“Un racconto di montagna” di Lelia Farini Nigrisoli

Maggio 2009

Una breve premessa:

Io e Lelia ci conosciamo da anni. Non abbiamo mai avuto una frequentazione alpinistica, è vero, eppure il fatto di incontrarci a Maiano, talvolta in improbabili, afosi pomeriggi primaverili, talvolta in algide mattine invernali, non ci ha impedito di coltivare un buon rapporto di amicizia e maturare un buon legame di reciproco rispetto.
La storia di questo racconto nasce da una foto, mostratami da Lelia poco tempo fa, che la ritrae sulla cima dell’Aiguille del Moine. Una foto simile al famoso scatto di Claudio Barbier e Anna Lauwaert dei quali ho parlato nella scorsa rivista.
Lelia, ma voglio nominare anche Milena Masini con Lei, sono giovani ragazze, tradite solo dall’argento dei loro capelli. Fanno ambedue parte di quella ristretta cerchia di padri, e madri nobili dell’alpinismo fiorentino che interpretano la Montagna con la passione dei Bafile, dei Dolfi, dei Melucci, degli Zaccaria e molti altri. Fanno parte di quella ristretta cerchia di entusiasti dai quali, i più giovani soprattutto, hanno molto da imparare.
Nel tempo delle scontate “performance”, Lelia e tutti coloro che ho appena nominato, hanno mantenuto quel poetico, straordinario profilo che, a mio modo di vedere, rende l’alpinismo: l’alpinismo.

Lelia sulla vetta dell’Aiguille du Moine (foto C. Chatillard)

Per questo Vi invito a leggere con attenzione questo contributo, un contributo nel quale affiora anche la profonda devozione religiosa di Lelia ma soprattutto l’aspetto squisitamente alpinistico. Vi prego di leggerlo con l’attenzione richiesta  a coloro che meritano un posto di rilievo nel nostro formidabile retaggio alpinistico.

R. Masoni
Aiguille du Moine (mt. 3.412), cresta sud
Il Rifugio del Couvercle (m. 2687) si trova in Francia nel gruppo del Monte Bianco, nel mezzo della più bella cerchia di montagne delle Alpi, una decina delle quali supera i 4000 metri e sovrasta i più grandi ghiacciai. Il nome è dovuto al fatto che il vecchio rifugio, che è distante 50 metri dal nuovo, fu costruito sotto una grande lastra di roccia che lo copre proprio come un coperchio. Lo si raggiunge da Chamonix, bella cittadina a 1000 metri di altezza ai piedi del M. Bianco, con cremagliera fino a Montenvers, poi scale di ferro, ghiacciaio, altre scale di ferro e sentiero: il tragitto non è ne breve ne semplice, ma vale la pena, perché lo spettacolo che si ammira intorno è indescrivibile per grandiosità e bellezza.
L’Aiguille du Moine s’innalza dietro al Couvercle con pareti e creste di magnifico granito; per anni ho desiderato compierne l’ascensione, senza essermi mai decisa, anche perché ero più attirata dalle vette superiori a 4000 metri. L’estate scorsa mi sono consigliata con Corrado Chatillard e Allain Kofler, due giovani guide di Cervinia, che mi hanno detto non conoscere questa zona; ma io conosco le loro eccellenti capacità in roccia e, ricevuto il loro assenso, partiamo per il Couvercle; è una bella giornata ed è il compleanno della Madonna. Spero davvero domani di farle il regalo di portarla sulla vetta del Moine per la cresta sud! Il gestore del rifugio ci mette a dormire con due giovani inglesi che hanno la nostra stessa intenzione. Colazione alle 3,30 e partenza subito dopo. Percorriamo un sentiero, poi un ghiacciaio ripido, che viene chiamato nevaio del Moine; è già giorno quando siamo all’attacco della roccia. Gli inglesi sono poco avanti a noi, ma dopo il primo tiro di corda capiamo che, forse a causa delle difficoltà, hanno rinunciato alla cresta sud e proseguono sulla via normale. Dico a Corrado che anch’io mi contenterei della via normale; lui invece non si contenta proprio! Mentre aspetto con Allain, lo vedo fare un paio di tentativi, a diritto e a sinistra, per trovare la strada migliore, infine punta deciso nuovamente a sinistra in direzione della cresta e, attrezzata la sosta, ci fa cenno di raggiungerlo. Io non protesto: in fondo in fondo mi sarebbe dispiaciuto ripiegare sulla via normale, più facile ma meno interessante.
Con una lunga serie di tiri di corda superiamo camini, diedri (sono due pareti che incontrandosi formano un angolo), salti e cenge (sono rampe che tagliano le pareti in diagonale). Nei passaggi troppo alti per me Allain, che mi segue da vicino, mi aiuta sollevandomi un piede con le mani. Dopo cinque ore che abbiamo lasciato il rifugio, arriviamo alla cresta, al di sotto di un caratteristico torrione a forma di martello. Ci si apre un bellissimo panorama sul Monte Bianco, ma sulla sua vetta c’è una nube a forma di pesce, che indica cattivo tempo entro poche ore; inoltre c’investe un forte vento che conferma i nostri timori.

Al centro della foto l'Aiguille du Moine

Le difficoltà aumentano: si deve arrampicare un po’ sul versante ovest e un po’ su quello est, scavalcando spesso il filo di cresta; i passaggi più difficili sono sul lato ovest, che oltre tutto è ancora in ombra, c’è neve nei tratti meno verticali e fa freddo. Ora Allain è capocordata e dimostra un gran senso della montagna: non è facile trovare la via giusta, ma lui non sbaglia un passo! Corrado mi sta vicino e mi aiuta dove non arrivo agli appigli: a volte mi fa mettere un piede sulla sua spalla e si rizza su alzandomi di peso, come se fossi in ascensore. E la vecchia tecnica della “piramide umana”, che torna utile per me che sono piccola di statura e non più agile come in gioventù.

Le guide si fermano un momento a consultare una relazione della via in francese: vi si parla di un “pas penible”, cioè “passo penoso” e commentano la frase con una risatina ironica, come per smorzarne la drammaticità. In effetti non è facile; però ci sono due chiodi, ad uno dei quali è appeso un cordino ad anello. Corrado mi fa mettere un piede su un suo ginocchio a mo’ di gradino, infilo l’altro nel cordino e riesco a passare, per un poco siamo a est al sole; una breve discesa e risaliamo un camino che ci riporta a ovest. Qui le guide mi assicurano con la corda a un masso e mi ordinano di non muovermi finché non mi chiameranno; ne approfitto per riposarmi e pregare chiedendo forza dall’alto, perché comincio ad essere stanca. So che ormai non si può più tornare indietro o a prezzo di manovre complicate; vedo la cima ancora lontana, ma bisogna comunque arrivarci.
Passano decine di minuti, forse mezz’ora e tutto tace: chiedo a gran voce se c’è qualche problema e Corrado mogio mogio mi risponde: «E duro!». Infine mi chiama e lo raggiungo camminando su di una cengia orizzontale sospesa su profondi abissi. Allain è già in alto a metà di un diedro difficile e solcato da una fessura, dove per sicurezza ha piazzato alcuni “friends” (attrezzi formati da piccole mezze rotelle che, azionate da una molla, s’incastrano nelle fessure e a cui si aggancia la corda con un moschettone). Corrado mi fa salire sulle sue spalle, solita “piramide umana”, ma dopo i quasi due metri della sua statura, devo continuare da sola. Non trovo appigli né per le mani né per i piedi ed i friends con i moschettoni sono altissimi, fuori della mia portata. Lotto per un po’ senza successo, poi sarà la forza della disperazione, saranno gli Angeli che mi sollevano, riesco non so come ad arrivare fino ad Allain. Ammiro Corrado che invece se la cava elegantemente. Il dietro prosegue meno difficile ma sempre impegnativo. C’è una grande scaglia di roccia staccata di poco dalla parete e dobbiamo salire tra le due, strisciando come serpenti e cercando di non rimanere incastrati. A questo scopo le guide lasciano giù i loro grossi zaini e, quando sono giunti alla sosta, li tirano su con la corda. Come sono veloci nel compiere queste manovre!
Torniamo, e sembra definitivamente, sul lato est della montagna dove fa meno freddo, anche se ormai il sole è sparito dietro spesse nubi. Questa parte dell’ascensione è più facile, per cui arrampichiamo di conserva senza soste: così il mio respiro si fa ancor più affannoso e mi fa soffrire molto; ma Allain all’improvviso, quando meno me lo aspetto, balza veloce avanti e da sopra un masso grida: «Vettaaa!». Sono le 15; il tempo di dire una preghiera, mentre Corrado cerca un posto tra le rocce per l’immagine della Madonna del Rosario di S. Donato e del Roseto Perpetuo fondato da Don Mario, a cui rivolgo un pensiero d’immensa gratitudine. Subito ci affrettiamo giù per la discesa sulla via normale, perché comincia a piovere. Arriviamo al rifugio alle 19, prima dei giovani inglesi, con una certa soddisfazione delle mie guide. Il gestore ci dice che da 25 anni è lì e non ha mai visto ne sentito di qualcuno della mia età che abbia scalato la cresta sud del Moine. Tutto sia a gloria di Dio Onnipotente e ad onore delle Guide Corrado Chatillard e Allain Kofler.
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