“Se veramente nessuna pietra, nessun seracco, nessun crepaccio sta attendendomi da qualche parte del mondo per fermare la mia corsa, verrà il giorno in cui, vecchio e stanco, saprò trovare la pace tra gli animali e i fiori. Il cerchio si chiuderà e io diventerò il semplice pastore che sognavo di diventare da bambino”
Lionel Terray – “Les conquerans de l’inutile”
Guido fu ammazzato dalle Brigate Rosse il 24 gennaio 1979. Aveva 44 anni.
Drammatico epilogo di una vita nella quale rivolgere il pensiero alla morte sarà venuto più volte ma mai, certo, immaginato così selvaggio, agghiacciante. Rossa è, e rimane, un simbolo della lotta all’eversione, un simbolo contro lo scadere del conflitto sociale nella barbarie, nell’inciviltà. Un argomento al quale i media hanno rivolto, ultimamente, il loro particolare interesse.
Ma non è di ciò che voglio parlare, non tocca a me, alla nostra Rivista. Parlerò invece del Rossa alpinista, l’aspetto che meno traspare dalle cronache degli ultimi mesi e, tuttavia, un aspetto fondamentale della Sua esistenza.
Sinteticamente. Guido Rossa nasce in provincia di Belluno nel 1934, ha circa due anni quando, per necessità di lavoro, la sua famiglia si trasferisce a Torino. Cresce nella tragedia della guerra, presta servizio militare negli alpini paracadutisti ed a 14 anni entra in fabbrica, dapprima in officina, quindi alla Fiat dove ha modo di formare il suo carattere, dove, suo malgrado, impara a fare i conti con una realtà, quella del mondo operaio, che, a proprie spese, decide di affrontare a muso duro, distinguendosi per la determinazione con cui rivendica diritti e valori irrinunciabili dei lavoratori.
Frequenta la Parete dei Militi, in Valle Stretta a Bardonecchia. In breve ripete la Gervasutti di destra, in inverno, e si distingue subito per le sue idee. A 17 anni ripete le due vie di Comici in Lavaredo, quella alla nord della Grande e lo Spigolo Giallo. La cresta sud dell’Aiguille Noire e la Ratti-Vitali alla parete ovest. Nel 1956, sempre alla Parete dei Militi, concatena la Gervasutti (… l’altra, non quella di destra) con la fessura De Albertis e lo spigolo Fornelli. Il tutto in solo tre ore.
Sul finire degli anni Cinquanta sposa Silvia, l’amore più forte della sua vita, nasce Fabio. Silvia è genovese e per un certo periodo, abitando ancora a Torino, accetta uno scomodo pendolarismo. Nel 1961 trova lavoro a Cornigliano, all’Italsider, e può quindi trasferirsi in Liguria. Ma un dramma familiare è alle porte, il piccolo Fabio muore soffocato da una fuga di gas, muore sull’ambulanza che lo porta all’ospedale. Avranno una figlia che chiameranno Sabina.
E’un colpo durissimo ma la passione per l’alpinismo non sembra esaurirsi: Cassin al Badile, Bonatti al Grand Capucin, Tissi alla Torre Venezia, Carlesso alla Torre di Valgrande, Livanos alla Cima Su Alto, Steger al Catinaccio, Graffer al Campanile Basso, Dibona al Croz dell’Altissimo, Hasse alla Roda di Vael, Vinatzer e Soldà alla Marmolada. Tutte, per quanto ne so, con Piero Villaggio e Renato Avanzini.
Nel 1963, a 29 anni, partecipa alla spedizione del CAI Uget di Torino al Langtang Lirung, nell’Himalaya del Nepal. E’ in quest’occasione che subisce un nuovo, duro contraccolpo causato dalla perdita di due amici: Giorgio Rossi e Cesare Volante. “Guido era molto legato a Giorgio e quelle morti lo segnarono in profondità; probabilmente fu l’inizio di una revisione critica sul modo di intendere e di vivere l’alpinismo” (idem). E’, a quanto mi risulta, in questo periodo che Guido viene accolto nel Club Alpino Accademico Italiano (CAAI).
Rossa è alpinista di razza, oserei dire “classico” nelle sue scelte, eppure moderno, sicuramente in anticipo sui tempi, disinibito nei confronti dei vecchi ambienti alpinistici torinesi dove la ricerca del risultato toglieva molto spazio alla fantasia. Scrive Camanni: “Dopo la morte di Giusto Gervasutti nel 1946, l’alpinismo subalpino soffriva di una certa pesantezza: miti, inibizioni, un clima austero da caserma. La scuola intitolata al “Fortissimo”, che faceva capo a Pino Dionisi, insegnava il rigore delle gerarchle. Più tardi sarebbe comparso il forte gruppo di Andrea Mellano, con un’impostazione più disinibita ma pur sempre rispettosa dei canoni tradizionali. In questa impasse, Rossa segnò il momento di rottura, rilanciando l’arrampicata torinese a livelli di avanguardia. La sua fu una piccola rivoluzione silenziosa, in netto anticipo sui tempi, che con piglio sostanzialmente anarchico diede uno scossone alla retorica del riverito Alpinismo. Ma pochissimi se ne sono accorti” (Enrico Camanni – Nuovi Mattini, il singolare sessantotto degli alpinisti – pag.169 – Edizioni Vivalda).
Grazie a particolari bulloni, presi alla Fiat, realizza primordiali chiodi a pressione – anche da questo la sua modernità – con i quali sarà il primo a chiodare le vicine
palestre. Soprattutto Rocca Sbarua, la palestra dei torinesi, dove, peraltro, sale slegato la Gervasutti in giacca e cravatta. Una via classica che siamo in molti a ricordare per lo splendido diedro d’uscita.
Come ricorda Gian Piero Motti nella sua “Storia dell’Alpinismo”, molti furono coloro che, insieme a Rossa, dettero un forte contributo al rinnovamento alpinistico di un ambiente, quello torinese, fin troppo ubbidiente alla tradizione. Fra costoro Corradino Rabbi, Giorgio Rossi, Marco May, Giuseppe Dionisi, Piero Fornelli. Splendida gente che aprì la strada ad alcuni giovani torinesi che si sarebbero poi affermati e distinti fra i migliori: negli anni ’60 Andrea Mellano e successivamente Giancarlo Grassi, Ugo Manera, lo stesso Gian Piero Motti che, per quanto milanese, era da molti anni trapiantato a Torino.
Nel pieno della sua formazione alpinistica partecipa “non si sa perché, […] al corso per Istruttori Nazionali. Sul terreno fu perfetto ma al colloquio finale, davanti a Riccardo Cassin, dichiarò alla commissione: «A me delle scuole non frega niente.» Era un anticipo del Nuovo Mattino” (E. Camanni – idem).
Effettua, con Ottavio Bastentra, un tentativo alla parete sud della Punta Welzenbach ed un tentativo di prima invernale, con May, alla cresta sud dell’Aiguille Noire de Peuterey. Nel suo curriculum anche la parete sud del Dente del Gigante (con Dino Rabbi) e la Rabbi (sembra un gioco di parole) alla parete nord del Corno Stella.
Con sempre maggior vigore si fa, tuttavia, strada in Rossa un’attenzione particolare per i deboli, per i bisognosi. E lo farà con la stessa passione, con la stessa determinazione che metteva in parete. Ricorda Gian Piero Motti: “ … fissandomi con quegli occhi che ti scavano dentro e ti bruciano l’anima, con quella sua voce calma e posata mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna invece nutrire aItri interessi nobili e positivi”.
A conferma di ciò, in una lettera scritta a Bastentra nel febbraio 1970 formula, un’opinione che non può passare inosservata, spiegherò poi perché. Scrive:“Da ormai parecchi anni, mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici che mi sono vicini l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza […] che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti, sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile, il nostro coraggio, per poi raggiungere (meritato premio) un paradiso di vette pulite, perfette e scintillanti di netta concezione tolemaica, dove per un attimo o per sempre possiamo dimenticare di essere gli abitanti di un mondo colmo di soprusi e di ingiustizie […]. Per questo penso, anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro”.
Concetto che richiede un breve approfondimento. Lionel Terray, uno dei più formidabili alpinisti del dopoguerra, morto a 44 anni come Rossa, ha scritto un libro indimenticabile, entrato, a ragione, nell’olimpo della letteratura di montagna; questo libro si chiama “I conquistatori dell’inutile”. Leggendolo, non si impiega molto a capire, fra le pagine, quanto l’inutilità dell’alpinismo sia figlia della solitudine e quanto la solitudine sia la chiave che apre alla scoperta dei propri limiti, pur nella superiorità dei gesti, alla scoperta del fragile gusto della conquista. E’ un concetto ripreso da taluni alpinisti, molti di questi di grande talento. Persone che avvertivano di dover denunciare, nell’anarchia delle loro passioni, una necessità non più irrinunciabile. Persone che avvertivano la necessità di “scendere” a valle, fra gli uomini, chiudere con un mondo a misura che appaga soltanto per il superamento delle difficoltà oggettive della parete ma che tende, in virtù dell’impegno richiesto, a nascondere i problemi della vita quotidiana, a limitare la ricerca di confronto con un mondo esterno dove l’alpinismo non può essere considerato uno strumento di crescita comune. Una corrente di pensiero che influenzò molto Gian Piero Motti, ma anche Gary Hemming, indimenticato protagonista di alcune formidabili imprese nel Gruppo del Bianco. “Ogni credo, anche l’alpinismo, deve fare i conti con una nuova scala di valori. Rossa è l’interprete più sensibile di questa radicale trasformazione, anche se – ormai lontano dalla scena dell’arrampicata torinese – sarà solo un casuale riferimento per gli smarriti protagonisti del Nuovo Mattino” (E. Camanni – idem).
L’impegno di Rossa nella CGIL e nel P.C.I. non subì soste. Si impegnò con caparbietà e passione pur mantenendo quell’anarchia di fondo che sempre lo distinse anche nell’alpinismo. Il resto è noto, casualmente scopre un compagno di fabbrica a distribuire volantini eversivi. Fedele alle filosofie più volte espresse (“Di qua non si passa”) lo denuncia entrando nel mirino delle Brigate Rosse. Non modifica il suo stile di vita, nasconde le sue paure senza mai pentirsi della sua scelta. Nel 1978 all’annuale riunione del Club Alpino Accademico, al Monte dei Cappuccini, confessa ad un amico il sospetto che qualcosa si stia muovendo, che sia in atto un piano per “farlo fuori”. Non chiese aiuto, andò avanti con il consueto coraggio e con la medesima severità che poneva in montagna.
Il 24 gennaio 1979, è mattina presto. Guido esce di casa, getta la spazzatura nel cassonetto, come fa tutte le mattine, apre lo sportello della macchina, fa appena a tempo ad entrare dentro in un disperato tentativo di fuga. Forse alla ricerca di una disperata ricerca di pietà. Tutto sarà inutile.
Enrico Camanni, amaramente commenterà:
“Forse solo gli alpinisti non si accorsero di nulla, perché da tempo Guido non era più uno dei loro”.
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