“Appennino Toscano, fra tradizione e cultura” di Giuliano Pierallini

Annuario 2006

Scrivere di “cultura e tradizioni” dell’Appennino Toscano si è rivelato, da subito, un compito improbo, mancandomi, lo confesso, pressoché totalmente, riferimenti e fonti alle quali poter attingere per, una volta depurate e sfrondate di quanto non attinente al tema, assemblare un qualcosa di decente che potesse rendere almeno una parvenza di un tema così sconfinato.Ciò nonostante, spinto dall’impegno preso, e soprattutto dall’interesse crescente che è andato via via costituendosi, ho cominciato a lavorare su alcuni testi individuati nella biblioteca sezionale, su altri che fanno parte del mio piccolo patrimonio personale, decidendo, per non affogare in un mare sterminato, di individuare alcune isole, nelle quali, a mio modestissimo avviso, si potessero prendere in considerazione elementi che hanno costituito e costituiscono tutt’ora un patrimonio che, se non riportato di tanto in tanto a galla, corre il rischio di essere dimenticato o peggio disperso.

L’Appennino cinge la Toscana a nord lungo una diagonale che va da Pontremoli a Sansepolcro, proprio come le Alpi proteggono la nostra nazione dal resto d’Europa, misura, in linea d’aria, un po’ più di duecento chilometri, lungo i quali si aprono numerosi varchi o passi, attraverso i quali, sin dalla preistoria, sono transitate genti diverse. Alcune vi hanno trovato stanza, la maggior parteun semplice passaggio, almeno sino a quando la storia non è stata in grado di attribuire un nome a queste popolazioni, individuarne le caratteristiche, comprenderne le motivazioni, seguirne le vicende. Lungo la nostra penisola, sulla quale, nel corso degli ultimi duemila anni, hanno passeggiato le più diverse etnie, terra di scambi e di conquiste. Grazie alla conformazione del nostro Appennino, con valichi relativamente bassi ed accessibili, i passaggi più numerosi, prima di dilagare nella collinare Umbria, nelle piane maremmane, nell’invitante agro laziale. Come dicevo prima, in questo mio sforzo, che spero non inutile, avrei individuato quattro aree sulle quali, da ovest ad est, concentrare l’attenzione e precisamente il crinale che va dal passo dell’Abetone a quello dell’Oppio, l’Appennino lucchese, quello pistoiese ed infine quello casentinese.

San Marcello Pistoiese
Dirò subito che Giovanni Bortolotti e Carlo Beni mi sono stati maestri e così, ogni volta che riprenderò alcune loro insostituibili citazioni, sarà, da parte mia, doveroso far seguire i loro illustri nomi. In questo primo settore è individuabile un toponimo che si colloca indubitabilmente fra i più ricchi di ricordi storici, di leggende, di rivelazioni misteriose, di voci tramandate da tempo immemorabile, ai quali, pur con il dovuto raziocinio, resta difficile non dar credito, anche perché, a certe tradizioni, si finisce con l’affezionarsi. Parlo del comprensorio che ha al centro il lago Scaffaiolo, peraltro in provincia di Modena, una piccola pozza cerulea racchiusa fra dossi erbosi che d’inverno scompare sepolto dalla neve e dal ghiaccio, d’estate brilla di riflessi, in particolare se visto dall’alto del Cupolino ove ancora si può’ godere della idillica visione del sempre più raro giglio martagone.

Scrive il Boccaccio: “Scaphagiolo…. Se alcuno da per se, over per sorte, sarà che gietti una pietra o altra in quello, che l’acque mova, subitamente l’aere s’astringe in nebbia e nasce di venti tanta fierezza, che le querele tortissime e li vetusti faggi vicini, e se spezzino o escansi dalle radici”. Nota maliziosamente il Bortolotti che alberi allo Scaffaiolo non ce n’erano e non ce ne sono, per altitudine e per clima, quindi il Boccaccio avrebbe scritto cose riferite, avallando peraltro, con la sua autorevolezza, una voce che, a questo punto, viene a fregiarsi di maggior prestigio. Curioso e simpaticamente divertente è il racconto che Farinati-Uberti riporta, nelle sue memorie di Cutigliano, a proposito del Cardinale Gerolamo Farnese. Siamo nel 1658, il Cardinale, per aver voluto troppo indagare.con varie macchine, per misurare il fondo del lago, evidentemente turbandone la tranquillità, si ritrovò a dover fuggire, per non esser percosso dalla furiosa tempestarne non lasciò d’inseguirlo, fino al primo alloggiamento del bolognese. Dalla leggenda alla scienza, anche un terzetto di professori universitari degli atenei di Pisa e Pavia, indagano sul fenomeno senza peraltro assumere una posizione decisa, toccherà al Vallisneri dichiarare che “tutta questa bella novella…. È una solennissima favola“, ed infine all’illustre ed insigne Spallanzani, che fu al lago il 6 Agosto 1789, chiudere categoricamente il discorso, ponendo con le sue autorevoli parole, “una vergognosa credenza”, una pietra tombale sull’intera vicenda. E per concludere un cenno etimologico sul toponimo Scaffaiolo: “scaffa in gergo montanaro significa avvallamento, conca … In effetti si tratta di un piccolo catino a pochi metri dal crinale” (Bortolotti), una stranezza, se vogliamo, un lago in cima ad un monte! “Per una coscienza montanara occorre parlar chiaro ai montanari” scriveva il Bortolotti, circa sessant’anni addietro, a proposito del territorio degli alti crinali, parole che, pur datate, conservano ancor oggi tutto il loro valore profetico. Riassumo brevemente: ”i loro paesi sono sorti sui monti, specialmente quelli ad alta quota, come stazioni di tappa per i viandanti … da quando si sono aperte le strade di fondo, i centri montani sono decaduti … la specializzazione delle colture ha reso antieconomiche le coltivazioni … Il progresso tende inevitabilmente a rendere inutile la produzione di legna e carbone … la lana d’importazione soppianta quella ricavata dalle pecore nostrane … Si assiste ad un processo ineluttabile di declassamento ed impoverimento della montagna a favore della città e della pianura … se vi è salvezza per i montanari essa riposa … nella valorizzazione turistica ed alberghiera delle bellezze naturali”. A queste lucide espressioni aggiungerei solo due necessità, rese indispensabili dalla coscienza dei tempi attuali: consapevolezza e sostenibilità, tutto il resto può essere accademia. Valichi, vallate, viabilità, nuclei abitativi: se ne seguissimo la storia e le vicende, arriveremmo a dipingere un quadro più unitario del comprensorio che intendiamo tratteggiare, ma il discorso ci porterebbe troppo lontano.

Porretta Terme (da guideurope.it)
Un cenno a parte meriterebbe la realizzazione della Ferrovia Porrettana, il tracciato fra Pistola e Bologna che, sino alla costruzione della Direttissima, negli anni fra le due Guerre, assolveva egregiamente, malgrado la trazione a vapore, il compito di collegare nord e centro Italia, sostituendola in seguito o affiancandola in tutti quei casi nei quali, la sorella più prestigiosa, ha dovuto essere temporaneamente supportata. A sua volta la stessa Porrettana ha conosciuto gli orrori del conflitto, le sbuffanti locomotive che erano entrate a far parte, con pieno diritto, della realtà economica e sociale del comprensorio, hanno dovuto per lungo tempo disertare le rampe lungo le quali diffondevano lo sforzo della salita, ravvivato dal sibilo argentino, fresco d’energia; ponti e viadotti sono stati abbattuti, ricostruiti, abbandonati, poi ripresi, sino a che tutto lentamente è potuto tornare alla normalità ma nel frattempo l’era del vapore volgeva al termine e si è persa la poesia della trazione che ha affascinato più di una generazione.

Torniamo ai valichi che, da sempre, allontanano o riuniscono le genti, procuran difficoltà e fatica ma permettono di gettar lo sguardo ed aprirsi a realtà diverse, è indubbio che Oppio, Collina, Porretta ed Abetone rappresentino le principali realtà intomo alle quali la vita di questo tratto di Toscana, appoggiato all’Emilia, ha potuto costruire faticosamente la sua storia, le tradizioni, i commerci, le lotte di fazione, le guerre, a cominciare dalle invasioni alto-medioevali. Di questi passaggi, tanto per rimanere a tempi più vicini a noi, tramontato il sogno della via Vandelli, il collegamento fra la costa tirrenica e le pianure emiliane, considerato il non agevole transito per Porretta, prima dell’apertura del traforo della Collina, considerata anche la Futa che puntava a Bologna, sino all’apertura dell’Autostrada del sole, è stato il valico dell’Abetone quello che ha costituito la dorsale naturale da e per il nord, la via per il Brennero, il centro Europa, l’apertura a scambi e commerci di più ampio respiro. Ovviamente questo ha consentito al comprensorio attraversato di godere di ben altre posibilità di espansione rispetto ai contigui territori che mostrano tutt’ora segni di marcato squilibrio.  L’esplosione dell’interesse per gli sports invernali ha trovato le condizioni favorevoli per realizzare, lungo il valico suaccennato, la stazione più efficiente e conosciuta dell’Italia centrale, ha portato folle di appassionati, non solo locali, su queste piste, provocando nel contempo disagi e danni ambientali ma, si sa, in queste operazioni vi è sempre il rovescio della medaglia, importante è riuscire a mantenere un accettabile equilibrio che non danneggi lo sviluppo ma sia rispettoso di limiti fondamentali. Maresca, Gavinana, San Marcello, Cutigliano, lo stesso Abetone, sono centri di buon richiamo turistico, si giovano della vicinanza di centri urbani come Pistoia e soprattutto Firenze, ma, tradizionalmente accolgono anche visitatori di altre regioni, attratti dalla stupefacente bellezza delle foreste, ben curate sin dai tempi granducali, dalla attenta sorveglianza del Corpo Forestale dello stato, dalla più locale attenzione delle Comunità Montane. Gavinana e Cutigliano inoltre vantano ricordi storici non indifferenti. Per la prima ricorda il Bortolotti che “un bei monumento dovuto al Gallori ricorda l’eroe nella raccolta piazza del paese, una lapide che Massimo d’Azeglio scrisse e fece porre dice concisamente: Qui combattendo per la Patria morì Francesco Ferrucci al dì 3 Agosto 1530″.

A proposito di Cutigliano, ancora il Bortolotti dice “ è il centro più caratteristico della valle, stazione di villeggiatura fra le più importanti dell’Appennino. E’ un grosso paese, con vecchi palazzi di notevole bellezza, logge caratteristiche e pregevoli opere d’arte. E’ ben esposto, non troppo battuto dal vento, circondato da folti castagneti, con ampio panorama sia verso la valle del Sestaione che verso il crinale appenninico…. è un pregio del paese di non esser sulla statale, ma ad essa abbastanza vicino”.
Non altrettanto può’ dirsi dell’Abetone, paese che ha tutti i pregi ed i difetti del valico, amato dagli appassionati di sci, dai giovani che vi trovano i locali per riunirsi a tirar tardi, evitato da coloro che amano la quiete, la serena pace montana, la contemplazione, merci peraltro sempre più rare da trovare. Ancora qualche cenno su lavoro, tradizioni, sagre, religiosità, tutti aspetti che hanno subito profondi mutamenti, in particolar modo nell’ultimo secolo del novecento, con particolare accelerazione dopo la seconda guerra mondiale. Il lavoro in loco che era la regola, pur fra mille fatiche e sacrifici, sia d’estate che, fin quando era possibile, d’inverno, è ormai ridotto al minimo. Non si tratta più dell’attività vitale, nel vero senso del termine, ma di una caratteristica che rifiuta la
 

Abetone

scomparsa. La città in maggior parte e l’attività turistica, costituiscono oggi le maggior fonti di lavoro. A seguito di tutto ciò le manifestazioni tradizionali e lo stesso spirito reli-gioso, cemento delle piccole comu-nità che si riconoscevano all’ombra del campanile, hanno anch’esse avuto un grosso dimensionamento, sopravvivendo, in qualche caso, all’insegna di banali kermesse extraurbane, più sovente perdendo quella caratteristica umana e sociale che ne faceva ragione di ammira-zione e di studio. Su questo “imbarbarimento” detto, sia ben chiaro, senza ombra di offesa, si son versati fiumi d’inchiostro, parole, considerazioni e non si è arrivati a nessuna conclusione certa. Molto si è guadagnato, molto si è perso, difficile stabilire se, in assoluto, i diretti interessati stiano meglio o peggio, ma probabilmente la conclusione più logica porta a dire che sostanzialmente le cose non sarebbero potute andare diversamente. Chissà che in un futuro più o meno immediato non vi sia un’inversione di tendenza, un ritomo alle origini, qualche debole, isolato segnale c’è. Se son rose …


Per quanto attiene ad alcune considerazioni relative all’Appennino lucchese, vorrei prendere in considerazione quelle che mi sembrano le due valli principali: quella della Lima e quella del Serchio, anche perché, grazie sempre al Bortolotti, mi posso giovare di un’insostituibile fonte di notizie che altrimenti non saprei dove andare a trovare. Scorre la Lima, che nasce sotto il monte Maiori, affiancando la statale dell’Abetone, fra due crinali principali, uno più a nord formato appunto da Malori, Libro Aperto, Tauffi,Balzoni ed uno più a sud che corrisponde alla Foce a Giovo, Alpe Tré Potenze,Poggione, Uccelliera, Caligi. Qui la catena si ramifica, un ramo scende a Popiglio, l’altro, dopo il Balzo Nero, a Vico Pancellorum e Limano. Seguiamo il Bortolotti “Ma assai diverso è anche l’aspetto della valle nei due tronchi. La vallata dell’alto corso è ampia e riposante, nel basso corso si ha una valle stretta ed alpestre … Da questa conformazione orografica è conseguito anche un diverso sviluppo storico ed economico … L’alta valle ha sempre gravitato verso Pistoia … conveniva cioè traversare due volte il crinale appenninico ( Oppio-Piastre ) … anziché seguire il fondo valle ove, fra l’altro non v’erano centri e strade, data la necessità, nel medioevo, di costruire i villaggi in alto ed in posizioni facilmente difendibili … in origine castelli in difesa di Lucca … solo dal 1860 è stata aperta la strada Ponte alla Lima-Bagni di Lucca e questo ritardo è anche imputabile al governo granducale che, pur avendo conglobato il ducato lucchese nel proprio territorio, preferiva che il traffico si indirizzasse verso Pistoia( e quindi più prossimo a Firenze ), anziché verso Lucca”. Per inciso, come ricorda Piero Ducceschi in un suo scritto, i primi scopritori di questo comprensorio fra Pistola e Lucca, come in tantissime altre occasioni, non importa si tratti di Alpi, Appennini o isole, furono gli inglesi, sempre presenti nelle più disparate iniziative, grandissimi viaggiatori. Il torrente Sestaione affluisce nella Lima poco a monte di Cutigliano, dopo aver lasciato la natia sorgente alle Tré Potenze, costeggia il Pian degli Ontani ove ancora non si è spento l’eco della “poetessa” Beatrice, forse il più fùlgido esempio di quegli improvvsatori, gente comune dotata d’estro poetico che, particolarmente fra questi monti eran soliti “cantare l’ottava”, declamare “rime che cedono spesso il posto all’assonanza”.

Beatrice Bugelli, la pastora di Pian degli Ontani, era nata nel 1802 ed era morta nei luoghi ove aveva sempre abitato nel 1885, “si levò il gusto di veder salire alla sua casetta, letterati ed artisti e notabilità di ogni sorta per sentirla cantare di poesia”. Il Tommaseo la ricorda nella prefazione dei Canti popolari toscani, di lei, che non sapeva leggere ne scrivere, ma solo improvvisare, son noti i versi “che spesso ripeteva come per scusarsi”:

Non vi meravigliate o giovanotti
Se non sapessi troppo ben cantare
In casa mia non c’è stato maestri
E neanco a scuola son ita a imparare,
Se voi volete intender la mia scuola
Su questi poggi all’acqua e alla gragnola
Volete intender voi lo mio imparare?
Andar per legna e starmene a zappare

La pastora “umile pia benefica, cara alle toscane Muse”, riposa ora nel cimitero di Pian degli Ontani ove le rese omaggio anche Ferdinando Martini. C’è una foto dell’alto Appennino lucchese, scattata dalla cima della Penna di Lucchio, da una comitiva di giovani gitanti d’anteguerra, che abbraccia, da destra a sinistra, l’intera giogaia di monti che a noi interessano, dal prato fiorito alla Piastra, lungo il Rondinaio, la foce di Capolino, il Balzo Nero, mete che già rivestivano un certo interesse, pur non essendo il salire i monti attività privilegiata. Giunti a Popiglio ci soccorre nuovamente il Ducceschi “con la pieve romanica di eleganza rara e dal pulpito in cui un artefice dugentesco scolpì un Ultima Cena e uno snello San Giorgio; in mezzo ai vigneti che appaiono insoliti a quell’altezza (i soliti maligni dicono che per bere quel vino bisogna essere in tré, uno che lo beve e due che lo reggono)”. Dice un vecchio detto “Lucchio, Limano e Vico, son tré paesi che non valgono un fico”, cattiverie a parte, almeno di Vico Pancellorum  è necessario dire qualcosa, se non altro per quella “strana desinenza latina che si vuole sia una corruzione di panis coelorum, cioè l’ostia santa, ed in effetti uno stemma sopra una porta mostra una pisside”(Bortolotti). Altri fanno risalire il nome alla famiglia romana Fancelli o Pacelli, lo stesso linguaggio parlato “ha strane attinenze col dialetto romano” vi si praticano “le lamentazione pubbliche per i morti, come si usava nel Lazio. Sono ipotesi curiose ma non più di quelle che si riscontrano a Fiumalbo, nel versante modenese, ove il dialetto locale ripete “strane cadenze venete”(Bortolotti), effetti dovuti assai probabilmente alla esistenza di grandi vie di comunicazione.
 

Fiumalbo

 

“Io non ho mai veduto più incantevole vallata, soprattutto quando dalla terrazza del Bagno superiore s’immerge lo sguardo giù nel villaggio. Si vede il ponte che passa sopra un piccolo fiume, chiamato Lima ...”. Così Enrico Heine, ospite a Bagni di Luca, esprime le sue sensazioni d’artista raffinato e di appassionato viag-giatore. Il sito che ebbe in passato momenti di vivo splendore, testimo-niato dalla presenza di celebrità nazionali e straniere, sino all’unifi-cazione del Regno d’Italia, vedendosi tolta “la prerogativa di capitale estiva, prima del Ducato di Lucca, poi del Granducato di Toscana, venne indirettamente a veder diminuita la sua importanza sul piano della moda”(Bortolotti).

Giace il castel di Montefegatesi
Sopra una dura pietra alabastrina….

Il toponimo “deve il suo nome al sottostante torrente Fegana o al colore fegatoso delle sue argille” spiega ancora il Bortolotti.

Astuta gente, e caveren quattrini
Di borsa al Diavoi con li scalpellini….
Agli interessi lor son così astuti
Che per necci mangiar vendono il grano
E per grazia del ciel son provveduti
Di una fonte eh’è simile al trebbiano:
Acqua necci e polenta è la vivanda
E li fa sempre vivere alla granda!

Così un anonimo verseggiatore del  XVII0 sec. che conferma la fama degli abitanti del paese, riconosciuti attivi ed intraprendenti. Conclude il Bortolotti: “I panorami vastissimi delle Tré Potenze, le folte selve del Sestaione, le pareti dirupate e gli appicchi del Balzo Nero, la superba solitudine della verde conca di Siviglioli, le olezzanti praterie del Prato Fiorito, la paurosa voragine dell’orrido di Botri, l’aspetto caratteristico e ben conservato dei borghi di Lucchio e Vico Pancellorum, i monumenti architettonici e le bellezze artistiche della Controneria, ed infine la grazia schiva, ma avvincente, dell’ultimo tratto del corso della Lima, quando superate le strette di Cocciglia, la vallata si apre e si raddolcisce nei dossi erbosi, nei giardini e nelle ville di Bagni di Lucca, ecco un campionario di bellezze …”.

Resta ora da parlare dell’altra celeberrima valle della lucchesia, quella del Serchio che scorre dall’alta Garfagnana sino all’abbraccio con il mare a San Rossore. Non è possibile concentrare in poche espressioni questo mondo così vario e complesso ed allora la soluzione che mi è parsa più azzeccata è quella di riportare le parole di Lorenzo Viani, pittore e scrittore viareggino, quindi quasi di casa, che ne fa una presentazione a volo d’uccello, lasciando alla fantasia, alla conoscenza, al ricordo di ognuno, il completamento del quadro. Dice il Viani: ”Quelli dell’alpe, dal santuario di San Pellegrino e di San Bianco (San Pellegrino mangiava i lupini e San Bianco si cibava delle gusce) avevano appreso dai loro Santi protettori la parsimonia e la rinunzia. I Barghigiani assennati e probi, pazienti e temerari, ebbero il loro viatico per le lunghe traversate dallo stemma della loro città, in cui è scolpita una barca a vele aperte”. Una barca, un grande vascello con il tozzo albero del campanile, rastremato di catene, sembra lo storico Duomo e le muraglie dell’Arengo appaiono come dei poderosi antimurali di un porto sicuro. In una delle casette, piccole sotto la grande mole, fu pronunciato da Giovanni Pascoli il profetico discorso” La grande proletaria si è mossa”. A Barga è un monumento al barghigiano Antonio Mordini, prodittatore di Garibaldi, e quello ai molti barghigiani caduti nella grande guerra E v’è il Colle di Caprona, dove dorme il sonno dell’eternità Giovanni Pascoli, entro un semplice sarcofago, scolpito da Leonardo Bistolfi. “Qui, sotto Caprona, la Corsonna batte, non veduta, il maglio del biondo domatore del ferro e stiocca, passando per andarsi a frangere sui greti del Serchio, che poco lungi inghiotte la Lima rauca, che lì presso ha bevuto a risucchio il brontolante Campione dalle acque di smeraldo, in cui si stemperarono i folti delle acacie, le ceppale dei tremuli faggi, il chiacchierio dei pioppi e degli ontani, e i lenti singhiozzi dei botri e degli orridi. Il Serchio va al possente anelito del mare passando sotto le cinque arcate del Ponte del diavolo, arditissimo, cuspidale, poi tra i greti e i ratti, or tenue come un’acciata di seta, or soverchiante di acque impetuose e torbe, passa coccolando o rombando sotto il ponte a Moriano e più giù, si sottomette a un grande basto di pietra su cui è la statua di San Frediano, antico vescovo di Lucca, che per salvar la città dalle inondazioni deviò con un rastrello, il fiume, che allora si chiamava Ausercolo”.
 

Giovanni Pascoli a Caprona (da il Giornale di Barga)

 


E’ un affresco indubbiamente vivace fatto, da buon pittore, di pennellate piene di colore, vi si sente l’amore e la partecipazione umana, l’ammirazione per le genti, la celebrazione del Pascoli, il dialogo con le acque che copiose calan dai crinali e scivolano verso Lucca ove, più volte, han causato dei guai, tant’è che i padri, rivolgendosi ai figli spendaccioni, eran soliti dire: “tu mi costipiù tè d’i Serchio a lucchesi”. Dispiegando una carta del territorio casentinese, colpisce a prima vista come l’Amo,”quel fiumicel che nasce in Falterona e cento miglia di corso noi sazia”, bipartisca pressoché esattamente il vasto comprensorio racchiuso fra il Pratomagno ed il crinale del Falterona-Falco, l’Alpe di Serra, l’Alpe di Catenaria ed i monti della Badia di S.Trinita. Così come per l’Appennino settentrionale toscano mi sono affidato senza esitazione alcuna, al Bortolotti,  impareggiabile maestro  di  ogni risvolto  e  curiosità,  scendendo più a sud-ovest nell’Appennino casentinese, mi son trovato difronte, avendo deciso di trovare una guida che mi mostrasse la via, ad una scelta più che obbligata: quella del Gr. Uff. Aw. Carlo Beni, storico illustratore delle sue terre, nato a Stia nel 1849 e morto a Firenze nel 1932. Nessuno meglio di lui, pur in un tempo ormai lontano, ha saputo cogliere gli splendori e lo spirito della terra natia, altri vi sarebbe stato, in tempi a noi più prossimi, ed una sua pubblicazione “Pane asciutto e polenta rossa”, pubblicata postuma, risulta a questo proposito folgorante, ma ahimè, il caro amico Piero Della Bordella ci è stato rapito troppo presto e si è portato con sé quel patrimonio che oggi, lui vivo, gli avrebbe permesso di scrivere queste note con ben altra competenza e vivacità. La presenza in Casentine di tré elementi essenziali per lo sviluppo di un qualsiasi insediamento: foreste, monti e sorgenti, consente di affermare che una civiltà antichissima, testimoniata da ritrovamenti litici e fìnanco da un sepolcreto, ha percorso, su queste terre, un lungo cammino, ma oltre a questo non possiamo aggiungere elementi di maggior concretezza.

Sempre per rimanere nell’età primitiva, come la definisce il Beni, decisamente importante appare il periodo etrusco che si colloca, nel tempo, assai prima di quello greco e romano. Fortunati ritrovamenti, non sempre purtroppo ben gestiti, ci permettono di gettare una luce su modi di vivere, di vestire, su armi, suppellettili, custodie funerarie di un periodo che approssimativamente va dall’800/700 a.C. al 300/200 a.C. I bronzetti del lago degli Idoli, in prossimità delle sorgenti dell’Amo, sparsi per incredibili vicende, in massima parte fra Londra e Parigi, e solo in pochi esemplari presso di noi, sono testimonianza di uno sviluppo prematuramente ed inspiegabilmente scomparso, che aveva comunque raggiunto, nel periodo di massimo fulgore, in particolar modo nelle lucumonie dell’Italia Centrale, come nota il Pinotti, le vette di “una splendida civiltà”. Testimonianze ci son giunte dal periodo romano, dai primi tempi del Cristianesimo, dal periodo longobardo, a riprova di quanto antica e copiosa sia la memoria di questa terra, ma non essendo il nostro un intendimento storico specifico, veniamo subito a fatti certi, la cui prima traccia si trova in un memoriale attribuito a Carlo Magno nel 774. Gli inizi documentati del Casentino si identificano, per buona parte, con la storia della famiglia dei conti Guidi che (Beni) “trovasi mescolata ai principali avvenimenti della Toscana e della Romagna dal X° al XV° secolo, tale e tanta era la sua potenza”.

Le notizie più remote della famiglia Guidi risalgono a Tegrimo, conte Palatino di Toscana (IX°) sec, dignitario di gran conto perché soltanto con quel titolo si era ammessi a dimorare nel palazzo imperiale. Nel sec.XIIP tutto il Casentine fu completamente assoggettato in provincia feudale sotto la dinastia dei Guidi che avean possedimenti anche a Firenze ove furono chiamati anche a reggerne il governo, finendo con l’attirarsi i timori della Repubblica per la loro crescente potenza. Fra i mèmbri della famiglia emerge grandiosa la figura di Guido Guerra del quale Dante dice:

“Nipote fu della buona Gualdrada
Guido Guerra ebbe nome, ed in sua vita
Fece col senno assai e con la spada”

L’Alighieri fu più volte ospite, “mentre errava esule e ramingo in cerca di un tetto ospitale”, della famiglia che tenne la signoria del Casentine fino al 1440. Cita il Pinotti nella Storia della Toscana del 1843: “Una pagina importantissima della storia del Casentine è quella che si riferisce allo stabilimento delle Congregazioni monastiche, alla fondazione dei varii Asili eremitici e all’opera benefica di quella pacifica e valorosa milizia, le cui imprese civili furono, come dice il Giacchi molto più utili delle battaglie napoleoniche; perché guidata da viva fede e da ferrea volontà, seppe combattere la più ardue delle battaglie, quella cioè contro la tirannide e l’ignoranza, e cooperare inerme, povera e sola contro la prepotenza dei grandi, conservando nel quieto asilo del chiostro le ultime scintille della morente libertà e gli ultimi avanzi della scienza avvilita. E quando sotto il dominio dei barbari le arti e le lettere si riguardavano come cose volgari e indegne di un guerriero e di un nobile, gli Ordini monastici seppero conservare quel poco di letteratura ch’era rimasta in Italia”. “ Nella prima metà del XV° sec. il Casentine passò in potere della Repubblica Fiorentina e, quando questa alla sua volta perde la propria libertà, divenne esso pure Signoria dei Medici, per esser poi, come il resto della Toscana, soggettato al governo della Casa d’Asburgo-Lorena” (Attilio Zuccagni-Orlandini). Girovagando per l’incantevole territorio si rimane colpiti, sia dalla magnificenza dei monti che dai fondovalle, dalla ricchezza delle acque, dal frequente,sonoro ruscellare, dalla rigogliosità dei vegetali copiosamente irrigati.

Parlare dei fiumi e dei torrenti richiederebbe una trattazione a sé stante, ma citarne alcuni è doveroso, memori anche dei versi danteschi che evidentemente riportano le struggenti suggestioni del Sommo Poeta. L’Arno in primo luogo, l’Archiano, il Corsalone, il Fiumicello, il Solano, tanto per citarne i più noti ed i più richiamati, fascino di liquidi scintillanti al sole, al quale come avrebbe potuto resistere l’Immaginifico D’Annunzio che, dopo aver dichiarato che qualora non fosse nato in Abruzzo, avrebbe voluto esser casentinese, così verseggiava:

Su i pianori selvosi
Ardon le carbonaie,
Solenni fuochi in vista.
L’Amo luce fra i pioppi
Stormire grande ad ogni
Soffio, vince il corale
Ploro dei flauti alati
Che la gramigna asconde.
E non s’ode altra voce.
Dai monti l’acqua corre a questa voce

Dal sito del Parco delle Foreste Casentinesi
Le foreste rappresentano il tesoro del Casentine, lo sono state in passato, lo sono attualmente, hanno subito varie vicissitudini, hanno conosciuto miserie e splendori, ma hanno avuto la fortuna di trovare sempre una sponda sulla quale poter contare, in antichità i monaci, poi i Medici, quindi i Lorena, grazie all’accorta opera dell’ispettore forestale Carlo Siemoni; attualmente il Parco Nazionale che mantiene quanto ha ereditato, con grande amore e competenza, tanto da poter dire che sono, le Casentinesi, fra le foreste più incantevoli e meglio tenute del nostro Paese. Ma che gente sono stati e sono i Casentinesi? Dice il Brogialdi: ”Gli abitanti del Casentine ne’ volti, negli atti e ne’ costumi tengono del toscano ed insieme del romagnolo: semplici e schietti, non sono senza grazia mai: ruvidi a prima vista, sono poi, quando li provi, trattabili e larghi di cuore”. Anche queste terre, come tante altre, hanno conosciuto l’emigrazione, un fenomeno che ha contribuito assai a snaturare gli usi e costumi della montagna perché, non sempre, chi ritorna, se ritorna, è portatore delle semplici idee e del quieto vivere, delle doti, in sostanza, che possedeva al momento della partenza, pur considerando la fame e le privazioni che dovevano esser tante.

Vestiti ed usanze  hanno seguito la progressiva evoluzione, i tessuti semplici fatti a mano, nelle case, dalle vecchie ormai impossibilitate al lavoro dei campi, filando la lana delle pecore di modesti greggi, hanno lasciato spazio, cresciuto il tenore di vita, anche a discapito della propria identità, alla moda cittadina anche se, la stoffa casentine, rappresenta pur sempre un capo ricercato, dai colori inconfondibili, in specie il carota, dal fascino semplice ma signorile. Han cessato di esistere manifestazioni tradizionali come la scampanata della Befana, quella ai vedovi che si risposano ed anche il cantar Maggio s’è ridotto a rarissimi esempi ripresi, non più spontanei, così come le serenate all’amata( ultimo giorno del mese mariano) quando la cerimonia rifletteva, nel suo svolgersi, il comportamento della fanciulla.

Lingua parlata e canti popolari sono “un’immagine del cuore e della fantasia di un popolo” così G.B.Giuliani in Del vivente linguaggio della Toscana, in effetti, fino all’ultima guerra, nelle campagne e nelle montagne, vi era gran varietà di idiomi, modi di dire, vecchie espressioni che si tramandavano di generazione in generazione, proverbi, esclamazioni, sostanzialmente se non si può’ dire che la lingua fosse più evoluta, certamente bisogna affermare che fosse più spontanea, più viva, più aderente ai concetti che si volevano esprimere, pur in presenza di una cultura tanto più modesta. La lingua toscana si imponeva nella letteratura colta ed in quella quotidiana, del resto il Giusti,argutamente faceva notare che “noi toscani a scrivere e a parlare correttamente abbiamo lo stesso merito che ha un uomo diritto a non esser gobbo”. I canti popolari sono purtroppo pressoché scomparsi, vengono riesumati solo in rarissime occasioni, ma hanno perso quell’immediatezza e freschezza che li rendeva vivi nella grande semplicità espressiva. I soggetti erano più o meno i soliti dell’immaginario tradizionale: amore, odio, passioni, sentimenti; alla festa della trebbiatura o in qualche sposalizio, due compari si ponevano difronte ed iniziavano “una scherma di botta e risposta in rima, usando le famose ottave, dette con speciale cantilena, le quali mandavano in visibilio gli spettatori”.(Beni). Fra quelle che ci son giunte, ne riportiamo due che si rifanno ai rispetti o dispetti amorosi:

Se tu sapessi il bene ch’io ti voglio
A casa mia non ci verresti mai;
Quando ci vieni tu rompessi il collo,
Salvo la compagnia, se tu ce l’hai.
E quando io canto non pensate a bene,
canto dalla rabbia che mi viene;
E quando canto a bene non pensate,
canto dalla rabbia che mi fate.

Eremo di Camaldoli
Resterebbe, prima di concludere questa panoramica, fatta veramente a volo d’uccello, dire qualcosa delle opere d’arte o comunque dei beni di notevole interesse che, in Casentine, sono innumerevoli. A parte quelli che tutte le Guide riportano, luoghi che ormai hanno acquisito una consolidata importanza, come: Camaldoli, La Verna, Poppi, Bibbiena, sorprende che, girando a piedi, come siamo soliti fare noi escursionisti, ci si imbatta assai spesso in gioiellini sperduti, ignoti ai più,talvolta dimenticati che, scoperti al ritmo silenzioso dei semplici passi, in ambienti solitari, soventeammantati di vegetazione o raggiungibili con difficoltà, offrano squarci indimenticabili di grande originalità od una rara unità artistica. L’elenco è assai lungo, proporrò solo qualche toponimo: Santa Maria delle Grazie, Romena, Porciano, Badia Frataglia, Chitignano, Pieve a Socana, Caprese Michelangelo, Castel san Niccolo.

E qui mi fermo perché mi accorgo che, pur nella sua incompiutezza, il discorso è venuto sin troppo lungo. Spero di aver reso, con la modestia della mia esposizione, ravvivata dalle dotte citazioni di coloro che mi son stati Guide in questa impresa, l’interesse che via via ha preso me, sino al punto di leggere e rileggere i volumi che avevo preso in consultazione. Anzi, a chi fosse preso dalla curiosità di approfondire quanto ho appena potuto accennare, consiglio di passare in Sezione e chiedere, al fido Renato, del Bortolotti e del Beni, e gustarne con attenzione l’intelligente, appassionata esposizione, una lettura viva e spiritosa, che ci riporta alle origini della nostra montagna, nella quale più volte mi son trovato ahimè a ricordare, una lettura che restituisce intera la grandezza di questa nostra terra difficile, non seconda a nessuno per spirito, cultura, inventiva.
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