Maggio 2006
Molti mesi fa chiesi a Tommaso Magalotti un contributo su Bepi de Francesch. Più motivi mi spinsero a farlo, primo fra tutti il desiderio di offrire ai lettori una testimonianza su una figura significativa dell’alpinismo italiano ed extraeuropeo, ma anche l’esigenza di lasciare …una traccia autorevole sul volume commemorativo dei 50 anni della Piaz essendone stato, Bepi de Francesch, istruttore per alcuni anni. Una storia, quella di Bepi, che, in modo a dir poco insolito per un alpinista, va ad inserirsi nella vita e nelle vicende pubbliche della nostra città. Motivi di spazio, dovuti a più cause, ne hanno purtroppo penalizzata la pubblicazione sul volume della Scuola. Non poteva tuttavia andare perduta la squisita disponibilità di Magalotti che, da subito, si è dimostrato sensibile alla mia richiesta. Affidiamo quindi il Suo contributo alle pagine della Rivista, sicuri di far cosa gradita ai Soci. Tommaso Magalotti non ha certo bisogno di presentazioni, grande appassionato di alpinismo è Socio Accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna. Proprio alla montagna, e con inesauribile passione per la ricerca storica, ha dedicato gran parte delle Sue opere. Lo ringrazio per avermi amichevolmente concesso alcune pagine di indubbia qualità e valore storico.
Roberto Masoni
Sono passati molti mesi dal giorno in cui, in Val di Fassa, a Moena, fu ufficialmente presentato “Mani da strapiombi. Bepi de Francesch: un volto, una storia” (Nuovi Sentieri Editrice). Un tempo sufficiente per fare dei bilanci, alla luce non soltanto del risultato editoriale ma delle valutazioni che mi sono pervenute e cioè di quanti hanno sentito i! bisogno di parlare del libro con recensioni sulla stampa, con lettere al sottoscritto, con telefonate e riferimenti verbali.
Quando mi accinsi al lavoro, nelle mie intenzioni c’era la volontà di realizzare un documento che fosse testimonianza di una vita appassionata che alla montagna ha dato il meglio di se stessa. E a mio parere valeva la pena scriverlo per far sapere soprattutto alle nuove generazioni con che cuore e con che spirito certi uomini che hanno fatto la storia dell’alpinismo, vivevano questa dimensione che non era mai disgiunta – e questo era particolarmente necessario sottolinearlo – da quella più globale di una società in cammino con tutti i suoi problemi, i suoi entusiasmi, le sue sofferenze e le sue contraddizioni. Ed inoltre volevo cercare di realizzare un libro che rendesse merito e per tanti versi giustizia ad un grande dell’alpinismo: Bepi de Francesch.
Molto di più per la sua attività umanitaria nei grandi salvataggi di vite umane, che per le sue grandi imprese sulle pareti dolomitiche che erano sì il sale della sua vita, ma che nelle sue stesse considerazioni era solito mettere in secondo piano rispetto alle prime. Nei trentanove capitoli che hanno finito con il comporre l’opera scorrendo le tappe fondamentali del cammino di questo uomo, si dovrebbe leggere in filigrana anche la storia di generazioni che, talvolta, nella tragicità delle vicende in cui furono coinvolte, hanno saputo tenere sempre alta la fiamma della propria dignità, rivendicando a se stesse il diritto di essere popolo di una nazione, orgogliosa delle proprie origini e del proprio pensiero. E in questo senso soprattutto il lettore non più giovane dovrebbe intravedere per coscienza diretta o riflessa, frammenti, riferimenti, momenti particolari, appartenenti alla sua stessa storia personale. Tanto più se appassionato di montagna, di alpinismo, perché allora si dovrebbe trovare addirittura coinvolto, partecipe con la sua passione nelle vicende nel libro narrate.
Dal mio punto di vista “Mani da strapiombi” doveva superare i limiti biografici – asse portante della sua strut-tura – per coinvolgere interamente il mondo della montagna. Per stimolare il lettore a chiedersi, a interrogarsi sul proprio modo di vivere il territorio – quello montano appunto – e la stessa passione dell’alpinismo. E ciò perché non sia soltanto mera presenza o esercizio fisico o risultato atletico, ma costruzione cosciente, appassionata, duratura, capace di coinvolgere gli strati più profondi di una coscienza. In condizione di distinguere anche i momenti della vita con un contributo, una partecipazione attiva nella costruzione, oggi, di quella che sarà la società del domani. Tanto per intenderci: una vita interamente spesa nell’alpinismo per l’alpinismo, non ha molto senso. E’, a mio avviso, una visione miope ed egocentrica, utile a nessuno, nemmeno a se stessi. Fatte tutte queste premesse, fissati certi punti cardine, la possibilità di una valutazione del libro, a mio avviso, è oggi possibile e dalle risposte che mi sono pervenute non posso che dichiararmi soddisfatto non tanto per me, ma per il motivo che il libro sembra aver raggiunto il suo scopo. Bepi de Francesch infatti è sempre apparso erroneamente una figura di secondo pianci. Qualcuno dice perché era un artificialista. Non è verol Cesare Maestri – che io personalmente reputo tra i più forti alpinisti della seconda metà del secolo scorso – lo è stato altrettanto e in qualche caso più spudoratamente (mi si passi il termine!), ma da sempre, quest’ultimo continua, all’occorrenza, ad essere l’interlocutore ufficiale dei media, la bocca della verità e dell’esperienza per ogni fatto, ogni problema che interessi l’alpinismo. E ciò è molto significativo.
Bepi de Francesch – a parte la sua sem-plicità e la sua modestia, incapace di sgomitare, di indignarsi – nella sua car-riera alpinistica è sempre stato adombrato dal fatto di appartenere al Corpo delle guardie di Pubblica Sicurezza e ciò avveniva al tempo della guerra fredda, al tempo in cui i servitori dello Stato venivano definiti gli sbirri e a Milano e a Bologna venivano fatti bersaglio col lancio dei cubetti di porfido delle strade… E se la presenza di un de Francesch in Val di Fassa assieme a quei suoi che aveva saputo cosi bene far crescere e addestrare all’inferno della Scuola Alpina di cui era istruttore capo, suonava come una tacita garanzia nei momenti neri della montagna, delle disgrazie alpinistiche, dei soccorsi e dei recuperi, non lo era più nei discorsi circa le sue grandi imprese dove l’entusiasmo andava in un certo qual modo attutito perché tanto lui era della Polizia. Questa è la verità! E per essere servitore dello Stato – bisogna aggiungere – quanti anni di possibile alpinismo ad alto livello sono venuti a mancare nella sua carriera!
A confermare che il libro era bene scriverlo solo due testimonianze che penso possano benissimo includere tutte le altre: una del cosiddetto uomo della strada, un operaio che ama la montagna ma che non ha mai fatto scalate, l’altra di Luisa Jovane, esponente di primo ordine dell’arrampicata libera moderna, troppo conosciuta, troppo famosa per tracciarne qui un seppur minimo profilo. II primo, dopo la lettura del libro, va quasi di proposito a Moena. Mi scrive una cartolina: “Sono andato sulla tomba di de Francesch. Ho pianto. Cordiali saluti” Diversi giorni dopo, incontrandomi, ritorna sul discorso e mi dice: “Spesso vado a rileggere passaggi del tuo libro e sono portato a fare riflessioni confrontando la mia vita con quella di de Francesch”. Luisa Jovane invece mi ha scritto una lunghissima lettera dicendomi, tra l’altro, che la lettura del libro “mi ha fatto rivalutare completamente un personaggio che avevo sempre solo giudicato, erroneamente, basandomi sulla relazione tecnica delle sue vie, praticamente dal numero di chiodi usati. Nulla sapevo della grandezza umana della persona, del suo spirito semplice ma capace di osservazioni profonde (…) ho anche scoperto un Bepi “alpinista” di grandi capacità, e non solo “muratore.” (così i cosiddetti ‘puristi’ dell’arrampicata, nell’ultimo quarto del secolo scorso, definivano, con un certo disprezzo, chi arrampicava in artificiale, nda), che si è trovato ad andare in montagna in un certo periodo dell’evoluzione dell’alpinismo che l’ha obbligato a percorrere un certo cammino. Se avesse usato per altri scopi le ore di allenamento passate a martellare la roccia, e sfruttato i suoi avambracci per stringere gli appigli, avrebbe raggiunto i massimi livelli nell’arrampicata libera. Probabilmente l’ambiente attuale dell’arrampicata sportiva, con la piega che ha preso ultimamente, lo avrebbe presto disgustato. (…) La lettura mi lascia con il rimpianto (e la vergogna) di non aver avuto l’occasione di incontrare personalmente il Bepi, cosa che sicuramente, avrei fatto se avessi letto prima la sua biografìa “.
Ho impostato questa lunga premessa non tanto per parlare del mio libro, ma ritenendola utile perché il lettore possa andare oltre alle poche cose che dirò in merito al rapporto che Bepi de Francesch ebbe con il Cai fiorentino e la città di Firenze. E si renda conto che la Scuola “Piaz” ebbe in lui un maestro di grande spessore che nella semplicità dei gesti e dell’insegnamento (erano sue carat-teristiche) sapeva trasmettere tutta la grandezza della sua anima inferiore. Se una cosa si può imputare alle moderne scuole di arrampicamento, in linea generale è proprio questa: la mancanza di anima, mentre ci si perde in un supertecnicismo eccessivo in nome della cosiddetta sicurezza. Giustissima quest’ultima! ma l’allievo ha bisogno di sentire anche tutto quel calore umano che lo introduca nel fascino complesso della montagna rendendolo – come noi crediamo – più uomo e ciò va ben oltre il nodo prusik o il mezzo barcaiolo. Altrimenti la scuola resta il fuoco di un momento che presto si spegne, spesso lasciando spazio alla ricerca di altre sensazioni effimere. E le nostre scuole sono rivolte alla gioventù! Tra il carteggio che mi è servito per scrivere la biografia c’è una lettera su carta intestata Scuola Alpinistica” Piaz” Direzione.: via Castelfidardo, 12 Firenze. E’ firmata Marino. Si tratta di Mario Fabbri, uno dei fondatori della Scuola e primo direttore, che tuttavia si è sempre firmato e fatto chiamare Marino determinando qualche dubbio o perplessità. E’ datata 27 marzo 1956. “La ragione per cui ti scrivo (oltre che per darti mie nuove) – recita una parte – è soprattutto da ricercarsi nel fatto che voglio averti nella nostra Scuola. Ti accludo, per questo scopo, un modulo che tu dovrai riempire e che mi rimanderai appena possibile. Sono veramente felice di averti fra noi – nella sezione accademica -. Sono certo che ne sarai felice anche tu…un giorno! Appena avrò ricevuto l’accluso modulo, debitamente riempito di tua mano, io ti farò avere la tessera che comprova il tuo alto incarico”. Mario Fabbri è un assiduo frequentatore della Val di Fassa, delle Dolomiti. Ha una carica di entusiasmo incredibile. Cerca di essere, oltre che un ripetitore, un realizzatore di vie nuove. Riversa poi la sua passione nella sezione fiorentina del Cai che ha già di per se stessa una storia di grande spessore. E’ intendimento del Fabbri avviare il maggior numero di soci a una vera scuola della montagna e dell’arrampicata. Essa deve rivelarsi come una risposta positiva per una gioventù che porta ancora troppo evidenti i segni della disgregazione sociale e della guerra. La ricostruzione è appena cominciata. Ai giovani delusi dal fascismo bisogna dare nuovi ideali e nuovi entusiasmi. Per lui la montagna è quindi il luogo della rigenerazione e l’arrampicata il modo per recuperare la fiducia in se stessi, nelle proprie capacità.
Se a Monza nascono i Pel e Os, a Lecco i Ragni, a Cortina gli Scoiattoli, i Bruti della Val Rosandra a Trieste, come motivo di aggregazione giovanile e di entusiasmi, a Firenze nasce, in particolare con il suo impegno, la Scuola di Alpinismo “Piaz” che mutua il nome dalla grande guida fassana, il diavolo delle Dolomiti, scomparsa da non molti anni, ma il cui nome ha marchiato indelebilmente le pareti delle montagne della sua valle e non solo. Risulta chiaro in Mario Fabbri il fascino esercitato da quel mito-leggenda che porta il nome di Tita, e rincontrare successivamente su e giù per quelle stesse montagne Bepi de Francesch, il vincitore del grande diedro dei Mugoni, che ormai in parecchi definiscono come il nuovo diavolo delle Dolomiti, non può che suscitare in lui un forte motivo d’interesse con il conseguente desiderio di contatti con il personaggio. Ciò lo induce a stringere una forte amicizia con de Francesch, a ricercare nella comune passione punti di contatto, di lavoro comuni, per far sì che il valore alpinistico di questo uomo emergente, già istruttore d’alpinismo di una scuola emerita quale è quella delle Fiamme Oro di Moena, abbia un riverbero su altre generazioni che, nella città di Firenze, potrebbero crescere nella passione alpinistica. Da queste intuizioni il discorso viene portato con grande calore in seno alla sezione del Cai di Firenze nell’autunno ’55 con il desiderio – che diventerà poi concretezza nella primavera del ’56 – di avere de Francesch come istruttore della Scuola “Piaz”.
Dal materiale cartaceo in mio possesso mi sembra di capire che Mario Fabbri, pur non svalutando affatto il suo personale livello alpinistico, anzi, considerandolo allora quasi in parallelo con quello dell’amico, avesse tuttavia maturato come una “cotta” per l’alpinista de Francesch che di anno in anno dava sempre più smalto alla sua azione con imprese dolomitiche nuove e di particolare livello tecnico. Quello stesso riconoscimento infatti che fu assegnato al Bepi il 15 agosto 1956 a Ferra: il Premio Piaz d’Alpinismo Eroico (termini che oggi fanno sorridere, ma che allora erano la risposta a una passione veramente grande per quell’alpinismo a cui ben pochi guardavano) istituito dal Cai Firenze, a parte il valore dell’impresa in essa riconosciuto (la via nuova sul gran diedro dei Mugoni), credo sia stata una palese manovra operata dallo stesso Fabbri, presidente del comitato valutativo e dagli altri membri condivisa ovviamente, per dare un riconoscimento onorifico e ufficiale a chi aveva ormai detto sì alla stessa Scuola “Piaz”, accettando la responsabilità di esserne Istruttore. Orbene, come era nel suo stile. Pepi de Francesch onorò per ripetuti anni quel suo incarico. L’esperienza himalayana del ’58 al Gasherhrum IV che lo vide protagonista in primis (sono convintissimo che il 90% del risultalo appartenga alla sua opera, al suo comportamento dettagliatamente descritto nel mio libro), lo maturò moltissimo sotto tutti i punti di vista arricchendolo intcriormente, migliorando, perfezionando, quel credo così radicato che già stava alla base del suo alpinismo e del suo essere istruttore d’alpinismo. Non posso non ricordare infatti le riflessioni personali che aveva messo per iscritto in cui, tra le tante cose e i tanti principi, precisava che l’istruttore deve sempre essere all’altezza dei compiti che gli sono affidati. Nel confronto con gli allievi poi, deve essere sempre paziente, educato, corretto, con una disponibilità totale. E che gli allievi potranno raccogliere i maggiori frutti solo in base a un rapporto corretto con il loro maestro. Nessun atteggiamento di ostentala superiorità doveva in alcun modo caratterizzare la relazione tra allievo e istruttore, consapevole, quest’ultimo, di essere pur sempre uomo e come tale capace anche di sbagliare. E dalla sua scuola alla “Piaz” quanti veri uomini della montagna sono maturati a perpetuare nel tempo il senso della grande passione!
Nella fassana Val Lasties s’innalza su un basamento di rocce rossastre una torre detta del Siela. Sulla sua parete sud-ovest il 17 agosto 1968 fu tracciata una via di IV grado con uno sviluppo di circa 200 metri che raggiunge i 2833 della vetta. E’ la via “Firenze”. Protagonisti di quella scalata furono Bepi de Francesch, Cesare Franceschetti e l’ingegnere fiorentino Antonio Sanesi. Sotto nuvoli incombenti pieni di pioggia si era concretizzata l’occasione per scrivere il nome della città del giglio anche sulle pareti dolomitiche fassane. Tutto sommato poteva significare, soprat-tutto per Bepi de Francesch, il com-pendio di un feeling che era nato circa vent’anni prima con una città che ha sempre amato la montagna e l’alpinismo fin dal suo nascere.
Firenze, città d’arte per antonomasia, che in molti suoi monumenti porta in quella materia modellata e trasformata dai suoi artisti il cuore stesso delle vicine Apuane, simbolicamente, in quell’occasione, aggiungeva a se stessa, seppur in un lontano angolo delle Dolomiti e nella modestia di tre uomini che ne espressero la volontà, un’altra arte che così bene è stata definita da Emilio Comici, un grande dell’alpinismo: quella dell’arrampicata.