“Il piacere dell’insuccesso” di Eriberto Gallorini

Maggio 2006

Capisco che tornare a parlare, dopo oltre vent’anni, di questo tentativo allo Yerupaja pecca forse in originalità; a darci tuttavia motivo per farlo è Eriberto Gallorini arricchendo quell’impresa di una nuova, inedita testimonianza.Una testimonianza che pone l’accento sulla verifica personale, sull’approfondimento e la ricerca di se stessi come a voler evitare di smarrirsi in vecchie sedimentazioni.


Agosto 1984 – C. Barbolini, M. Passaleva, E. Gallorini e M. Rontini effettuano un tentativo alla parete ovest dello Yerupaja, già in parte attrezzata con il contributo degli altri partecipanti alla spedizione. E’ la cima più alta della Cordillera Huayhuash, con i suoi oltre 6.600 metri di quota, tecnicamente fra le più impegnative di tutta la catena andina. Il tentativo si arresta a circa 300 mt. dalla vetta. Nelle foto pubblicate, scattate a 6300 mt. di quota, c’è tutta l’amarezza per la rinuncia ma anche la consapevolezza di aver raggiunto il massimo possibile, la certezza di aver dato tutto. Non a caso Marco Passaleva affidò alle pagine del Bollettino (ottobre-novembre 1984) il seguente commento: “Il sogno di tutti e di sempre è sfumato così, a 300 metri dalla vetta e dalla vittoria … soltanto chi ha potuto vivere in prima persona questi momenti può comprendere … il significato di ciò che ha fatto e chissà se questa difficile rinuncia non possa trasformarsi in un reale successo … non abbiamo potuto raggiungere la vetta ma è stata ugualmente una grande impresa.”
Roberto Masoni

Da sinistra: C. Barbolini, M. Passaleva a 300 mt. dalla vetta nel luogo della rinuncia (foto E. Gallorini)

UN CASO DI CENSURA
Avviene che, rovistando in una polverosa soffitta, riemerga da un recesso un antico manoscritto, ivi accuratamente riposto come per garantirne la conservazione pur celandone l’esistenza, quasi un certo ritegno ne avesse in quel tempo differito la divulgazione. Una rapida ricostruzione storica effettuata sull’onda della memoria ha permesso di appurare che non fu ritegno, bensì desistenza in seguito a un atto di censura. Sfuggono tuttavia i motivi che resero indispensabile una tale condotta e restano insondabili gli animi di coloro che vi furono coinvolti. A distanza di anni si può ritenere che, qualora in vita, non abbiano ormai a temerne la pubblicazione, ma ne accolgano il mero valore rievocativo.

Eriberto Gallorini

Rinunciare è stato facile e difficile al tempo stesso. Difficile perché dopo aver superato mille metri di dislivello e a soli trecento dalla vetta, non si abbandona un’impresa alpinistica a cuor leggero; facile perché è bastato guardarsi negli occhi e, senza quasi profferir parola, già stavamo sistemando la doppia per lasciare la quota 6.300 faticosamente raggiunta. La decisione era evidentemente maturata in ognuno di noi, forse originata da motivazioni diverse e senza dubbio sofferta. La discesa lungo lo stesso pendio ci confortava nella nostra scelta, poiché il ghiaccio duro che in salita si era appena lasciato scalfire dai nostri attrezzi, adesso era una sorta di poltiglia granulare che ci lasciava non poco perplessi sulla tenuta degli ancoraggi. Inoltre, prolungare la permanenza sulla parete avrebbe significato moltiplicare i rischi, dato che le orride cornici di cresta, alla cui caduta eravamo continuamente esposti, non potevano essere affatto eterne e immutabili. Dopo tredici ore di scalata dovevamo piegarci alla rassegnazione; stanchezza, stress psicologico, paura velavano la nostra razionalità di una sensazione d’impotenza.

Eppure, a ritorno compiuto, l’amarezza non superava la soddisfazione. Per quanto dispiacesse non aver toccato la cima, l’importante era che ognuno avesse dato il meglio di sé, e del resto nessuno aveva insistito per continuare, di fronte alle obiettive difficoltà che le mutate condizioni della parete ci presentavano. Ci eravamo sottoposti a una dura prova in un ambiente tanto affascinante quanto severo, e questo ci lasciava contenti. Durante tutta la spedizione lo Yerupaja era stato lo spauracchio, il totem attorno al quale compiere danze rituali, simbolo di una meta più che meta stessa, promessa di gratifica ma anche minaccia di vendetta. Le altre cime, rivelatesi peraltro più difficili e problematiche del previsto, non incutevano tale soggezione e sembravano più disponibili a lasciarsi violare. Come segno di un animismo ancestrale che particolarmente si manifesta davanti all’ignoto, la montagna rappresenta spesso la proiezione dei nostri pensieri inconfessabili, lo specchio di ansie e timori che riaffiorano e ci impongono una verifica di noi stessi.

Per la spedizione quella parete costituiva forse più di ogni altra la realizzazione di un progetto comune, la prova finale della collaborazione di tutti che, se fino allora aveva consentito il buon funzionamento dell’organizzazione, proprio adesso avrebbe potuto subire qualche defezione, in conseguenza delle diverse reazioni individuali alle maggiori difficoltà. È avvenuto invece che gli inevitabili contrasti iniziali si sono di molto appianati durante le fasi preparatorie della salita e l’avventura alpinistica ha rinsaldato i rapporti interpersonali, piuttosto che determinarne il punto di rottura. L’impresa, per la quale tutti si sono mobilitati, ha avuto un significato anche per chi, fortunosamente, non ha potuto cimentarsi nelle fasi salienti, ma per essa ha lavorato con fatica e qualche sacrificio.

Perciò il valore di una tale esperienza, sebbene possa non aspirare alla più alta considerazione da parte del pubblico, rimane tuttavia rilevante per coloro che quell’esperienza hanno direttamente vissuto. Per parte mia, sono appagato dal sottile piacere dell’insuccesso, meno entusiastico forse, ma più autentico e personale. La parete Ovest dello Yerupaja era diventata il terreno di un confronto tra ciò che ero e ciò che immaginavo di essere, il momento per superare quei dubbi che sempre emergono dalla valutazione delle proprie possibilità. La rinuncia all’illusione della vetta ha segnato l’inizio di un nuovo processo nella conoscenza di me stesso, impedendo che l’euforia della conquista offuscasse la serenità di giudizio. Resta infatti la consapevolezza dell’impegno profuso, dei rischi corsi, delle esitazioni e delle paure che sarebbe stato facile dimenticare nei brindisi di vittoria.

La parete dello Yerupaja

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