei beni delle abbazie ad alti dignitari ecclesiastici. Anche la Badia di S. Maria di Agnano a partire dalla seconda metà del secolo XV, insieme alla Badia aretina di S. Maria in Gradi da essa dipendente, fu retta da abati commendatari nominati dal papa. Questo fatto fece venire meno tutte quelle positive caratteristiche nel campo religioso, sociale ed economico, che avevano contrassegnato l’origine del monastero, e contribuì a rompere definitivamente lo stretto legame che univa la Badia al territorio e alla popolazione della Valdambra. Anche il centro direzionale ed economico fu posto in Arezzo presso S. Maria in Gradi, ribaltando la storica dipendenza fra le due Badie.

L’omicidio dell’abate Giovanni Vincenzo Carleno, avvenuto nel 1562 in Agnano durante la celebrazione eucaristica, fu l’ultimo atto di 90 anni di commenda che concorsero alla decadenza generale del monastero, accentuando così i motivi di contrasto con la popolazione. L’ultimo abate commendatario fu S.Carlo Borromeo, che, interpretando le esigenze di riforma e di rinnovamento del secolo XVI, nel 1564 riconsegnò “libere” le due Badie a Camaldoli, da cui dipesero fino alla definitiva soppressione napoleonica. Nel 1566 il priore generale dell’ordine camaldolese prese possesso di Agnano e conservò ai monaci il titolo di curati e camarlinghi. Con le disposizioni di Papa Innocenzo X del 15 ottobre 1652, in conseguenza di quanto prescriveva il Concilio di Trento, la Badia di Agnano fu soppressa e perse anche quel legame spirituale che aveva creato con la popolazione. Da quel momento, al pari di tanti altri conventini, terminò ogni esperienza monastica ad Agnano e persino la cura delle anime della parrocchia di S. Tiburzio venne affidata ad un sacerdote secolare, alla cui nomina provvide la Badia di Arezzo fin dall’ottobre del 1653.
Il cospicuo patrimonio fondiario ed immobiliare, costituito in epoca medievale, si mantenne quasi inalterato fino al XIX secolo, e al pari di altre fattorie laiche fu gestito da un “agente”, monaco o laico, che provvedeva alle locazioni e alla riscossione dei canoni dei numerosi affittuari.   Le entrate economiche che per il solo grano ammontavano a circa 1.200 staia all’anno (quelle di S. Maria in Gradi erano di circa 800 staia), furono utilizzate in funzione di interessi propri dell’ordine, con una minima ricaduta economica o sociale sul territorio, rivolta specialmente alla conservazione dei fabbricati della chiesa, del monastero e dei poderi. Per mantenere integro il patrimonio e costante l’entrata economica, fu sovente necessario ricorrere a lunghi e complessi processi contro gli affittuari, verso i quali la Badia fu costretta a giustificare diritti e privilegi spesso anacronistici e che mal si conciliavano con i nuovi rapporti che si praticavano in agricoltura. La Badia non agevolò il dinamismo nella realtà agricola, ma mirò al mantenimento della rendita divenendo così un elemento “frenante” lo sviluppo economico. Ormai spogliata di tutte le originarie funzioni spirituali non offriva alla gente altro che l’inviso volto dell’esattore, estraneo alla cultura locale e non più solidale con la popolazione. Anche la Badia di S. Maria in Gradi, che era rimasta la struttura monastica di riferimento per l’”agenzia” di Agnano, fu soppressa nel 1783 a opera di Pietro Leopoldo. Nell’ambito delle generali riforme granducali la riorganizzazione ecclesiastica rappresentò un momento essenziale per fare ordine da un punto di vista religioso, ma soprattutto per finanziare le riforme stesse. Si stabiliva che gli ordini monastici cooperassero, insieme al clero secolare, all’assistenza spirituale del popolo e fossero soggetti alla giurisdizione del vescovo. L’alienazione dei benefici ecclesiastici, iniziata in epoca granducale, fu completata sotto il governo francese. Si realizzò così la redistribuzione dei beni delle due Badie.
Il 12 marzo 1811 i fratelli Tosi di Livorno acquistarono dall’Amministrazione del debito pubblico, per 18.132 franchi, il podere denominato Badia Agnano, che consisteva in una casa a uso di fattoria di 25 stanze, con orto (il fabbricato dell’antico monastero), e in due case da lavoratore e sedici pezzi di terra. Tutta questa proprietà acquistata dai Tosi con fini speculativi, passò nello stesso anno in mano alla famiglia Vannucci e successivamente in quella dei Mattei che tutt’oggi la detengono. Dell’alienazione dei beni della Badia beneficiarono anche le famiglie dei Serristori e dei Ginori e quelle locali dei Vanneschi, Mattei, Rubeschi, Cini, Aldinucci.

Ambra
Antico castello situato in un’altura sulla riva sinistra del fiume Ambra dal quale ha preso il nome. Nel corso dei secoli, ai piedi del nucleo fortificato, nell’esiguo spazio di fondovalle, si è sviluppato un borgo tutt’ora in espansione. L’antico nucleo fortificato probabilmente era compreso fra via del Castello e via Galilei,

Ambra

inglobando piazza Filzi e tutti i vicoletti ivi confluenti. Da piazza Filzi, uno di questi piccoli vicoli, deno-minato “gli sportici”, conduce a quella che pare un’antica porta d’accesso al castello. Della più antica chiesa di Ambra non restano tracce, essendo stata inglobata nell’edificio posto difronte all’attuale canonica. Sul retro di questo edificio, in via del Castello, esisteva il vecchio cimitero, oggi trasformato in orto cinto da mura. In piazza Filzi c’è la chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta risalente al 1300. L’interno, ad una sola navata con piccole cappelle laterali, ha subito nel tempo varie modifiche che ne hanno alterata la forma primitiva. La parete retrostante l’altare maggiore faceva parte delle antiche mura. C’è quindi da pensare che la chiesa, in origine, fosse più corta dovendo lasciare libere le difese del castello. Nel restauro del 1969 fu tolta la volta a botte e sostituita con un soffitto a capriate, nell’intento di restituire alla chiesa parte del suo aspetto originario. Nella cappella laterale destra si trova una tela di m.2 x 2,50, raffigurante la Natività di Maria, opera di Giovanni Mannozzi, detto Giovanni da San Giovanni, pittore valdarnese di grande valore, attivo nella prima metà del Seicento. Il campanile attuale fu eretto nel 1914, in sostituzione di quello originario a vela.

Poco lontano dalla chiesa parrocchiale, in via Duddova, c’è la chiesa della Compagnia, intitolata alla Madonna del Conforto. L’interno, a croce latina ad unica navata, presenta un altare di fattura settecentesca, sormontato da un tabernacolo a intarsi, artisticamente lavorato, entro al quale è collocato un busto della Madonna del Conforto in terracotta invetriata. L’altare è frutto di lavori eseguiti successivamente all’epoca di fondazione della chiesa che pare essere il 1500. Di quel tempo sono rimasti solo gli archi che separano la navata dalle cappelle laterali. Dietro l’altare si trova una tela di m 2×3, opera di ignoto, ma ritenuta di scuola veneta, rappresentante l’invenzione della croce, recentemente restaurata. La credenza popolare colloca in Ambra o nelle sue immediate vicinanze, l’antica abitazione della famiglia Cellini. Secondo il grande Benvenuto: “Si stavano in nella Val d’Ambra li mia antichi e quivi avevano molta quantità di possessioni; e come signorotti là ritiratisi, per le parte, vivevano: erano tutti uomini dediti all’arme e bravissimi. In quel tempo un lor figliuolo, il minore, che si chiamò Cristofano, fece una gran quistione con certi lor vicini ed amici: e perché l’una e l’altra parte dei capi di casa vi avevano messo le mani, e veduto costoro essere il fuoco acceso di tanta importanza, che e’ portava pericolo che le due famiglie si disfacessino affatto; considerato questo quelli più vecchi, d’accordo li mia, levorno via Cristofano; e così l’altra parte levò via l’altro giovane, origine della quistione. Quelli mandorno Cristofano a Fiorenza, e quivi gli comperorno una casetta in via Chiara…”(Vita di Benvenuto Cellini scritta da lui medesimo, a cura di F. Tassi, Firenze, 1831). Questo Cristofano fu il bisnonno di Benvenuto Cellini.

Al principio del XIII secolo Ambra, assieme ad altri castelli della valle, era sotto il dominio degli Ubertini di Chitignano. Fu viscontado della Chiesa Aretina e alla metà del XIV secolo, a seguito degli scontri tra Arezzo e Firenze, la sua rocca venne abbattuta. Nel 1365 gli Ubertini posero Ambra sotto la protezione di Firenze. Nel 1386 quella stessa città acquistò, per la somma di 3162 fiorini, i diritti degli Ubertini sui loro possedimenti nella valle. Così Ambra entrò a far parte del contado fiorentino, diventando il capoluogo di tutte le terre di recente acquisizione, raggruppate sotto la denominazione di “Valdambra Nuova”. Da allora il paese ha seguito le sorti di Firenze e in seguito alla riforma leopoldina (1772-74) fa parte del comune di Bucine. Alle tradizionali attività degli abitanti del territorio di Ambra connesse con il bosco e con l’agricoltura, si sono aggiunte, a partire dalla fine dell’Ottocento, attività manifatturiere quali la lavorazione della seta (oggi non più praticata), la lavorazione dell’erica per farne ramazze e la coltivazione e lavorazione del tabacco. Sui tetti dell‘abitato di Ambra è tuttora ben visibile la residua ciminiera della filanda ( poi trasformata in tabaccaia) che, nei primi anni del Novecento, garantiva lavoro alla popolazione locale. Nel centro storico, a ridosso del castello, il toponimo “Le carbonaie” sta a indicare il luogo nel quale, un tempo, si produceva il carbone. Ad Ambra l’associazionismo ha sempre avuto una particolare importanza. Infatti, nel 1893 fu fondata una Società Filarmonica attiva ancora oggi. Nel 1897 fu costituito un circolo socialista. Nel 1901 venne fondata una Società Operaia del Mutuo Soccorso e Previdenza, con 93 soci fondatori. Nel 1909 si costituì la Lega delle Setaiole e, in epoca imprecisata un Gruppo Operaio Oggi, in campo socio-assistenziale, merita una particolare menzione la “Misericordia”, associazione di pronto intervento con ambulanza, basata sul volontariato.

Pietraviva
L‘attuale piccolo borgo si sviluppa di fronte al poggio di Santa Lucia, dove ancora oggi si possono osservare i ruderi del primissimo insediamento. Attualmente sono visibili numerosi resti delle antiche mura e della porta di accesso al castello. La chiesa di Santa Lucia è di origine medievale ma è stata completamente ristrutturata nel 1580 ed altri restauri sono avvenuti più tardi. Nel 1910 venne costruito il campanile al posto di quello più antico. Il nome del primo insediamento era “Santa Lucia di Rabbia Canina”, presumibilmente per la presenza di qualcuno in grado di guarire l‘idrofobia o “rabbia canina”. Sembra che alla fine del XIII secolo questo primo insediamento venisse distrutto, per cui agli inizi del secolo seguente ebbe inizio la costruzione del borgo nell‘attuale posizione, più facilmente difendibile e vicino ad un corso d‘acqua. La famiglia degli Ubertini da Chitignano, che già aveva il controllo di Santa Lucia di Rabbia Canina, finanziò la costruzione e aggiunse questa alle altre proprietà nell‘alta Val d‘Ambra. Nel 1353 Firenze occupò tutti i territori valdambrini di proprietà delle famiglie Guidi e Tarlati, lasciando però liberi quelli degli Ubertini, compreso Pietraviva. Il borgo si trovò così al centro delle scorribande dei feudatari senesi e fiorentini fino al 26 giugno 1385, quando gli Ubertini, non riuscendo più a garantire sicurezza ai propri territori, decisero di vendere Pietraviva e l‘Alta Val d‘Ambra a Firenze per la cifra di 3162 Fiorini. Nel 1390 fu distrutta da Giovanni Galeazzo Visconti, in guerra con Firenze e, per circa 40 anni, l‘intero territorio fu conteso fra il Duca di Milano, alleato anche con Siena, e Firenze. Alla fine uscirono vincitori i fiorentini, che si trovarono a dominare su quasi tutti i castelli della Val d‘Ambra. Altre devastazioni però attendevano il borgo di Pietraviva, prima, nel 1479, ad opera dell‘esercito papale e poi, nel 1527, per mano dei Lanzichenecchi del Duca Carlo di Borbone. Il 17 marzo 1557 Pietraviva e la Val d‘Ambra furono cedute dal Re Filippo II di Spagna, figlio di Carlo V, a Cosimo dei Medici e, da quel momento, seguì un lungo periodo di pace. La vallata rimase sotto l‘amministrazione della famiglia dei Medici fino al 1737 quando passò a quella dei Lorena, fino al marzo 1860, anno in cui il Granducato di Toscana entrò a far parte del neonato Regno d‘Italia.

Badia a Ruoti
L’origine della Badia di S. Pietro a Ruoti è assai remota e fino ad oggi la data della sua fondazione non può essere stabilita con certezza. E’ però indubbio che questo monastero fosse stato eretto già prima dell’XI secolo. Infatti, nel 1070 alla Badia di Ruoti fu unito il monastero di Paterno presso Foiano ed entrambi,

Badia a Ruoti

in questa occasione, adottarono la regola camaldolese, istituita da S. Romualdo. Prece-dentemente, la Badia di Ruoti, insieme all’altra potente Badia della vallata, quella di Agna-no, apparteneva all’ordine benedettino, molto diffuso in Toscana intorno al Mille.
La data dell’unione della Badia di Ruoti col monastero di Paterno, contrasta con l’affermazione del Repetti che reputa la Badia fondata nel 1076 dalla nobile famiglia dei Roti, consorte degli Ubertini. Secondo il Chronicon di Bonaccorso Pitti a fondare la Badia di Ruoti furono invece i conti Ubertini di Chitignano. L’ipotesi poi del Farulli, secondo la quale questa Badia fu donata nel 1114 all’eremo di Camaldoli da Aldobrando di Bernardo di Alberto di Guglielmo dei signori Ubertini, è contraddetta da altri documenti. Il primo abate di cui abbiamo notizia è, a partire dal 1089, un certo Pietro che, per umiltà, si firmava “Petrus Peccatori Monacus et Abbas de Rota”. Nell’XI secolo la Badia aveva a sé soggetti i monasteri di S. Angelo a Nasciano e di S. Angiolo a Purgatorio, le chiese di S. Angelo a Duddova, di S. Lorenzo e di S. Tiburzio a Bucine, di S. Giovanni in Allevaria, dei SS. Niccolò e Silvestro, la parrocchia di Sogna le chiese di S. Pietro di Monte Liscario, vicino a Siena, e di S. Matteo delle Celle nella stessa diocesi. L’importanza della Badia in questione si evince anche dalle costituzioni di don Giovanni dell’ordine camaldolese, capitolo X, in cui S. Pietro a Ruoti è citato tra i maggiori monasteri dell’ordine. Ciò si traduceva in molti privilegi e indulgenze. La Badia ricevette inoltre numerose donazioni, come nel 1119, quando all’abate Ranieri fu dato da Ranuccio, figlio di Guido da Monte Liscario, il regime e il governo della chiesa di S. Giorgio alle Api. Nel 1125, ancora Tencio e Ugolino d’Orlando di Suvela donarono al monastero i diritti sul castello di Monte Liscario. Il 3 maggio 1133 la Badia di Ruoti acquistò il diritto di prendere l’acqua dall’Ambra per alimentare un nuovo mulino. In possesso della Badia era anche un podere, con vigne e orto, a Fiorano. La vita della Badia non era scandita solo da donazioni e acquisti, ma anche da irruzioni dei vari eserciti impegnati in lotte intestine e guerre che periodicamente devastavano la Valdambra. In questi casi, anche l’appoggio papale, che di solito non veniva meno, poteva ben poco. Nel 1287, infatti, i guelfi, scacciati da Arezzo ormai dominata dai Ghibellini, invasero la Valdambra e assediarono la Badia di Ruoti, valorosamente difesa oltre che dagli Ubertini, anche dai frati stessi. Ma questo scampato pericolo non ne evitò altri: nel 1390 Giovanni Ubaldini, capitano delle truppe senesi e del duca di Milano Galeazzo Visconti, si impadronì della Badia, resa poi di nuovo libera nel 1392. Nel 1430 fu invece la volta dei Senesi che presero la Badia durante la loro guerra con i Fiorentini. L’anno in cui iniziò la decadenza della Badia fu il 1479. In questa data infatti le truppe papali e napoletane occuparono e in parte distrussero il monastero. Nel 1491 Alessandro III mise la Badia in commenda. Il primo abate commendatario fu il cardinale Francesco Todeschini Piccolomini, arcivescovo di Siena e futuro Pio III. L’ultimo fu Antonio o Giovanni Ricci che restituì la commenda a Pio IV dopo che Montepulciano fu dichiarata città ed eretta in vescovado. Unitamente a ciò egli richiese che la Badia di Ruoti venisse riunita perpetuamente a detta mensa vescovile, per aumentarne le rendite. Pio IV esaudì le richieste del cardinale Ricci, e dal 1561 il vescovo di Montepulciano detiene il titolo di abate commendatario perpetuo della Badia di Ruoti.

Il complesso architettonico della Badia di Ruoti, costituito dalla chiesa con campanile, dalla chiesa della Compagnia e dal convento con chiostro, ha subito nel corso degli anni importanti trasformazioni. La chiesa è a croce latina, con un’unica abside e la facciata ha un portico pensile dell’XI secolo. Inizialmente fu costruita solo la navata fino al campanile, poi il transetto con la cupola, l’abside e il campanile. Infine fu sopraelevata per equilibrare in altezza le accresciute dimensioni planimetriche dell’intero edificio. Altre modifiche furono apportate verso il 1500 per iniziativa di abati e benefattori che fecero affrescare le pareti. Nel 1600 tutto l’assetto architettonico interno fu trasformato in stile barocco e furono aggiunti tre altari, due laterali e uno centrale. La tavola di Neri di Bicci (1472, attualmente in restauro), rappresentante l’incoronazione della Vergine e Santi e l’Annunciazione nella lunetta superiore, fu spostata dall’altare maggiore all’abside. Essa fu poi riportata nella posizione originaria dal vescovo mons.Batignani che fece rimuovere anche la sovrastruttura barocca dell’altare. Egli inoltre fece riportare alla luce le linee architettoniche della cupola, che nel 1926 fu rialzata di mezzo metro. Il monastero perse però il suo vero aspetto già nel XVII secolo, quando furono fatte numerose opere di trasformazione. Quando il complesso monastico non fu più residenza del vescovo di Montepulciano, divenne abitazione del parroco e sede della fattoria, e nell’opera di ristrutturazione ad uso agricolo l’ala est ha subito particolari trasformazioni. La caduta reiterata di pietre dalle alte muraglie del complesso architettonico, fece iniziare l’opera di restauro. I primi interventi furono effettuati sul campanile e sull’angolo nord-est del monastero. Restauri successivi hanno interessato gli ambienti interni, dei quali quelli del primo piano del lato nord, compreso il loggiato, sono già stati ripristinati ed hanno riacquistato la loro funzionalità.

Cennina
Visitando l‘antico borgo medievale di Cennina e portandosi sul lato nord del castello, in prossimità della chiesa, si può godere uno dei paesaggi più aperti e belli della zona: dal Pratomagno alle Valli dell‘Arno e dell‘Ambra, da Civitella e la Val di Chiana fino al Casentino e La Verna. E’ piacevole soffermarsi ad ammirare la vegetazione, le pergole d‘uva e le fioriture dei piccoli giardini. Cennina

Cennina

racchiusa dai resti di un’imponente cinta mu-raria di notevole spes-sore e consistenza è una delle principali testimo-nianze dell‘incastel-lamento nella Valdam-bra. L’esodo dalle cam-pagne, verificatosi a partire dal secondo dopoguerra, ha visto il progressivo spopo-lamento di Cennina. Ma negli ultimi decenni si sta assistendo al fenomeno inverso. Per l’alto valore di testimonianza storica e architettonica, la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali ha posto il vincolo paesaggistico sull’intero colle. Il castello sorge su un poggio di 477 metri a dominio della Valdambra, nel medioevo importante luogo di transito tra il Valdarno superiore fiorentino e la Valle di Montaperti nel senese e strategica via d‘accesso a Firenze da sud. Sui ruderi svetta il possente cassero a pianta rettangolare con la bella porta d‘accesso al cortile interno con al centro il pozzo, attorno al quale sono sorte diverse case rurali, quasi tutte erette nei secoli scorsi utilizzando i mattoni e le pietre del castello stesso e racchiuse tra i resti di una possente cinte muraria di notevole spessore ed alta in alcuni punti fino a a 15 metri. Le vie interne del borgo confluiscono nella piazzetta centrale, detta “della Cisterna”.
Lungo la cinta si apre una porta turrita d’accesso al cortile interno della fortificazione con al centro il pozzo. Sulla destra della bella piazzetta sorgono i resti del Palazzo, residenza del castellano, in parte restaurato e adibito ad abitazione privata. E’ ancora facilmente riscontrabile quello che era il perimetro delle mura: sul lato di nord-est sono praticamente intatte, a sud-ovest possiamo notare la torre d‘angolo crollata, ora adagiata sul terreno. Dai suoi resti si deduce che era quadrata e aperta sul fronte interno come la torre orientale della vicina rocca di Civitella in Val di Chiana. Tanto le mura del cassero che quelle della cinta sono in bozze di pietra squadrata legate da malta di calce, mentre all’interno e all’esterno delle medesime murature, si hanno non pochi rifacimenti con elementi in cotto e misti, risalenti a ristrutturazioni databili al secolo XIV. Allo stesso periodo risalgono anche le casette che si affacciano sulla piazza della Cisterna. L’edificio è stato sapientemente restaurato ed ha ripreso nuova vita per merito di un gruppo di studiosi, che ha qui creato un centro turistico e culturale, promuovendo rappresentazioni teatrali, conferenze, concerti e esposizioni di notevole livello culturale.

Il castello di Cennina conserva meglio di ogni altro luogo della Valdambra i connotati di origine medievale. La sua origine risale, con ogni probabilità, all‘epoca etrusco-romana e il suo sviluppo all‘epoca Longobarda, forse per esercitare funzioni di controllo sulle strade sottostanti allo sbocco della Valdambra nel Valdarno. L‘attuale borgo murato è disposto attorno al castello feudale del XII° sec. La rocca, ancora visibile, fu eretta nel 1167 dal conte ghibellino Brandaglia Alberigo d‘Uguccione(alla cui famiglia appartenne anche durante il XII secolo), investito signore di Cennina da Federico II, a dominio della Valdambra quale via privilegiata di transito tra il Valdarno Superiore e la Valle di Monteaperti. In seguito cambiò più volte feudatari: fu occupata a vicenda dai Tarlati, Ubertini e dai conti Guidi. La Valdambra, della quale Cennina era il punto più strategicamente importante, era terra di confine fra i domini fiorentini, aretini e senesi, e il castello fu di conseguenza assediato, distrutto e ricostruito più volte, coinvolto nelle guerre fra la guelfa Firenze e le ghibelline Siena ed Arezzo. Nel 1307 Cennina fu distrutta per mano dei senesi, alleati con i guelfi neri di Firenze che erano in guerra contro i guelfi bianchi alleati con i ghibellini di Arezzo. Nel 1336, si pose sotto la protezione di Firenze. Nel 1349, gli Ubertini occuparono Cennina. Firenze mandò in soccorso di questo importante castello truppe al comando di Albertaccio Ricasoli e Giovanni Alberti, con l’ordine di riconquistarlo ad ogni costo. Gli Ubertini dovettero cedere e Cennina tornò sotto il dominio fiorentino. Nel 1360, dopo alterne vicende, Cennina entra definitivamente a far parte del territorio fiorentino, che stabilì nella valle un proprio avamposto fortificato. Cinque anni dopo oltre che militarmente, la Valdambra fu organizzata anche amministrativamente in tre terzieri. Cennina venne a far parte del primo assieme a Badia Agnano, Pieve a Presciano, S.Leolino, Cacciano, Castiglione Alberti, Montelucci e Capannole. Qualche anno dopo Cennina fu incluso nel terziere che comprendeva Bucine, Torre S. Reparata, S. Leolino, Rendola e Galatrona. Nel 1388 si riaccese la guerra tra Siena e Firenze, e due anni più tardi Cennina fu occupato e saccheggiato nuovamente dai senesi. Dopo quasi un secolo, nel 1447, sempre in mano ai fiorentini subì un devastante assedio da parte delle truppe Aragonesi, alleate dei senesi. Nonostante la dura resistenza fu espugnato, ma dopo soli quindici giorni fu riconquistato e rafforzato. L‘ultima occupazione militare di Cennina avvenne nel 1529, ne fu autore l‘esercito del principe d‘Orange, che tornavano dal sacco di Roma e si recavano ad assediare Firenze. Con la riforma leopoldina del 1772-74, Cennina entrò a far parte della comunità di Bucine. Incamminandosi da Cennina in direzione di Solata, si incontra, sulla destra della strada sterrata, una piccola cappella con all‘interno un recente affresco raffigurante la Madonna circondata dagli angeli. Proseguendo, la strada scende sotto i castagni di Ripalta fino al ponte sul borro di Ristolli e poi prosegue ripidamente, attraverso una serie di tornanti, fino a Solata, raccolto nucleo abitato dove, recenti restauri stanno restituendo al paese il decoro originario. L‘ombra di un ippocastano copre il piccolo pozzo situato di fronte alla chiesa dedicata ai Santi Jacopo e Cristofano.Vergaia, Monte di Rota, Monte della Via, Poggialto sono tutte case poderali abbandonate e non, poste sull‘antichissima strada di crinale che separa la Valdambra dall‘area di Monteluco, San Vincenti e Rosennano.

San Leolino

Sul limite della dorsale che scende dai Monti del Chianti e che a nord-est spazia verso la valle dell’Arno fino al Pratomagno e a sud-est domina la valle dell’Ambra, si trova S. Leolino (m 377 ). Il paese è costituito da un castello medievale, oggi parzialmente diroccato, sulle cui mura sono state adattate e ricostruite alcune modeste abitazioni e la chiesa, e da una borgata pianeggiante con alcuni palazzi del Quattrocento, un tempo dimora di facoltose ed illustri famiglie fiorentine. Il castello, come risulta dalle Memorie di Tito Cini, fu incendiato intorno al 1300 dai senesi che, alleati con i fiorentini, combattevano in quel periodo contro i feudatari dell’aretino per la conquista e la sudditanza dei territori del Valdarno Superiore e della Valdambra. Il nome del paese si combina con quello del patrono, S. Leolino. Questi pare sia stato un vescovo di Padova martirizzato a Roma nel 242 e sepolto nelle catacombe di Santa Priscilla. La chiesa risale al 1000, ma successivamente è stata ricostruita e trasformata in uno stile settecentesco. Al suo interno si trovano opere di un certo valore. Pregevole è il tempietto per gli olii santi del fonte battesimale che, nonostante le numerose integrazioni, si può ritenere opera di maestranze scalpelline cinquecentesche. Di valore artistico è anche il tabernacolo in pietra dell’altare maggiore. Eccezion fatta per il moderno sportello (inserito negli anni settanta), il tabernacolo è un manufatto ascrivibile alle maestranze toscane della lavorazione della pietra operanti tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento. Sull’altare maggiore è collocata una tela secentesca raffigurante la Vergine e il Bambino che appaiono a tre santi inginocchiati. A sinistra è riconoscibile il santo vescovo Leolino fra due angeli che reggono pastorale e mitra. Gli altri due santi sono presumibilmente S. Pietro (al centro) e S. Lorenzo (a destra).
A S. Leolino soggiornò il poeta Ugo Foscolo in amicizia con la “Donna Gentile” Quirina Mocenni Magiotti, che qui possedeva un’abitazione. Originario del luogo fu Sebastiano Sanleolini, genero di Goro da Montebenichi, che ebbe una certa fama quale giureconsulto, letterato e poeta. Un altro Sanleolini, Francesco, fu accademico della Crusca. Entrambi vissero nel XVI secolo.Nei pressi di S. Leolino esisteva una piccola sorgente di acqua perenne che veniva chiamata “Fonte Lattaia”. Secondo la tradizione orale, ad essa erano attribuite proprietà miracolose: bevendo l’acqua di questa sorgente le nutrici vedevano aumentare la secrezione del latte. Le proprietà miracolose di tali acque erano conosciute nel Valdarno, nella Valdambra e perfino nel Chianti, e ciò dava luogo ad un incessante pellegrinaggio verso questa fonte. In realtà si tratta di un luogo di culto delle acque, con una continuità di frequentazione dalla preistoria fino ad oggi, per un periodo di quattromila anni, come testimonia un idoletto, risalente all’età della pietra, qui rinvenuto.

Galatrona
La Torre di Galatrona domina tutto il versante valdarnese e gran parte del crinale dei Monti del Chianti. La parte più visibile di quel che resta del castello di Galatrona, nella quasi totalità ormai rovinato e sommerso dalle erbacce, è la torre di avvistamento, chiamata più semplicemente “il torrione”, situata all’estremità di un lungo sperone roccioso digradante da Monteluco del Chianti. Data la sua posizione strategica, non è difficile indovinare che la collina fu sede di insediamenti molto antichi; alcuni studiosi indicherebbero Galatrona come un toponimo di derivazione etrusca, cioè da Galati. Le tracce murarie tutto intorno alla torre danno per certa la presenza di uno stanziamento tardo-romano. Risalgono infatti a quest’epoca i ritrovamenti ceramici, nonché il recinto di forma ellittica, di quasi due metri di spessore (testimonianza di uno stanziamento difensivo), situato nella parte nord-ovest della collina. nord-ovest della collina.

Nel medioevo il castello faceva parte del Viscontado di Valdambra su cui dominavano i conti Guidi; in seguito, avendo i Guidi richiesto la tutela del Comune di Arezzo, il potere su Galatrona passò ai Tarlati, i quali rimasero signori del castello fino alla conquista fiorentina del Viscontado di Valdambra, avvenuta nel 1335. Una volta acquisito il pieno controllo politico-militare (tramite il pagamento di 3800 fiorini d’oro per rilevare gli ultimi diritti di cui Tarlati e Ubertini ancora godevano su questo territorio), Firenze divise la Valdambra in tre terzieri dotati di propri statuti. Il castello di Galatrona fu aggregato a quelli di Cennina, Bucine, Torre e S. Leolino. Anche Galatrona fu un villaggio fortificato, abitato quasi esclusivamente da contadini e piccoli proprietari. Tracce delle numerose abitazioni (successivamente almeno in parte abbandonate per la di-spersione di non poche famiglie nella campagna circostante) sono ancora ben evidenti nel perimetro interno delle mura. Data l’esiguità dello spazio sul quale sorgevano, esse erano molto piccole e si componevano, al massimo, di due o tre stanze; all’epoca della compilazione del catasto fiorentino del 1427 (si tratta di un vero e proprio censimento generale di tutti i beni mobili e immobili posseduti dagli abitanti del territorio appartenente a Firenze) le case, situate dentro il castello erano una ventina. Nel XVI secolo Galatrona, come del resto tutta la Valdambra, fu coinvolta nella lotta sostenuta dai Medici, alleati con Carlo V contro Siena e il re di Francia. La vittoria degli imperiali decretò, contemporaneamente, la fine della Repubblica senese, che vide passare i propri territori sotto il dominio fiorentino, e la fine delle scorrerie di eserciti nemici in Valdambra. Da allora Galatrona dipese territorialmente da

Bucine
A partire dalla fine del‘700 Galatrona uscì gradatamente dai resoconti di guerra e quindi dalla storia per essere lasciata in balia dei rampicanti. Eppure doveva essere un gran bel castello, con almeno due torri, come viene ricordato in un documento del 1355: una torre vecchia non più esistente, ed una torre nuova che ancora oggi sfida le intemperie. Il complesso, oltre che fungere da punto di avvistamento rispondeva alle esigenze di difesa della popolazione. Secondo i documenti del catasto del 1427 esistevano nel castello circa venti case, ovviamente piccole e di proprietà della fascia di abitanti più abbienti che ne possedevano una anche nel borgo. Oggi dell’antico insediamento si possono individuare tracce di un recinto murario a forma ellittica fatto di grandi blocchi di pietra e qua e là, all‘esterno, tratti di un altra cinta più antica e più spessa. Il torrione è situato sul lato nord delle mura, alla sua sommità si può ancora vedere qualche traccia delle mensole che reggevano il camminamento ed è facilmente individuabile la porta di accesso situata a circa due metri di altezza dalla base. All‘interno sono ancora presenti segni dei solai illuminati da una apertura del tetto crollato. Un lato del torrione è per buona parte coperto da rampicanti. Segni del tempo e dell‘abbandono sono palesi: profonde crepe solcano i lati aperti alla nostra vista, nonostante questo il Torrione ed il complesso circostante emanano un fascino del tutto particolare. Dal 1992 la zona è stata dichiarata “sito di importanza archeologica”.

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