Un libro di Giorgio Spreafico apre nuovi scenari sulla vicenda del 1957
Due anni fa, più o meno di questi tempi, presentai una serata che rientrava nell’ambito di una serie di incontri inseriti nel panorama, più vasto, del programma del Gruppo Alpinistico Tita Piaz. Scelsi, in quell’occasione, di parlare della storia alpinistica dell’Eiger, una serata all’insegna de “L’orco di pietra e di ghiaccio”. Ripercorsi le tappe fondamentali di quest’affascinante e terribile storia evitando tuttavia di dilungarmi troppo su un fatto che, per l’alpinismo italiano, avrebbe senz’altro avuto notevole importanza qualora il finale fosse stato diverso. Mi limitai, infatti, solo a qualche accenno che aveva, ed ebbe più che altro, lo scopo di rivedere certe affermazioni scritte da Heinrich Harrer, nel suo libro “Il ragno bianco” (Die Weisse Spinne) di cui parlerò in seguito. L’episodio al quale mi riferisco è lo sfortunato tentativo di Claudio Corti e Stefano Longhi.
Molto è stato scritto sull’argomento. Eppure, ancora oggi, a più di 50 anni di distanza dai fatti, non si è esaurito l’interesse per quella che potremmo definire, a posteriori, una tragedia mediatica. Ultimo libro sul tema, in ordine di tempo, è “Il prigioniero dell’Eiger”, uscito dalla fiorente penna di Giorgio Spreafico. Non molto tempo fa, dello stesso Autore, avevo letto “Enigma Cerro Torre”, libro che, francamente, non mi aveva entusiasmato, non tanto per l’invidiabile agilità con cui Spreafico scrive, quanto perché il libro non aggiungeva niente a quanto già sapevamo. Questo nuovo libro sulla sventurata avventura di Corti, aggiunge invece, per più aspetti, nuovi elementi, nuove testimonianze e nuovi termini di discussi E’ l’agosto del 1957, quando Claudio Corti parte da Lecco con la dichiarata intenzione di portare a termine la prima ripetizione italiana della via Heckmair alla nord dell’Eiger, la classica aperta nel 1938. Un sogno che accarezza con Stefano Longhi, l’unico che ha accettato di seguirlo in questa sua esaltante avventura. Parte senza fanfara, Corti, a luci spente, con il massimo riserbo. Attaccano e non ci mettono molto a fare la conoscenza dell’Eiger che non tarda a presentare il suo biglietto da visita, sbagliano subito itinerario, bivaccano, si riportano sulla Heckmair dove sono raggiunti da due tedeschi con i quali, tralascio i motivi per questioni di spazio, si legano in un’unica cordata. Seguiranno altri quattro bivacchi, Claudio non si risparmierà, “tira” tutti guidando i compagni su nevai bombardati dalle pietre, all’interno di budelli bagnati, lungo bordi frantumati di camini intasati dal ghiaccio. In prossimità delle fessure finali, quando i metri che li separano dall’uscita della via non sono molti, Stefano cade a causa dei congelamenti subiti alle mani, producendosi in un terribile pendolo che si esaurisce sotto incombenti strapiombi. Claudio prova, riprova, stimola Stefano a riprendersi ma i tentativi di recupero sono vani.
Nella mente di Claudio si affollano mille pensieri, mille dubbi che fanno a cozzi con un certo tipo di etica alpinistica, come si fa a lasciare un compagno in difficoltà? Non ha scelta, prende l’unica decisione da prendere, cala Stefano di qualche metro e dopo averlo ben assicurato a due corde su una cengia sufficientemente spaziosa, prosegue assicurandogli ogni sforzo per soccorrerlo. Ma l’Orco non ha esaurito le sue sorprese; poche decine di metri sopra anche il forte alpinista di Olginate è ferito da una scarica di sassi alla testa, vola per una trentina di metri, si rende subito conto di non poter proseguire, è anch’egli costretto ad abbandonare il tentativo. Non ha alternativa, non ce la fa nemmeno a stare in piedi. Ai due tedeschi, uno dei quali sofferente, il compito d’allertare i soccorsi. Günter Nothdurft e Franz Mayer, questi i loro nomi, non giungeranno mai a destinazione, i loro corpi saranno ritrovati nel 1961, morti probabilmente dopo un lungo, disperato bivacco, lungo la via di discesa più comune, quella del versante ovest. La loro salita è, doverosamente, annoverata come la 14ma ascensione della nord dell’Eiger.
I soccorsi arriveranno comunque. Già da un paio di giorni, notando la lentezza della cordata, alla Kleine Sheidegg hanno allertato varie squadre di soccorso. Corti sarà tratto in salvo con un’operazione di recupero che per i tempi fu realmente all’avanguardia, l’utilizzo cioè di un verricello che dalla cima dell’Eiger calerà un volontario (Alfred Hellepart) per circa 200 mt. fino al “Bivacco Corti”, come da quel giorno prenderà nome il luogo. Per Longhi non vi sarà finale altrettanto fortunato, ci vorranno due anni per recuperare il suo corpo morbosamente divenuto, nel frattempo, triste attrazione per i tanti turisti della Kleine Scheidegg ai quali non saranno negati potenti cannocchiali a pagamento.
Un tragico tentativo dunque. Per Claudio Corti, tuttavia, che già aveva perso un compagno sulla nord, il peggio doveva ancora arrivare. Al suo ritorno a Lecco non gli furono risparmiate critiche feroci, critiche sulla sua capacità di affrontare un’impresa del genere, critiche sul fatto che Longhi, avanti negli anni, fosse ancor meno capace, alpinisticamente parlando, dello stesso Corti. Critiche sulla sorte dei tedeschi dei quali Corti fu nemmeno tanto sottilmente incolpato della morte per propri vantaggi. Insomma … accuse pesanti per un uomo già sopraffatto dagli eventi, corroso nelle proprie certezze, debilitato dai dubbi. Prigioniero dei propri sogni, ecco … questa è la parola giusta, ed ancora prigioniero di una montagna, l’Eiger, che non sembra concedergli tregua.
Fra i critici più spietati trovò spazio Guido Tonella, giornalista dell’Europeo, che non risparmiò a Corti velenosi articoli, e trovò spazio anche un mito dell’alpinismo, Riccardo Cassin allora Presidente della Sezione di Lecco del CAI e Presidente, al tempo stesso, della Commissione Nazionale Scuole di Alpinismo. L’accusa rivolta era chiaramente quella d’incapacità, di mancata preparazione e, soprattutto, quella ancora più atroce per Corti, di aver abbandonato un compagno di cordata incapace ma ancora vivo. Certo ne sapeva qualcosa Cassin, di compagni morti, che sul Badile ne aveva dovuti lasciare due, distesi sul terreno. (La convinzione di Cassin sull’incapacità di Longhi non è un segreto né taciuta. “Il povero Longhi non valeva niente come alpinista” ebbe, infatti, a dichiarare a Jack Olsen, Autore del bestseller “The climb up to hell” – pubblicato in Italia con il titolo di “Arrampicarsi all’inferno”).
In tale umano sfacelo anche il CAI giocò la sua partita e calò le sue carte. Chiamato a decidere in merito alla richiesta d’espulsione di Corti dal sodalizio chiese al malaugurato alpinista relazioni della via, chiese versioni verosimili dell’accaduto, chiese dati, termini, tempi, dinamiche … Per un uomo genuino, semplice, buono come Corti non fu facile trovarsi di fronte un giocatore incallito come il CAI e ciononostante affetto da propria congenita lentezza e dagli ereditari dubbi della propria aristocrazia. Fu tuttavia una partita giocata alla pari dall’esito fatalmente scontato. Il CAI, sodalizio che più rappresentava, dovrebbe rappresentare, il primato in termini di cultura e di conoscenza dell’alpinismo, non calò l’asso che teneva in mano e si comportò come molte altre volte si era già comportato e come altre volte avrebbe deciso, in futuro, di comportarsi: decise di non decidere. Tutto sommato, pur entro sottili confini di condotta, fu la soluzione migliore. Non ci deve meravigliare, pensate che ci sono voluti 50 anni, ed una commissione d’inchiesta, per fare chiarezza su ciò che tutti i benpensanti e gli alpinisti con un briciolo d’obiettività avevano già colto a proposito delle note vicende accadute nel corso della spedizione al K2 del 1954.
Nel libro di Spreafico si fa riferimento a tutti i fatti sin qui scritti, ma si fa riferimento anche ad altri eventi. Uno su tutti, che il comportamento di Cassin fosse … come dire … di stizza. Non solo per essere stato tenuto all’oscuro del tentativo di Corti ma anche per avere da tempo programmato con Mauri la salita della nord a distanza di pochi giorni. Mauri … che in tante altre occasioni aveva accettato la guida sicura di Corti in parete, non solo gli si scagliò contro, ma si scagliò anche, ed inspiegabilmente, contro Nothdurft e Mayer, colpevoli di esserglisi affidati. Spreafico offre, fra le pagine del libro, una chiave di lettura plausibile del fatto, non risparmiando al Lettore ampie testimonianze sul fatto che l’autorevole leadership di Cassin, soprattutto a Lecco, avesse creato invidie e malumori.
Non so se Corti è stato un valido alpinista, presumo tuttavia per il sì. Certo non poteva essere così scarso come qualcuno lo ha dipinto; apparteneva al Gruppo dei Ragni e vi apparteneva molto prima dell’ingresso di Cassin stesso, si era particolarmente distinto su roccia per la sua attività, per le sue vie in Grigna, in Dolomiti, al Resegone ma anche, più in generale, su tutto l’arco alpino. Aveva aperto una via, al Badile, di elevatissime difficoltà. Partecipò alla spedizione dei Ragni, pilotata da Casimiro Ferrari, che conquistò il Cerro Torre nel 1974. Il suo curriculum alpinistico gli valse, complessivamente, l’ingresso nel Club Alpino Accademico Italiano di cui, ancora oggi, è membro. Un ingresso tormentato dalle vicende dell’Eiger, un ingresso che, dopo un timido tentativo del 1969 che si concluse con il ritiro della domanda di ammissione, fu ufficializzato solo anni dopo, nel 1974. A promuovere l’ingresso di Corti nel CAAI, come prassi vuole, furono Gino Esposito (già compagno di Cassin alla Walker), Luigi Airoldi e Giulio Bartesaghi, tre lecchesi, tre Ragni. A dare forte impulso all’ingresso di Corti nell’Accademico fu anche Roberto Osio in prima persona, allora Presidente dell’Accademico e, manco a dirlo, anch’egli un “maglione rosso” della Grignetta. Osio non si lasciò sfuggire l’occasione di affermare che si trattava solo di “valutare il complesso dell’attività di un normale candidato”, di decidere insomma “in base alla quantità ed alla qualità” delle scalate realizzate dal Claudio. Ad accoglierlo nell’Accademico, manco a farlo apposta, due vecchie conoscenze: Riccardo Cassin e Guido Tonella, due personaggi che tanto lo avevano avversato.
Si è affermato che Corti affrontò la salita dell’Eiger con troppa leggerezza e poche informazioni in merito. C’è chi ha affermato, a causa di banali errori lessicali, che Corti non avesse coscienza di cosa facesse e tantomeno avesse uno straccio di relazione della via. Al di là di ogni ragionevole dubbio, ricordo un fatto poco noto ai più: Corti “saltò” quasi tutto il Ragno (“der Spinne” per chi vuole cercarselo sulle relazioni) grazie ad una variante aperta nel luglio del 1950 dagli austriaci Leo Forstenlechner ed Erich Wascak. Variante, affatto conosciuta, di cui varrebbe la pena raccontare essendo un’altra grande, entusiasmante pagina di alpinismo per il fatto di essere considerata la prima ripetizione in giornata della nord dell’Eiger. Una variante, quella degli austriaci, che taglia la parete molto sopra la mitica “Traversata degli Dei” (“Gotterquergang”) e che, di fatto, conduce diretta alle fessure terminali (“Austiegsrisse”) eliminando, se non altro almeno in parte, il bombardamento di sassi sempre in agguato in quella grande trappola chiamata Ragno. Credo che chiunque affronti la nord sappia che la cosiddetta rampa (“Rampe”), unica soluzione per avere accesso ad ambedue questi tanto temuti traversi, chiusa com’è da enormi strapiombi, non è una possibile via d’uscita. Come poteva non saperlo Corti? Se proseguì lungo la rampa lo fece intenzionalmente, per motivi di sicurezza della cordata, ben sapendo che aveva un’alternativa possibile in condizioni migliori o almeno, presunte tali. Questi i motivi per cui Corti non poteva non avere, o non aver avuto, fra le mani una relazione su cui leggere queste informazioni. Purtroppo quella variante, forse decisa per le cattive condizioni di salute di Nordfurth, fu il tratto di parete fatale a Longhi.
Mi sono permesso altre ricerche. Nel 1959 Corti rilasciò un’intervista a Gianni Roghi dell’Europeo, nota firma del giornalismo, che apparirà sul n. 29 dello stesso anno. Ricordiamoci che nel 1959 i corpi dei due tedeschi non erano ancora stati ritrovati. In quell’intervista che Roghi intitolerà “Non sono un criminale” (c’è una versione integrale dell’articolo anche sul web) Corti rispose così alle domande del giornalista: “Era l’8 agosto: eravamo in parete dall’alba del 3, cinque giorni. Dopo il bivacco, che ho trascorso frizionando le mani di Longhi per un principio di congelamento. traverso a destra per raggiungere quel nevaio che si chiama Ragno. Sono le sei del mattino. Faccio venire i due tedeschi, uno dei quali è da tre giorni che sta male, sempre peggio di ora in ora. Ultimo deve venire Longhi. Gli ordino di levare i chiodi prima di muoversi. Parte, dopo tre metri vola e urla: “Tienimi Claudio!”. Mi preparo allo strappo, e solo per miracolo non lo seguiamo tutti. Riesco a trattenerlo, lui mi grida di calarlo per due metri: sotto c’è una cengia. Lo calo, lo assicuro a due chiodi e due corde. Adesso stia a sentire bene. La cengia dove sono io con i due tedeschi, che stanno a cinque metri da me, più avanti, è coperta di neve ghiacciata, con un pendio di settanta, ottanta gradi fino all’orlo. Io sono in cima al pendio, e il Longhi non posso vederlo. Da lì non posso tirarlo perché le corde fanno attrito sull’orlo ghiacciato della cengia. Mi faccio calare dai tedeschi per una quindicina di metri fino all’orlo, guardo giù e vedo Longhi venti metri sotto. Gli chiedo se si è fatto male. Mi risponde soltanto che è volato perché le mani congelate non gli hanno tenuto la presa. “Tirami su”, mi grida. Gli dico che da dove sono non posso, sono in bilico sullo strapiombo, e il tedesco che è ancora in gamba non può aiutarmi perché deve già tenere in sicurezza il suo compagno menomato. Longhi non risponde niente. “Sistemati il meglio possibile”, gli grido, “noi corriamo in vetta e chiediamo soccorso”. […] Gli mando giù il mio sacco da bivacco, e tutti i viveri e i medicinali che mi sono rimasti. Lui aveva sulle spalle il sacco suo. Vedo che se lo toglie, lo depone sulla cengia. Una cengia larga un metro e lunga una decina: comoda, insomma, e sicura. “Ciao”, gli dico, “coraggio”. Longhi è d’accordo, mi saluta”. Questo è ciò che disse Corti. Alla domanda successiva, se fosse cioè al corrente di quale sorte fosse capitata ai due tedeschi rispose: “La cima distava duecento metri. Il maltempo, che già incombeva dalla sera del 4, peggiorò.
Si mise a nevicare. “Lei non sa nulla, non udì nulla dei tedeschi scomparsi?” chiediamo al Corti. “Nulla”, risponde. “io mi ero ficcato nella tenda da bivacco che mi avevano lasciato tedeschi. Credo che siano alla base della parete, in qualche crepaccio, come tanti altri”. Il ritrovamento dei corpi di Northfurt e Mayer daranno ragione alla versione di Corti, furono veramente la chiave di volta. Una chiave, lo possiamo dire, che non sarà certamente piaciuta ad Harrer che aveva meschinamente accusato Corti di aver fatto fuori – sì fatto fuori – i due tedeschi per salvarsi. E lo aveva fatto così bene, ed a tal punto, da modificare il senso delle relazioni di Corti stesso. Nella riedizione italiana del libro, che sarà intitolato “Parete Nord” (Mondadori 2001) si procedette ad una nuova traduzione dove furono trovate molte inesattezze, alcune ritenute volute. Una su tutte “raggiungo i tedeschi” anziché, correttamente, “recupero i tedeschi”. Banale? Mica tanto, come gli alpinisti sanno …
Concludo con un’ultima osservazione rimandando i Lettori alla lettura del libro di Spreafico. Credo che chiunque ha assistito ad una delle mie serate o si sia interessato storicamente della vicenda si sia fatto un’idea sul profilo umano di Harrer, uno dei quattro vincitori della nord. Sicuramente, non c’è dubbio a proposito, fu il più feroce e spietato accusatore di Corti. Accuse che appaiono pregiudizievoli nei confronti degli italiani e degli alpinisti italiani in particolare. Accuse, alle quali dedicò un intero capitolo del Ragno Bianco, che assunsero l’aspetto di vere e proprie calunnie ed infamanti attribuzioni di colpa nei confronti di Corti. Lui … che si era presentato all’appuntamento con l’Eiger quasi come un dilettante, senza alcuna coscienza – lui davvero – delle difficoltà che l’Eiger presentava. Non a caso il grande Heckmair ha più volte ripetuto e sostenuto, evitando giri di parole e fraintendimenti, che se lo legò alla sua corda per evitargli una morte certa. Harrer è sfacciatamente stato – beato lui – l’uomo giusto, al posto giusto, nel momento giusto. Niente di più, se non un decoroso sciatore ed anche se un diario di sette anni, dove evidentemente qualche merito lo avrà pure raccolto, e relativa finzione scenica gli hanno riservato un alone di credibilità e pubblico successo.
Per rileggere in versione integrale le accuse di Harrer a Corti (cosa che ovviamente mi è costata molta fatica) ho comprato, per la modica spesa di pochi euri, sia la prima edizione di “Die Wiesse Spinne” sia quella di “The White Spider”. Non vorrei deludere nessuno, abbattere un mito, ma Harrer non ha mai scritto alcun libro, tantomeno quello sull’Eiger. Forse avrà conosciuto le più abili strategie militari, forse sarà stato un buon militare delle SS, certo è che non sapeva scrivere un libro. A scrivere per lui “Die Wiesse Spinne” fu Kurt Maix, giornalista di successo, buon professionista. La prima edizione del libro, nella quale si incolpava esplicitamente Corti della morte di Nothdurft e Mayer, andò in stampa prima del ritrovamento dei corpi dei due tedeschi. In occasione della ristampa si ritenne opportuno aggiungere un nuovo capitolo che tenesse conto degli ultimi eventi della nord. E’ qui che entra in scena un altro personaggio, Franco Mandelli, anch’egli Accademico ed ex istruttore di alpinismo della Scuola militare di Aosta. Mandelli non era un signor nessuno, era personaggio e professionista molto apprezzato e conosciuto. Chiese a Maix, che già aveva mostrato una qualche comprensione per Corti dichiarando che chi scala la nord “e vi resiste per giornate intere ha fatto e sofferto cose che esulano dalla comprensione dello scalatore medio”, se sarebbe stato possibile introdurre nel nuovo capitolo, visto il ritrovamento dei tedeschi, una nuova versione, più consona ai fatti, della sciagura del 1957.
Harrer non ritenne di doverlo fare. Pubblicò la seguente dichiarazione: “Molti ritenevano che fosse mio dovere pubblicare un poscritto che scagionasse Corti. Resto invece dell’idea che […] le dichiarazioni, i racconti e le relazioni di Corti sono pieni di contraddizioni e di misteri e tali restano. […] Per quanti sforzi interpretativi si facciano, la descrizione dell’itinerario e degli avvenimenti nella relazione di Corti resta confusa e in più parti incomprensibile […] Ciò non farebbe che confermare l’opinione che Corti non fosse preparato per quella salita, dal momento che le sue facoltà psichiche e mentali non ressero all’impegno richiesto”.
E’ la stupefacenza di queste dichiarazioni a confermare il giudizio che ho, ed ho più volte espresso su Harrer. E’ evidente, contrariamente a quanto egli scrive, che Corti ebbe, eccome se ebbe, la capacità psichica e mentale per realizzare l’impresa. Non possiamo infatti negare come, in ultima analisi, condusse la cordata fino in prossimità dell’uscita della via e lo fece tirandosi dietro due, su tre componenti della cordata (“recupero i due tedeschi” ricordate?), in precarie condizioni fisiche, dopo un buon numero di bivacchi. Ora … se in questo contesto ti si abbatte sulla testa anche una valanga di sassi … questo è un altro discorso.
Strabiliante anche il richiamo al fatto che Corti non fosse preparato per la nord. Occorre una buona dose di sangue freddo per affermarlo, qualcuno la chiama faccia tosta. Nessuno, mai, deve avergli fatto notare quanto lui stesso si fosse ben preparato per la nord, preparato a tal punto da non portarsi dietro nemmeno un paio di dignitosi ramponi, da non riuscire a tirare da “primo” di cordata nemmeno un metro lineare della nord … Mi correggo, qualche metro da primo lo fece. I compagni gli affidarono infatti il comando della cordata in discesa, lungo la via normale, su terreno facile …
… peccato che si perse. Questo, fino a prova contraria, recita la storia. Fortunatamente dal cilindro uscì Heckmair.
Dino Piazza, nome noto fra i Ragni di Lecco di cui ne è stato per lunghi anni Presidente, ha detto: “Tutti coloro che hanno condannato Claudio, dovrebbero andare da lui a chiedergli scusa. Compreso Cassin”. Mi fermo qui.
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