“I ponti himalayani” di Valerio Sestini

Maggio 2006

E’ noto che, nel XVIII secolo e per tutto il seguente, numerose furono le esplorazioni in varie regioni del mondo ancora poco note, ad opera di esploratori eruditi, naturalisti, geografi, dei quali molti viaggiarono in oriente, visitando in particolare … le regioni himalayane, seguendo le orme di missionari, pellegrini e mercanti, lasciandoci preziose testimonianze dei luoghi visitati. Tra le numerose opere dell’uomo realizzate, quella che suscitò un certo interesse fu il ponte. Vari sono stati i motivi che hanno indotto i singoli autori a effettuare descrizioni più o meno circostanziate, come quella di padre Ippolito Desideri: “Arrivammo ad un ponte, che il passarlo era cosa di non poca difficoltà e pericolo…..Convenendo necessariamente ai viandanti di passare quel torrente, che non può superarsi, né a guado né a noto, vi è un ponte, non di altro formato che di corde tessute di salci. All’uno e all’altro de’ due monti laterali al fiume, sono fissate due grosse corde cosiffatte, l’una distante dall’altra quasi due braccia. A quelle due corde principali, di passo in passo, sono attaccate altre piccole corde parimenti di salci, che in certa misura, e proporzione incurvate tendono al basso. Per passare questo ponte conviene slargare le braccia, e con le due mani afferra bene le due corde maestre o laterali, indi porre il piede sur una delle cordicelle incurvate al basso, e di poi slargando il passo, metter l’altro piede sull’altra cordicella: e così di mano in mano successivamente, sino ad arrivare all’altro sentiero.”  Spesso alle descrizioni sono allegati disegni e schizzi redatti appositamente per dare una immediata percezione dell’opera.

Varie sono state le forme osservate e descritte, tra queste i ponti sospesi apparvero i più arditi ed anche i più pericolosi; oltre tali opere attirarono l’attenzione i ponti definiti “a mensola”, forma insolita per i costruttori europei, denominati anche “cantilever bridge”. I ponti sospesi vennero costruiti con materiali diversi in rapporto all’ambiente e quindi alla disponibilità di materiali locali, contribuendo a dare alle opere stesse una particolare caratteristica. La regione himalayana, infatti, comprende aree ecologiche differenziate: si passa dalle regioni aride e fredde del Ladakh, nel settore occidentale, a quelle umide e monsoniche del Sikkim e Bhutan, dove le foreste sono rigogliose ed il clima in molte valli favorisce lo sviluppo di varie specie legnose. La sopravvivenza di parte di queste opere, nelle forme descritte o illustrate da vari autori, è stata garantita a lungo da un tipo di vita arcaico, radicato nelle tradizioni e da economie chiuse dove la risoluzione dei problemi si avvaleva di metodi tradizionali sperimentati per secoli e con l’impiego di materiali reperibili entro aree ristrette.

Da vari anni nuove neces-sità, legate agli sviluppi sociali ed economici, hanno investito tutta l’area hima-layana portando anche una forte innovazione tecnolo-gica. In particolare per i ponti le nuove esigenze hanno condotto ad un rinnovamento con soluzioni più aggiornate, più stabili e durature nel tempo. Trasformazioni in queste opere erano già avvenute nella prima metà del Novecento con numerosi ponti sospesi costruiti in Scozia, trasportati in India e successivamente montati nelle valli himalayane.

Oltre a padre Ippolito Desideri, altri missionari cattolici, nel corso del Settecento, traversarono la catena himalayana per recarsi a Lhasa nel Tibet, descrivendo ponti sospesi. Il citato Ippolito Desideri, che visse in Tibet tra il 1715 ed il 1725, espose le sue testimonianze sia nelle “Lettere”, inviate in più riprese al Pontefice, che nella “Relazione” (Notizie Historiche del Thibet e memorie di viaggi e missioni ivi fatta da P. Ippolito Desiderj della Compagnia di Gesù dal medesimo scritte e dedicate. 1712-1733), costituita da più libri, di cui un capitolo di questi è dedicato ai fiumi ed ai ponti del Tibet. Successivamente fu padre Cassiano da Macerata, vissuto anche lui a Lhasa tra il 1736 e il 1738, a notare la presenza di ponti con catene di ferro ed in legno nell’attraversare l’Himalaya da Kathmandu  in Nepal al Tibet e menzionarli nel suo “Giornale”.

Risale al 1795 la missione diplomatica di Samuel Turner in Tibet, iniziata nel Bengala e proseguita attraverso il Bhutan, il cui racconto di viaggio venne pubblicato a Londra nel 1800 (An Account to an Embassy to the Court of Teshoo Lama in Thibet). L’autore si sofferma spesso a descrivere i vari ponti attraversati i quali vennero illustrati da un giovane tenente dell’esercito, Samuel Davis. Nell’opera del Turner vi sono solo una parte delle immagini redatte dal Davis, per la maggior parte acquarelli, riprodotte poi tramite incisioni. Tra le immagini del Davis, oltre a ponti del tipo “a mensola” che sospesi a catene, si trovano paesaggi, insediamenti, case, opere religiose, palazzi nobiliari, tutti inseriti nel loro caratteristico ambiente montano. Una vastissima ed interessante documentazione sul Bhutan nella quale si possono osservare i disegni acquerellati dell’autore e le interpretazioni apportate dall’incisore (A. Aris, Views of Medieval Bhutan, Serindia Publications, Londra,1982).

Alexander Cunningham, ingegnere, in una sua opera sul Ladakh del 1854 pubblicata a Londra (Ladak, physical, statistical and historical), nota la presenza in questo paese di opere analoghe a quelle citate dal Turner, riportandone anche i nomi originali: ponti in legno del tipo “a mensola“ (shi zam) e sospesi, sia realizzati con catene di ferro (chag zam) che con fibre vegetali (chug zam). Questi ultimi erano particolarmente diffusi anche nel Kashimir e nel vicino Baltistan, dove erano chiamati jhula (“rope-bridge”) dalle popolazioni locali, ben noti ed illustrati in resoconti di spedizioni nel Karakorum. Questi furono osservati e descritti nella seconda metà dell’Ottocento da noti autori tra cui Andrew Wilson (1875), Austin Waddel (1899) e Martin Conway (1894).

Nel corso dell’Ottocento anche vari Pundit, topografi travestiti da pellegrini al servizio del Trigonometrical Survey of India, notarono anch’essi gli stessi tipi di ponte citati, menzionandoli nelle loro relazioni. Altri ponti sospesi, realizzati con fasci di canne di bambù (“cane-bridge”), vennero invece notati nelle regioni orientali dell’Himalaya. Una bellissima immagine la troviamo nell’opera del francese Globet d’Alviella (Inde et Himalaya, Parigi, 1877). Interessante anche la rappresentazione del “Living Bridge” inserita nell’opera del naturalista inglese Dalton Hooker (Himalayan Journal, Londra, 1893).

Mentre il ponte Jhula è un’opera caratteristica delle aree secche e desertiche e più specificatamente delle valli montane dove la reperibilità del legname è molto scarsa, il “cane-bridge” è invece un’espressione delle vallate in cui l’umidità è notevole e la vegetazione è ricca o addirittura lussureggiante, come nelle regioni intorno a Dajeerling. Il ponte “a mensola”, invece, è una tipologia di ponte utilizzata in luoghi dove abbondante è la reperibilità del legname e le ampiezze dell’attraversamento del fiume non superano i trenta metri di luce. Esso è costituito da due strutture aggettanti rispetto alle rive opposte che tendono a ridurre la luce da superare. Tali strutture sono composte da una serie di travi, spesso dei semplici tronchi d’albero, sempre più sporgenti e collegate tra di loro ed incastrate in solide murature costituite da grosse pietre.

Sia il Turner che il Cunningham riportano immagini di opere di tale tipo; in particolare il primo che, in relazione al ponte di Uandipore in Bhutan, lo illustra con una bella immagine. Questa mostra il ponte, a due campate dissimmetriche, con due porte a forma di torre poste alle due estremità e sull’appoggio centrale. La descrizione dell’opera è inoltre molto esauriente e approfondita: dal sistema costruttivo al materiale impiegato, fino ai sistemi di lavorazione e di collegamento. Sempre tramite il Turner si ha notizia di un altro ponte del medesimo tipo, ma coperto, il quale ha anch’esso due porte all’estremità. Queste contribuiscono a dare all’opera un ulteriore valore paesaggistico-architettonico, ma il loro vero significato è di natura simbolica e religiosa.

Oggi nelle vallate dell’Himalaya si possono osservare opere modernissime, soprattutto ponti sospesi a cavi d’acciaio, che lentamente hanno sostituito i prototipi originali in anelli di ferro o di corde di fibra vegetale. Un ritorno, questo, di forme strutturali nei paesi d’origine dove erano state intuite e realizzate con i materiali a disposizione ed in rapporto alle necessità locali. Un ritorno che ha le sue origini all’inizio dell’Ottocento in Europa quando, sotto la spinta di nuove esigenze, in particolare nel campo dei trasporti, si imposero nuove soluzioni tecniche negli attraversamenti fluviali. Infatti, un noto studioso incaricato di risolvere tali esigenze, nell’introduzione della sua relazione scrisse “Antica è l’origine dei ponti pensili; i ponti di corde delle Cordigliere, e quelli della China e del Thibet”. Nella stessa relazione aggiunse ”Tal sorta di costruzioni non tarderà ad introdursi in Francia e nelle altre parti dell’Europa. Così, per effetto naturale del progresso delle scienze e delle arti, vedesi riprodotto presso le nazioni civilizzate uno dei più antichi e i più semplici ritrovati per valicare i fiumi e le scoscese valli, che era stato lungo tempo sepolto nell’obblio.” (L. Navier, Rapport a Mr. Becquey et mémoire sur les ponts suspendus, Parigi, 1823).

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