“Il Mugello” di Giuliano Pierallini

Annuario 2007

Cafaggiolo (da mugellotoscana.it)

“Io so dove fiorisce l’asfodelo, là nel chiaro Mugello” (Gabriele D’Annunzio)

Fra i territori che circondano il capoluogo fiorentino, che ne hanno accompagnato la storia, ne hanno, allo stesso tempo, assimilato l’arte e contribuito ad illustrarla …di preziosi episodi, hanno trattenuto, più di tanti altri siti, folclore e tradizioni altrimenti destinati a scomparire, rappresentando con maggior pregnanza quel paesaggio preappenninico, cosi tipico della nostra Regione, senza ombra di dubbio è da considerarsi il Mugello. In quest’ulteriore contributo che la Redazione ha deciso di portare alla conoscenza di ciò che è più vicino, cercherò di parlarne senza alcuna pretesa organica, saltabeccando qua e là, proprio come le galline mugellesi, alla ricerca di fatti, testimonianze, ricordi che, di tanto in tanto, penso, sia opportuno riprendere a favore di chi, troppo giovane, non li conosca e di chi, superata la mezz’età, abbia il piacere di riviverli.

Ritengo opportuno dare qualche breve cenno circa la zona che considero giustamente assimilabile a questo tipo d’intervento, violando forse alcune distinzioni geografiche, ma comprendendo quelle “estremità’’ che si ritrovano naturalmente nella più generale civiltà di questa terra. Mi pare che nei Comuni del Mugello Orientale (Dicomano, San Godenzo, Londa), Centrale (Borgo San Lorenzo, Vicchio), Occidentale (Vaglia, San Piero a Sieve, Barberino e Scarperia), della Val di Sieve (Rufina, Pelago, Pontassieve) ed in quello dell’Alto Mugello (Firenzuola), la stessa area presa in considerazione anche dal Righini, dal Becattini e dal Granchi, risieda quell’essenza che più compiutamente rappresenti le vicende, gli uomini, la cultura in generale, il mondo del quale vorrei provarmi a far rivivere qualche segno. Terra che, a buon diritto, viene richiamata in una Rivista di montagna, quella della nostra Sezione che ripetutamente, da sempre, vi svolge un’intensa attività escursionistica e di conoscenza generale, ritenendola degna della scoperta e della valorizzazione delle proprie preziosità, che non sono contraddistinte da altezze imponenti, da scenari selvaggi, da vedute mozzafiato ma, più propriamente, dalla dolcezza delle verdi giogaie, da vedute di laboriosa operosità, da quadretti limitati, quasi delle miniature, ma non per questo meno affascinanti da conservare nella memoria. Va altresì ricordato che un Gruppo importante di nostri Soci vi opera da tempo, contribuendo, nel migliore dei modi, alla conservazione del territorio, al mantenimento della sentieristica, a tener vivo il desiderio di ritrovarvisi per gustarne l’essenza profondamente toscana.

Un’immagine da satellite ci fornisce, meglio di tante circonlocuzioni, la distribuzione montana, quella che a noi più interessa, dell’intero comprensorio. Partendo da sud, si estende una fascia più importante che va dai Monti della Calvana al Monte Falterona, più imponente nella parte centrale, più difforme e spezzettata nell’estensione a nord dell’Arno. Al centro trovasi la grande depressione della Sieve e ora di Bilancino, il Mugello propriamente detto, antico bacino dello specchio lacustre di origine pliocenica (circa cinque milioni di anni fa). Quindi la zona settentrionale, più propriamente appenninica, che fa riferimento ai Passi della Futa, del Giogo, della Colla, del Muraglione, spartiacque fra i torrenti che si gettano nella Sieve e quelli che, attraverso la Romagna solatia, scendono al mare Adriatico. Un territorio oggi ridente, godibile, pieno di attrattive facilmente raggiungibili dalle molte e ben tenute strade ma certamente, un tempo, quando, oltre a tutto, le stagioni erano assai più inclementi, tanto più difficile da vivere, sepolto, in buona parte, per mesi, dalla neve, privo, sino all’ultima guerra, di agevoli collegamenti interni, sostenuto da un’economia prettamente contadina, largamente abbandonato negli anni ‘50/’60 del boom economico, afflitto a tutt’oggi dal pendolarismo, eppure riserva di eccezionali risorse umane, come si può notare gettando uno sguardo a ritroso, sfogliando il grande libro della Storia.

Pievi, Badie, Conventi, Oratori, insieme a rovine più o meno fatiscenti, ci parlano di una spiritualità più che millenaria, cosi come Torri, Castelli, Palagi, Mura, ci ricordano secoli difficili, quando la vita stessa era un bene precario. Ciò nonostante, alte menti e uomini d’intensa passione, pur nelle difficoltà, seppero elevarsi oltre il quotidiano, lasciando testimonianze di valore assoluto, contribuendo validamente alla ricchezza di questa Toscana che non finisce di stupire il mondo, che noi contribuiamo così superficialmente a salvaguardare.

Il toponimo DICOMANO non ha origine certa, chi lo vuol far derivare dal romano Decumano, uno dei due assi viari ortogonali dell’insediamento, l’altro era il Castro; chi lo associa al nome del torrente Comano che lo interseca. Quale ne sia la provenienza, l’origine romana è comunque accertata e confermata dal ritrovamento, nel 1730, di alcune sepolture cristiane del IV sec., di varie monete della Repubblica e dell’Impero. La perla del paese è la Pieve di S. Maria, di asciutto stile romanico, risalente, insieme al tozzo campanile, al XIV sec. nel suo aspetto attuale, ma datata, negli annali, al 1136 e probabilmente anteriore al 1000, eccelle per una tavola robbiana e per un dipinto del Vasari, oltre che per la compiutezza severa dell’insieme che invita al silenzio, al raccoglimento, alla preghiera. In questa zona ebbero il loro dominio i Conti Guidi che, insieme agli Ubaldini, ebbero a spartirsi la maggior parte dei territori mugellani; le nobili famiglie Delle Pozze e Vivai vantano qui le proprie origini, insieme ad altre, anche famose, poi trasferitesi e note per aver illustrato, nei commerci o nell’attività finanziaria, la splendida storia fiorentina. I rilievi più importanti del territorio comunale sono il Giogo di Corella (m.1.135) ed il Monte Peschiera (m.1.198). Risalendo la statale forlivese verso il Passo del Muraglione, s’incontra SAN GODENZO, tipico borgo di media montagna, immerso fra i castagneti, stretto intorno a Piazza della Fonte ove si affaccia il Palazzo dei Conti Guidi, ove pare vi soggiornasse anche Dante, che insieme a Garibaldi lo si vuole un po’ dappertutto, nel loro inquieto e

San Godenzo

doloroso vagabondare. I Guidi lo ebbero fra i loro innumerevoli pos-sedimenti, giunti nel periodo di massimo splendore, secondo alcune ricostruzioni sto-riche, alla cospicua cifra di 120. Prospetta pure nello slargo, su di un rilievo porticato da cui si diparte un’invitante scalinata, la celebre Abbazia di San Godenzo in Alpe, famosa per essere la gemella minore del San Miniato fiorentino, anteriore all’813, pur se certificata al 1029. La presenza ricorrente dei Guidi è testimone di una continuità storica che ha lasciato tracce indelebili sia nel Mugello che in Casentino, attraverso i vari rami della famiglia. Brilla ancora vivissima la figura di Godenzo, ascetico eremita, che fece, di quei luoghi remoti, un punto di riferimento, grazie alla tenace opera pastorale. Nel coro dell’Abbazia, pare si riunisse, insieme all’Ordelaffi, al Cerchi e all’Ubaldini, il già citato e onnipresente Alighieri, per concertare un estremo tentativo di rivalsa nei confronti dell’ingrata Firenze, cospirazione poi abortita che apriva la strada al triste, solitario, definitivo esilio. Altre famiglie illustri che diedero lustro al contado furono i Del Campana ed i Puccini. Il paesaggio è uno dei più mossi della zona presa in esame; lungo le aspre giogaie, che si aprono per far posto all’Alpe di San Godenzo, dobbiamo ricordare cime a noi familiarissime come il Monte Falterona (m. 1.654) e il Monte Falco (m. 1.657), mete di ripetute escursioni singole e sezionali, nonché di intensi raduni annuali. Spiace dover rimarcare il perdurante silenzio circa il ripristino dello storico Rifugio Dante verso il quale, in due giornate d’intenso cammino, i coraggiosi Soci fiorentini dell’800 si incamminavano baldanzosi, come testimoniato da una vivace ristampa della nostra Sottosezione di Stia. “La bella addormentata”, la strada che dalla Val di Sieve porta in Casentino attraverso il valico di Croce a Mori, progettata nel 1870 e terminata solo nel secondo dopoguerra, ha vivacizzato gli scambi, soprattutto commerciali, fra i due comprensori ed attivato un certo flusso turistico che da LONDA punta soprattutto verso le due valli formate dai torrenti Moscia e Rincine all’ombra dell’imponente mole del Falterona che, pur decurtato dalla rovinosa, medioevale frana, resta pur sempre, dando i natali all’Arno, incontrovertibile punto di riferimento. In questo contesto il borgo di indubbia origine etrusca, come testimoniano eccezionali ritrovamenti, fra i quali una necropoli del II sec. a.C., poi tributario dell’esperienza romana, è custode di un’antica storia; una tradizione popolare ricorda che il cartaginese Annibale, altro illustre personaggio, sovente tirato per la giacca, sarebbe, dal Mugello, di qui transitato per recarsi nell’aretino.

Londa nasce per intendimento del Granduca Pietro Leopoldo, il quale volle riunire le cinque storiche circoscrizioni feudali sotto l’egida di un Podestà. Le testimonianze artistiche più importanti non si trovano nel Comune ma bensì, circa quattrocento metri più in alto, ove sorgono gli avanzi della Rocca di San Leolino e soprattutto l’omonima Pieve, cui si aggiunge l’attribuzione “in monte”, duecentesca, splendida testimonianza del romanico, uno degli esempi più compiuti dell’intero Mugello, nella classica versione triabsidata; in un punto imprecisato, dietro il coro, dovrebbe esser sepolto il corpo del Santo, decapitato durante la persecuzione romana. Di questa zona furono esponenti maggiori le famiglie Calderai, Guadagni, Baglioni, Rosselli, nomi noti anche nel capoluogo fiorentino. Per quanto riguarda l’aspetto paesaggistico, indubbiamente assai mosso, questo raggiunge la massima altitudine con il Monte Acuto (m.1.148) che, anche nel toponimo, rammenta lo scoscendimento di questi versanti tristemente noti per frane e devastazioni torrentizie. C’è più di un motivo che ha consentito a BORGO SAN LORENZO di diventare il centro più importante e rappresentativo del Mugello, in primis la posizione territoriale centrale, poi la collocazione sulla Sieve, il corso d’acqua più importante, quindi la sorte di trovarsi in pianura ove strade e scambi risultano più agevoli e, del pari, la produttività agricola; tutto questo naturalmente da quando è venuta meno, per ragioni storiche, l’esigenza di protezione dei nuclei urbani che, in passato, vedevano privilegiati i luoghi più elevati e conseguentemente difendibili con maggior facilità. Le origini del nucleo formativo parlano romano: quindi a far data, grosso modo, dal X sec. furono gli Ubaldini a dare la maggior impronta al processo delle istituzioni, anche se il potere religioso fiorentino, che arrivava sin qui, aveva buon gioco nel contrapporsi ai Signori locali, un pò meno negli sparsi comprensori montani, tutto ciò sino a quando, la Repubblica Fiorentina, si sostituì decisamente nel controllo territoriale.

Il Principato e l’avvento dei Medici, di ben nota origine mugellana, se dettero gran lustro a Firenze, facendone a tratti una stella di prima grandezza nel firmamento allora conosciuto, non altrettanto giovarono al Mugello del quale, i Signori ormai fiorentini, mostrarono di essere dimentichi, pur mantenendo nella loro ascesa, quel sano buon senso contadino che fu sempre una delle loro migliori virtù. Il momento più critico, Borgo San Lorenzo lo conobbe nel 1527 quando, del centro, vennero ad impadronirsi le truppe spagnole che assediavano Firenze e, resistendo ancora Vicchio, si trovò a divenire un campo trincerato di occupazione al soldo degli invasori, sin quando, ripristinatisi i precedenti equilibri, tornati nuovamente i Medici, poté iniziare quel corso di crescita stabile che ne ha assicurato l’espansione ed affidato il ruolo di guida, facendone un punto di riferimento per tutto il territorio. Spicca, nella veduta cittadina, la sagoma austera e inconfondibile della vecchia Torre Longobarda, a pianta poligona irregolare, che mostra, oltre i modesti spazi, ove si trova contenuta, la doppia fila di aperture di cui, quella inferiore, impreziosita da leggiadre bifore che addolciscono, non poco, il peso visivo della massiccia costruzione petrosa. Lunga è la storia della Pieve di San Lorenzo, il Santo che ha dato il nome al Borgo: i primi convertiti romani, sul luogo ove sorgeva un tempio dedicato a Bacco, pare abbiano edificato la prima modesta ecclesia, altri attribuiscono ad Ambrogio, vescovo di Milano, in occasione della consacrazione della laurenziana chiesa fiorentina, l’iniziativa mugellana. La vera storia data agli albori del 1000 per un più compiuto assetto, seguito da consolidamenti e interventi vari succedutisi fra il XIII e il XVII secolo, un crocefisso ligneo del‘500 probabilmente l’opera più rappresentativa ma, nel complesso, l’ambiente accoglie un insieme di opere d’indiscusso valore artistico.

I rilievi più alti del Comune si ritrovano alle sorgenti del torrente Rovigo (intorno ai 1.000 metri) in un ambiente contraddistinto dal gioco di luci ed ombre della copertura boscosa che si uniscono al baluginare dei riflessi del modesto rivo che muove argentino attraverso i primi tratti, fra ciottoli e cascatelle. Insieme ai citati Ubaldini e Medici, i Giraldi, gli Albizi e i Falcucci furono le famiglie che più illustrarono la vita borghigiana, insieme ai signori di Lutiano, il cui palagio data al 1095. Se Borgo gode fama riconosciuta di centro propulsore dell’intero Mugello, è VICCHIO, almeno a mio parere, che accende l’interesse culturale per una sorta di magia ed insieme di fortuna, quella di aver dato i natali, nella limitrofa frazione di Vespignano, al più innovatore dei pittori italiani, a quel Giotto figlio di Bondone, la cui casa è meta continua di pellegrinaggio, per il fascino emanato da quella semplice casa turrita che ebbe a colpire anche l’animo burbero e sensibile del Carducci che qui trovò ispirazione per alcune sue liriche. E insieme con Giotto va ricordato Cimabue, di lui maestro, del quale non si conoscono esattamente le origini, ma ci piace immaginarlo, come proposto in certe stampe popolari ormai datate, di passaggio pei campi, chino sul giovane che traccia, nel nudo sasso, segni di rara maestria, un presagio di quell’esplosione espressiva che segnerà il vero rinnovamento della pittura italiana. Niente è più probabile comunque che i due fossero conterranei e per di più vicini, lo lascerebbe supporre la contiguità espressiva ed il naturale passaggio che va dal superamento della fissità bizantina alla individuata libertà della figura umana, libera di spaziare e di esprimersi. Vicchio, o Vico come si chiamava inizialmente, nasce su due direttrici che costeggiano la Sieve, un tempo collegate da un unico ponte poi, crescendo il borgo, unite da ulteriori attraversamenti che rendevano la viabilità del territorio più agevole, favorendo gli scambi ed alleviando l’isolamento delle frazioni montane. Siamo agli inizi del ‘300, ai possedimenti dei Fighinolfi subentrano i ben noti Guidi, poi la Repubblica Fiorentina ne fa un caposaldo avanzato, il nucleo abitativo si da delle regole che sono scritte da Coluccio Salutati, cancelliere fiorentino, il quale svolge, praticamente in tutto il territorio mugellano, una preziosa opera istituzionale, dando un assetto definitivo alle incerte istanze politiche, in un contesto, fino ad allora, di semplice natura agreste. Proprio parlando di Vicchio apriamo una breve parentesi dedicata alla ben nota sismicità di queste zone interessate da almeno tre grandi cataclismi, uno nel 1542, uno nel 1798, l’ultimo nel 1919, forse ricordato da qualche persona centenaria. Proprio in questo paese, probabilmente per combinazioni geologiche, si ebbero a registrare le conseguenze più rovinose, in particolare dopo il primo, storicamente parlando, quando ai crolli ed alle dolorose conseguenze, fece seguito una grande carestia e, quel che è peggio, una devastante pestilenza, cosa peraltro non nuova, almeno sino a quando, con l’Illuminismo, non si iniziarono a prendere in considerazione regole più scientifiche circa la prevenzione e la profilassi. Il Castello a pianta esagonale, costruito dalla Repubblica Fiorentina, come baluardo difensivo a settentrione e Piazza Giotto, spazio centrale dell’abitato ove affacciano gli edifici più prestigiosi, il Palazzo del Podestà, ora Municipio, i Palazzi Fabbrini, Baldocci e Santoni, dai nomi delle famiglie più rappresentative della storia urbana, sono evenienze assai importanti. Poco lungi dalla piazza, in Via Garibaldi, a conferma dell’importanza che il piccolo agglomerato ebbe nella Storia dell’Arte, vide i natali Guido di Pietro, più noto come il Beato Angelico, il celeberrimo affrescatore del fiorentino Convento di San Marco. Sotto le alture del Poggio al Tiglio (m.1.111), Giogo di Villore (m.1.072), Monte Giovi (m.992), si stende un vasto territorio costellato da numerosissime, interessanti frazioni, fra le quali mi

Barbiana (da www.didaweb.net)

piace ricordare: Ampinana con la sua Pieve, Barbiana per il ricordo di Don Milani, Rostolena, Vezzano, Villore, tutte località che i nostri passi ben conoscono, specialmente a inizio di Primavera, quando le gemme esplodono sugli alberi e la più intensa luce scaccia le tristezze invernali; si tratta di semplici camminate o talora di vere e proprie escursioni che abbinano al benessere fisico e mentale la passione per questi angoli di pregnante cultura. Dei comuni occidentali, quello di VAGLIA è sicuramente quello circondato dai monti meno imponenti, nessuno dei quali supera i 1.000 metri: Monte Morello (m.929), Montesenario (m.815), Monte Gennaro (m.670), siamo ad altezze indubbiamente modeste, ma non altrettanto marginale è l’importanza che il Morello, l’asperità delle Tre Punte, riveste per i mugellani e soprattutto per i fiorentini che la considerano, di necessità, la loro montagna per tener sciolta la gamba e per la classica boccata d’aria quando in città si boccheggia per l’umidità ed il caldo. Diverso e più importante è il discorso per quanto riguarda il Santuario di Montesenario (nome che deriva probabilmente da sei piccole alture limitrofe ove sorgeva un Castello degli Ubaldini), fondato dai Sette Santi Fiorentini che, nelle grotte adiacenti, vissero in mistica giunte successive sino alla soglia del‘900, vide sul prato antistante, quando le tradizioni costituivano ancora un valore da conservare, per l’Ascensione ed il 15 Agosto, da Firenze e dal Mugello, convergere le genti per dar vita a scampagnate, canti, maggiolate, stornelli, consuetudini che abbiamo abbandonato per legarci ad altre sul cui valore ci sarebbe molto da dire. Il paese di Vaglia, ad eccezione della Chiesa di San Pietro, non si fa notare per particolari evenienze artistiche, pur se, all’interno del luogo di culto, in un lontano passato, dovevansi annoverare alcuni lavori robbiani e quadri di un certo valore, come testimoniano gli Annali. La Pieve era antecedente al 1000, più o meno coeva del Castello, dominio del Podestà Vescovile fiorentino. Fra le famiglie più significative che hanno illustrato la storia del Comune ricordiamo, i Cerretani, i Corsini, i Pitti, i Gaddi, ed in questi nomi si è pure specchiata la Firenze attiva dell’epoca, confermando quel travaso fra campagna e città che è stata una delle ricchezze principali del capoluogo e della Toscana tutta. Ancora più modestamente collinare è il Comune di SAN PIERO A SIEVE, i cui rilievi non superano i 600 metri (Poggio Scandalone m. 581 Trebbio m.451, Spugnole m.441), caratteristica che trova largo compenso sia nelle ricchezze artistiche del capoluogo che in quelle delle frazioni limitrofe. L’origine del paese è, senza ombra di dubbio, antichissima, l’illustre Repetti cita la prima nota scritta risalente al 1018, quando ancora si chiamava Villa, nome poi mutato nel XIII sec.; risulta essere uno dei più medicei comuni mugellani, nel quale “i Magnifici”

San Piero a Sieve (da www.tvteleitalia.eu)

ebbero il controllo di più Pievi, Castelli e Rocche, nonché di splendide ville poi passate in possesso di famiglie illustri di successiva stanza. Nel 1569 Cosimo dè Medici avviò il grandioso progetto per la realizzazione dell’immensa Fortezza di San Martino, seconda solo alla Fortezza fiorentina, su progetto del Buontalenti, architetto ufficiale della Casa, sommo baluardo posto sulla strada da nord verso il capoluogo, dotato dei più vari accorgimenti che ne garantissero l’autosufficienza e la resistenza a un assedio prolungato. Il Granduca Leopoldo I di Lorena, nel 1774, costatando che i tempi erano cambiati, giustamente ritirò il Presidio, era notoriamente allergico alle spese, ma abbandonò stranamente del tutto la costruzione che vide la conversione ad uso civile. Di fatto, questo storico, mirabile monumento, fu abbandonato e subì l’ovvio degrado che la protratta incuria comporta sino ad arrivare ai nostri giorni che vedono la vegetazione infestante dominare quella che fu una piazzaforte ammirata e temuta.

Gioiello della località era e rimane la Pieve di San Piero, una delle costruzioni più unitarie e significative dell’intero Mugello, malgrado i numerosi interventi succedutisi nei secoli, a partire da quel 1018, come testimoniano gli Annali, quando i Medici ne assicurarono la fondazione, la dotarono di un ricco patrimonio, rimanendone per secoli i proprietari, fra i vari pievani, che nel tempo ne ressero le sorti, vi fu anche il futuro Leone X, un Medici che peraltro giocava in casa. Romanica, a tre navate di quattro pilastri ognuna, cinque arcate a tutto sesto, possiede forse il più bel fonte battesimale creato dell’arte di Luca della Robbia, nella vasca esagonale circondata da sei formelle, si possono leggere episodi della vita di San Giovanni Battista; a fronte di questa superba creazione, ogni altra opera, pur di prestigio, contenuta all’interno, appare di ordinaria amministrazione. Nei dintorni dell’abitato in cima ad un poggio contornato da toscanissimi cipressi, occhieggia l’alta torre del Castello del Trebbio. Costruito da Cosimo I nel 1461, su progetto di Michelozzo, ancora più del Buontalenti caro ai Medici; casa di villeggiatura dei Signori, ospitò nel 1476 il giovane Amerigo Vespucci durante l’infuriare della peste cittadina, venne in eredità a Giovanni dalle Bande Nere, scapestrato Medici che ne fece rifugio delle sue battaglie guerresche e amorose. Fortunatamente in tempo restaurato e passato in proprietà privata, ottimamente mantenuto, conserva tutto il fascino e l’austerità originaria, anche se, la difficoltà di visitarlo, ne limita assai la conoscenza e tende a mettere in naftalina quest’autentico pezzo pregiato rinascimentale.

BARBERINO Dl MUGELLO, posto al riparo del Monte Maggiore, punto culminante della Calvana, poco sotto i 1.000 metri, e del Monte Carelli (m.861), è sostanzialmente territorio collinare, dalla florida agricoltura, ove non mancano le due tipiche colture toscane, vite e olivo, nonché il castagno che forniva il principale contributo all’alimentazione sino al secondo dopoguerra, quando ebbe inizio l’esodo verso i centri urbani, lo spopolamento dalle campagne e soprattutto della montagna, ulteriormente acuito dalla mancata produzione del non più indispensabile carbone di legna che costituiva una naturale fonte di sussistenza delle popolazioni più povere. Nella piazza principale fa bella mostra di sé il Palazzo Pretorio con gli stemmi degli antichi Podestà, vi prospetta anche un palazzo mediceo con elegante loggiato. Il paese è dominato da un Castello del XII sec. dei Conti da Barberino, discendenti dei Cattani, antichi notabili del contado. Il nome Barberino si rifà probabilmente ad una testa maschile, con tre barbe, inserita in uno stemma esistente nell’architrave della rocca. Nominato per la prima volta nel 1074, fu eretto in Comune con istituzioni proprie nel XIV sec.; pare che a metà del ‘ 800 le tre barbe dello stemma divenissero una sola, come poi è rimasto. Trovandosi il borgo lungo frequentate direttrici di transito, fu soggetto a scorrerie e saccheggi ai quali si alternarono periodi tranquilli e floridi, durante questi ultimi il poeta Corsini scriveva: Il nobil castel di Barberino Noto per berligozzi e panno fino (laddove per berligozzi o berlingozzi s’intendevano ciambelle soffici ricoperte di crosta croccante) Non lontano dal paese sorge il Castello di Cafaggiolo che merita almeno un cenno, sia per la sua architettura che soprattutto per la storia avvicendatasi all’interno delle sue mura. Costruito su disegno del solito Michelozzo fu, insieme alla villa di Careggi, il luogo prediletto di Cosimo; nel suo giardino si volse ai primi giochi il Magnifico Lorenzo.

Sostanzialmente il sito castellare fu la culla medicea per eccellenza e qui trovarono asilo od accoglienza Papi e mercanti, gentildonne ed intrattenitrici, artisti e letterati, Cardinali e Principi, a dimostrazione di quanto la corte medicea fosse cosmopolita. Alla mensa e nei convivi intervenivano il Pulci, il Poliziano, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola; Lorenzo e Giuliano erano i mecenati, dell’eletta compagnia il poeta Matteo Franco declamava, alla presenza del futuro Leone X. A Cafaggiolo, con la morte del triste GianGastone si estinse l’irripetibile dinastia medicea; mai più si sarebbero rivisti i fasti mondani e le riunioni intellettuali di quel periodo in cui Firenze era la vera capitale culturale del mondo. L’ultimo motivo di gloria, per le turrite mura, fu l’ospitalità che il Granduca Pietro Leopoldo, nel 1778, dette al fratello Giuseppe, imperatore d’Austria, poi tutto divenne normale routine, lo splendido sogno avendo avuto fine, ed oggi l’illustre maniero mostra un aspetto sbiadito, non consono ai trascorsi splendori. Là sul Passo del Giogo, scolpiti nella roccia, i versi del Vate pescarese D’Annunzio: Io so dove fiorisce l’asfodelo. Là nel chiaro Mugello presso il Giogo Di Scarperia. Lo vidi fiorir bianco … Digrada in ripetute volute la strada, perdendo quota, attraversando verdi selve ombrose, finché, prima che la piana mugellana si sciolga in una linearità campestre, appare SCARPERIA che, all’ombra delle cime appenniniche (Castel Guerrino m.1.117 e Scherzatoio m.1.057) riposa dolcemente fra olivi, viti ed alberi da frutto, mostrando intatti i ricordi medioevali quando fu baluardo glorioso della Firenze minacciata e ambita. Accoglie, la piazza principale, il Palazzo Pretorio che ricorda, nel taglio, e forse anche nelle aspirazioni architettoniche, il fiorentino Palazzo Vecchio, non a caso realizzato da quell’Arnolfo di Cambio che fissa avea quell’idea di perfezione, e nacque cosi un’altra opera mirabile che, da sola, nobilita l’intero borgo e ne svela la considerazione nel quale fu tenuto. Ben tre Chiese cingono il medesimo slargo e, pur senza assurgere a modelli di assoluta compiutezza, completano armonicamente il più importante spazio cittadino: si tratta della Prepositura, dell’Oratorio della Compagnia di Piazza, della Chiesa parrocchiale dedicata alla Compagnia della SS. Trinità, vi troviamo opere del Ghirlandaio, Benedetto da Maiano, Taddeo Gaddi, Mino da Fiesole e, dulcis in fundo, Donatello.

Scarperia (da iborghiditalia.it)

Poco fuori dell’abitato sorge l’Oratorio della Madonna del Vivaio, fatto edificare da Cosimo dei Medici, nei pressi un’antica pittura a muro, pare tolta da un tabernacolo che sorgeva in prossimità di una fonte ove, dice sempre la tradizione, le ragazze da marito, andando ad attingere l’acqua, si bagnavano gli occhi, sperando, nella notte, di vedere il futuro sposo. Ancora una preziosità si riscontra in una Cappella oltre le mura, passata Porta Fiorentina, un’immagine della Vergine posta nella costruzione detta “dei terremoti”, a ricordo del drammatico evento del 1542, opera di Fra’ Filippo Lippi, che ricorda un’altra leggenda nella quale la Madre Celeste pare posasse a terra il Bambino, che teneva in grembo, per giungere le mani e pregare il Signore di tener lontane ulteriori calamità. Territorio degli Ubaldini fino al 1292 quando la Repubblica Fiorentina, trionfante sulla famiglia mugellana, ne fece un baluardo per la propria sicurezza, Scarperia fu dotata di mura e fortificazioni che si mostrarono efficaci respingendo l’attacco, nel 1351, dei Visconti che, attraverso il Mugello, miravano a Firenze. Essendo all’epoca, praticamente obbligata la via per il capoluogo toscano, ne venne di conseguenza che la piazzaforte assumesse d’importanza strategica straordinaria, confermata dalla giurisdizione che le fu assegnata, spaziante da Carmignano a San Godenzo e da Firenzuola alle immediate vicinanze fiorentine. Fino al 1733, quando il povero Gian Gastone, l’ultimo dei Medici, vi dimorò, nel tentativo vano di ritemprarsi, Scarperia conobbe giorni gloriosi, poi rientrò nella normalità e tornò ad essere quell’interessante, piacevole borgo nel quale, ancora oggi, ci è caro passeggiare, assaporando quell’aria di dolce contado che ricorda momenti difficili ma anche quella serena distensione che, solo lontani dalla frenesia dei centri urbani, è ormai possibile trovare.

Il pensiero va a quelle famiglie, poi emigrate, che qui ebbero natali e potere, che favorirono l’arte e divennero, a loro volta, insostituibili centri di cultura, i nomi sono i soliti più volte rammentati, a loro dobbiamo eterna gratitudine. Prendendo a prestito il Manzoni mi vien da dire che “quel tratto della Sieve che volge a meridione”, allontanandosi dal cuore del Mugello, pur rimanendo nei confini che accennavo all’inizio, raggiunge in breve RUFINA che s’adagia nella piana, guardata dall’alto dalla giogaia di Pomino, che origina dal Passo della Consuma, a m.875, altitudine che, più o meno, conforma tutto il crinale orientale, gemello di quello occidentale ove s’attesta il Monte Giovi. Prima ancora di dare qualche cenno storico-artistico, è d’uopo affermare la preminenza raggiunta, sul territorio, nel settore vinicolo, dal Chianti Rufina che rivaleggia a buon titolo col più blasonato Chianti Classico, una bella lotta a colpi di bicchiere, con risultati che trovano divisi esperti ed estimatori; per i beoni poi non vi son dubbi, il vincitore è sempre quello dell’ultimo calice. Scoperte le potenzialità del prodotto delle dolci vigne solatìe, impiantate su quel galestro che garantisce le caratteristiche essenziali, in poco più di un secolo Rufina ha fatto, del vino, il suo biglietto da visita, diffondendolo dapprima a Firenze e a Roma, poi in Europa e negli Stati Uniti soprattutto ove, dopo una tarda scoperta, sta conoscendo interesse e crescente favore. Svariate e notevoli sono le fattorie che hanno attrezzato ampi ed efficienti locali – un vero piacere visitarli – per la lavorazione, conservazione ed invecchiamento di quella che, fin dall’antichità, fu ritenuta la bevanda degli Dei, affiancando beninteso la coltura dell’olivo, la frangitura, la produzione sopraffina dell’olio che ha, in questa zona, uno dei suoi punti di forza. Nessuna considerazione, per concludere l’argomento, mi pare più confacente dei versi del Redi:

Quel gran vino Di Pomino
Sente un po’ dell’affricogno
Tuttavia in mezzo Agosto
Io ne voglio sempre accosto.
E di ciò non mi vergogno
Perché a berne sul popone
Parmi proprio sua stagione
Ma non lice ad ogni vino
Di Pomino Stare a tavola rotonda.
Solo ammetto alla mia mensa
Quello che il nobil Albizi dispensa
E che fatto d’uve scelte
Fa le menti chiare e svelte.

Le notizie più antiche del paese risalgono al 1076, quando una Bolla del Papa Gregorio VIII definisce gli abitanti dell’allora misero borgo “Homines de Rufina“, contraddistinti dall’anonimo torrente che scorre sul fondovalle. La Pieve di San Martino è recente, dell’800, ma si ha notizia di una precedente costruzione che risalirebbe alla fine del XIII sec. E’ importante ricordare, a mio avviso, i nomi dei principali “vignaioli”: per primi i Frati del Poggiolo, poi Liccioli, Caselli, Spalletti, Dolfi ed altri ancora, tutti bravissimi ed appassionati del loro lavoro. Scendendo ulteriormente a sud s’incontra, fra il Passo della Consuma e Pontassieve, rispetto alla Sieve, il paese di PELAGO, il cui nome si vuol far risalire ad un lago esistente in antichità presso una depressione limitrofa o, come accenna l’illustre Repetti, “ad un antico bagno minerale, ora abbandonato, situato in un podere assai vicino”. Delle due ipotesi, stante l’accezione latina, propenderei senz’altro per la prima. Il nucleo abitativo antico sorge su di uno sperone sopraelevato al quale si giunge, in breve, da un bivio della strada che porta in Casentino. La famiglia Cattani vi ebbe proprietà, prima dei soliti Conti Guidi, ed anche un Castello del quale si scorgono ancora le torri. La vecchia Chiesa del XIV sec. fu abbandonata due secoli più tardi perché ritenuta insufficiente, per costruirne una nuova ancora ampliata nell’800 in stile romanico semplice e sobrio; una Madonna della seggiola della scuola grottesca la nobilita non poco. Nel piccolo borgo, o nelle immediate vicinanze, ebbero i natali due personaggi destinati ad illustrare l’arte del ‘400, Lorenzo Ghiberti e Giovanni di Matteo “il Ghirlandaio”.

Un cenno a parte merita la frazioncina di Nipozzano dominata dal Castello, cui si giunge, in ripida ascesa, lasciata Pontassieve, in direzione la Consuma. Sebbene soggetti a profondi interventi di ripristino, dopo i danni dell’ultima guerra, Chiesa e Castello conferiscono, al borgo appollaiato sullo sprone, un che di misterioso e di curioso insieme, perché contrastante con le rotondità e le dolcezze dell’ambiente segnato da viti, oliveti e dagli immancabili cipressi. Antico dominio dei Guidi, poi trascorso agli Albizi e quindi agli attuali proprietari, “il nido d’aquila della Val di Sieve’’ vanta oltre mille anni di storta e desta sempre meraviglia nei visitatori che salgono lassù e riscontrano, con grande amore, un angolo della più tipica Toscana. Anche a Nipozzano sovrano è il vino custodito nella celebre cantina Frescobaldi, che ho avuto il piacere di visitare in occasione della visita degli Amici del Cammina Italia, apprezzandone lo splendore, la rigorosa sequenza delle botti di rovere, insieme alla villa immersa nel verde e nei fiori, ma è stato soprattutto l’assaggio del rubicondo nettare quello che ha lasciato la sensazione di maggior piacere.

PONTASSIEVE assiste all’incontro del fiume mugellano con l’Arno casentinese, le correnti si mescolano poco oltre il ponte già esistente nel XIV sec., poi chiamato mediceo dopo che, danneggiato seriamente dalla piena del 1548, fu ripristinato da Cosimo de’ Medici nel 1555. Giace all’ombra delle propaggini del Monte Giovi (m.992), massima asperità della zona e dette più morbide e produttive elevazioni del Bardellone e di Poggio a Quona, nome quest’ultimo, che si rifà agli omonimi Signori che dall’ XI sec. avevano potere e proprietà sul territorio, fra le quali un Castello del quale restano solo sparsi ruderi. Le torri attuali che fanno ancora bella mostra nel borgo vecchio, sono la testimonianza di una fortificazione che la Repubblica Fiorentina volle nel 1375, quale avamposto ad est, sotto il nome di Castel Sant’Angelo. Non vi sono in Pontassieve particolari evenienze artistiche mentre, sparse nel Comune, possiamo citare un gran numero di costruzioni, in particolare edifici religiosi, fra i quali è impossibile non rammentare almeno: San Giovanni a Remole alle Sieci, San Martino a Lubaco, il Santuario della Madonna del Sasso; mentre, fra gli edifici non di culto, mi pare giusto citare: il borgo di Montebonello, la villa di Gricigliano, il Castello del Trebbio sulla strada per Santa Brigida, la villa-castello di Torre a Decima a Molin del Piano, un grosso patrimonio che pochi piccoli comuni possono vantare ma, si sa, qui dalle nostre parti non c’è che l’imbarazzo della scelta. Prima di concludere le svelte citazioni su quanto di interessante si può rinvenire nel Comune, una curiosità che forse non tutti conoscono: sulla sommità del Monte Giovi sorgevano un Castello ed una Chiesa dedicata a Sant’Andrea che lo storico Lami fa risalire al XIII sec.; oggi, come ben sanno gli escursionisti che vi si recano, non esiste più alcuna vestigia all’infuori dei resti di un chiesino, poco prima della vetta, provenendo dal Tamburino, ove il lunedì dopo Pentecoste si celebrava una manifestazione che vedeva la partecipazione di un buon numero di camminatori giunti lassù. Ricordi purtroppo che, insieme a tanti altri, testimoniano il disinteresse per le tradizioni e il distacco che manifestiamo per quanto, pur semplice, è stato parte integrante della nostra esistenza.

Siamo giunti al termine di queste necessariamente brevi note, data l’ampiezza del tema; resta da dire qualcosa su quel territorio che ha FIRENZUOLA come capoluogo, quella Romagna toscana più limitrofa al giogo appenninico che storicamente ha partecipato di preferenza alle vicende della nostra Regione più che a quelle romagnole, che la geografia parrebbe, forse a buon diritto, attribuirle. Certamente la ragione prima di tanto interesse nostrano è da ricercarsi nella volontà di costituire un forte avamposto ben munito, una garanzia di passaggio verso le floride, solatìe pianure a sud del Po, per agevolare gli scambi commerciali con il Settentrione ed il centro Europa, nonché un blocco verso chi volesse illegittimamente forzare la via verso la città del Giglio. Si tratta della zona più montuosa, quella a cavallo dei crinali appenninici spartiacque, ove sorgono le vallate che vanno verso l’Adriatico e, per contro, verso il Tirreno, con i relativi corsi d’acqua. Prima dell’Appennino propriamente detto, ben tre rilievi significativi movimentano il paesaggio: Sasso di Castro, rotondeggiante nella sua imponenza, Monte Beni, vecchio vulcano ora in letargo ma, data la sismicità della zona, chi giurerebbe sul suo sonno definitivo?, ed il Monte Canda. La via fluviale più importante è il pescoso Santerno che nasce dal Passo della

La Pieve di Traversa

Futa e si avvia, con ampie volute, sotto il Monte Coloreta (m.970), alla volta di Imola, creando pozze ombrose ove il fruscio delle acque è momento di riposo e di meditazione. L’insedia-mento nacque nel XIV sec., sotto il dominio della famiglia Ubaldini, ma nel 1332 la Repubblica Fiorentina, vincendone le resistenze, creò l ’ avamposto, lo cintò di mura ove si aprivano, su lati opposti, la Porta Bolognese e la Porta Fiorentina. Gli Ubaldini, gente tosta, venti anni più tardi, tentarono la rivincita, ma furono infine schiacciati nel 1372 quando la Repubblica affermò definitivamente il proprio predominio. In quei tempi, un fiorentino famoso nel mondo, Niccolò Machiavelli, resse qui le sorti del governo, mentre più tardi, Lorenzo il Magnifico v’impegnò notevoli risorse per il definitivo assetto della fortificazione. Giovanni Villani, cronista e storico, qui nato, suggerì il nome Firenzuola che è facilmente riconducibile al concetto di piccola Firenze, mediandone anche lo stemma; nel 1736 vi si tenne un concilio per stabilire il passaggio, dopo la morte dell’ultimo dei Medici, alla casa dei Lorena. Nella Chiesa principale, dedicata al SS. Crocefisso, gode di grande venerazione una croce che si dice appartenesse a San Giovan Gualberto, figura particolarmente amata nel contado fiorentino. Nei dintorni, e precisamente a Coniale, una lapide posta su Casa Biagini, ricorda l’accoglienza fortunosa accordata a Giuseppe Garibaldi, inseguito dagli Austriaci, mentre si recava a sostegno della Repubblica Veneziana. Tra le frazioni di Caburaccia e Piancaldoli, sorge isolato e geologicamente anomalo rispetto al terreno circostante, il Sasso di San Zanobi, da qui le domande: eruzione vulcanica o meteorite? La questione pare aperta, nel frattempo la leggenda popolare ci fornisce la sua spiegazione:

Firenzuola (da web.cortland.edu)

San Zanobi, vescovo fiorentino, era in giro per convertire le anime ed abbattere il culto pagano, il Diavolo ovviamente si opponeva, fra i due fu stabilito un patto, chi avesse portato su dal torrente Idice, fino al Castello, posto a guardia della via etrusca, il masso più grosso avrebbe vinto la partita; a valle di Piancaldoli erano due collinette, il Demonio ne afferrò una ma, giunto a metà percorso, gli sfuggi provocando una frana, San Zanobi invitò l’altra a slittare sulla sua tonaca che aveva steso nei pressi, e quella depositò ove attualmente si trova; il Diavolo, a balzi, sprofondò nell’inferno, lasciando tutta una serie di emissioni di fuoco, quali ancora, per l’esistenza di gas naturali, si possono trovare ed osservare, di notte, con effetto suggestivo.

Nella succitata Piancaldoli ebbe i natali lo scienziato Evangelista Torricelli, realizzatore del barometro, che ebbe anche rapporti col più celebre Galileo Galilei e fu altamente apprezzato dal Granduca Ferdinando II dè Medici. Infine in località Moscheta sorge, in posizione assai amena, la celebre Badia, una delle prime della congregazione vallombrosana, fondata dal già menzionato San Giovan Gualberto, meta prediletta di escursioni primaverili ed autunnali. Vorrei, in appendice, fornire una breve traccia circa le tradizioni popolari che rappresentano l’anima più genuina di un qualsivoglia territorio, si pensi ai giochi, ai canti, alle novelle, alle filastrocche, ai personaggi caratteristici che animano ogni borgata. Quando ancora i ragazzi giocavano fra loro, all’aperto, in prossimità delle case, sotto lo sguardo apparentemente distratto delle mamme, ci si divertiva con le buchette, con la mora o morra, con le murielle, con i barattoli riempiti di carburo, le fionde, il carretto a cuscinetti a sfera, le bombette puzzolenti, le barchette con i gusci di noce, il carro armato con i rocchetti vuoti di filo da cucire, le sigarette confezionate con le vitalbe e con tanti altri passatempi che i non più giovani hanno ben presenti, giochi più o meno innocenti, che presupponevano comunque fantasia e manualità che, nelle campagne mugellane, cosi come in tutti quei luoghi lontani dal traffico dei centri urbani, trovavano particolare sviluppo e applicazione. Così giocavano e quanto si divertivano, quante iniziative si sviluppavano, perché i soldi non c’erano o erano pochi e tutto andava creato dal nulla, così, con le proprie mani e con quel che, per caso, era possibile raccattare. C’era molto spirito di emulazione, qualche disaccordo, qualche cazzottata, ma anche tanta solidarietà e fraterna amicizia, sicché, ancora oggi, a distanza di circa sessant’anni, ho ben presente il volto dei miei compagni, m’è caro ricordarli e ne ho grande nostalgia perché testimoniano un mondo che non c’è più, travolto da quello che chiamano progresso. Caratteristica del Mugello era cantar Maggio, quando, col sole primaverile, la voglia d’amore si faceva più forte ed i ragazzi facevano il filo alle fanciulle con la speranza di romperne il tradizionale riserbo: Che bella meriggiana che fa il faggio! Belle ragazze venite al meriggio: V’insegnerò come si canta Maggio. Ho avuto la fortuna, in Banca dove lavoravo, di conoscere forse uno degli ultimi Maggiaioli; si chiamava Bigini ma era soprannominato Scansino perché probabilmente cercava di evitare gli incarichi più complicati ed uggiosi. Invitato da lui, ho preso parte, una volta, a Scarperia, a questa bella festa popolare che, si sentiva, era veramente alimentata col cuore; tutti, chi più chi meno, vecchi e giovani, partecipavano, c’era una sana allegria e non nascondo che qualche ragazza ci mettesse volentieri del suo, il tempo passava e veniva buio in un baleno. Fra le figure caratteristiche, un posto speciale spetta indubbiamente al Pievano Arlotto, al secolo Arlotto Mainardi, nativo di Firenze ma di origini mugellane, fattosi prete all’età di ventotto anni, cugino di Antonino, Vescovo di Firenze, quindi ben ammanicato, come si direbbe oggi, tanto è vero che non ebbe difficoltà a farsi confermare dal Papa la tenuta della Pieve di Macioli, nei confronti della quale esistevano plurime ambizioni. Arlotto è rimasto celebre soprattutto per le sue burle ai danni del prossimo ma anche, aspetto meno conosciuto, per l’interesse rivolto nei confronti del gentil sesso che, pare, fosse ampiamente ricambiato. Comunque, a conferma del suo inimitabile umorismo, valga l’iscrizione che lui stesso dettò per la sua tomba: “Questa sepoltura a facto fare il Piovano Arlocto per se e per tucte quelle persone le quali drento entrare vi volessimo”. Pare fosse un bell’uomo, di robusta costituzione, amante soprattutto dei viaggi, tanto che non esitava, cosa rara per quei tempi, ad imbarcarsi sulle galee medicee dirette in Francia ed in Inghilterra. Dalle novelle, tramandate di generazione in generazione, sono stato io stesso beneficiato, per parte di una lontana parente di origini mugellane.

Credo che, poche volte, la mia attenzione di fanciullo sia stata attratta cosi profondamente dalla voce flautata della simpatica vecchietta che mimava i vari personaggi, dalla rappresentazione delle varie situazioni, da quel senso di angoscia e di paura di cui, tutte le favole che si rispettano, sono permeate, aspettando la fine che vedeva il Principe Azzurro risvegliare con un bacio l’amata, colpita dall’incantesimo della strega malvagia, per poi avviarsi a vivere, felici e contenti, gli anni a venire. E, per finire, una breve rassegna di canti, filastrocche e stornelli della più genuina espressività:

O rosa delle rose, o rosa bella,
Per te non dormo né notte né giorno
E sempre penso alla tua faccia bella,
E alle grazie che hai faccio ritorno.
Faccio ritorno alle grazie che hai
Ch’io ti lasci, amor mio, non creder mai.
Ci avevo un cavallino brizzolato
Contava i passi che faceva la luna;
Ci avevo un bel morino e mi ha lasciato
Segno che nell’amor non ho fortuna.
Fior d’ogni fiore all’amor mio una lettera ho mandata,
Col sangue del mio cuor l’ho fiorita.
Rosa fiorita!
Dalla passione del damo si è ammalata,
come le foglie ha fatto, s’è ingiallita.
Credevo che tu ci avessi un po’ di cuore
Ma ho visto che sei fredda più del gelo;
Muterò strada e troverò l’amore.
Dammelo un po’ di bene se ce l’hai
Se non me lo vuoi dar padrona sei.
Mamma se non mi date il mio Beppino
Vò andar pel mondo e mai più tornare.
Se lo vedete quanto gli è bellino
O mamma vi farebbe innamorare.
Fior della rana:
Navigar non si può senza la vela
L’amor non si può far senza la dama.
Fiorin di menta.
La menta caro mio non si trapianta
Chi esce dal mio cuor non ci rientra.

Per questo intervento ho consultato gli scritti di Paolo Campidori, il volume Mugello e Val di Sieve di Gaspero Righini, il volume Alto Mugello, Mugello e Val di Sieve di Massimo Becattini e Andrea Granchi, avuto presente l’opera fondamentale del Repetti, a tutti va il mio ringraziamento più sincero per la competenza e l’acutezza con le quali hanno trattato l’argomento.

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