“Cronache alpine, la carica dei 50” di Marco Gori

Maggio 2006

Mi è capitato, alcuni mesi fa, di leggere su una rivista di montagna l’intervento di un lettore, socio della sezione CAI di una grande città del Nord …una di quelle sezioni dove quando organizzano una gita sociale sanno già di doversi aspettare una folla di decine di iscritti che entusiasti salgono verso i monti come allegre armate di Annibale.

Tosca e Viola sulla cresta

Il lettore, ricordo, teorizzava sull’impossibilità di portare 50 persone su un terreno che non fosse quello escursionistico facile, e quindi escludeva con decisione la possibilità di fare escursioni alpinistiche in gruppi così numerosi: a riprova di ciò raccontava una disastrosa salita lungo la normale del Monviso, finita nell’amarezza tra sassi schivati per un pelo e gente ripresa per i capelli. Ammetto di aver pensato a quell’articolo quando, in una domenica mattina di febbraio, scesi dall’autobus insieme ai partecipanti dei gruppi alpinistico Tita Piaz  ed escursionistico Emilio Orsini, per immergermi nella limipida luce invernale delle Apuane: alla nostra combriccola già numerosa si unirono altre persone, vecchi amici e facce sconosciute, creando alla fine un discreto gruppetto di oltre cinquanta persone con le esperienze più varie, dall’alpinista da poco rientrato da una spedizione in Patagonia all’escursionista alla prima esperienza con piccozza e ramponi (per la verità scarseggiavano i rappresentanti del primo tipo, e abbondavano decisamente quelli del secondo). La meta era una salita alla cima dell’Altissimo passando dalla cresta Ovest, un’ascensione valutata PD- con abbondante innevamento, ma che oggi avrebbe di certo opposto qualche resistenza in più viste le condizioni della neve non sempre ottimali e la scarsa copertura sulle roccette di cresta. L’esultante esercito di gitanti ramponati iniziava comunque la salita del tutto ignaro di qualsiasi cosa l’attendesse, con quello spirito di rilassante fiducia nell’esperienza dei capicordata tanto piacevole per chi è in procinto di vivere una nuova esperienza come per chi è solito procedere legato al capo più in alto della corda: la giornata era incredibilmente luminosa e allegra e aveva un effetto benefico sull’umore della combriccola che affrontava ora i primi pendii più seri con costanza e piede fermo, in certi casi imparando quasi d’istinto la progressione su ghiaccio piede piede piccozza e così via all’infinito, in una specie di mantra del corpo che fa dimenticare la fatica e accentua il piacere della quota che aumenta, e della vetta che si avvicina.

Arrivati, appare subito chiaro che la mancanza di neve sulle roccette non permette il passaggio in cresta ma richiede un traverso tenendosi sulla sinistra. Il terreno non è in buone condizioni, sotto una crosta gelata la neve è pesante e inconsistente, non oppone resistenza alla piccozza ne’ viene morsa dai ramponi, e dà tutt’altro che sicurezza. I capigruppo partono subito per attrezzare una sequenza di corde fisse lungo tutto il traverso, facendo sosta su nuts tra le rocce e fittoni, fino a un albero abbastanza stabile: in pochi minuti viene montato un corrimano in corda che risulta estremamente rassicurante sin dai primi passi, quando la neve inizia a cedere sotto i ramponi. Dopo poco parto io, e sostituisco Stefano alla prima sosta, mi metto in sicura e mi scavo nella neve una piccola cengia dove resterò finché non saranno passati tutti, controllando se e quando sarà necessario il delicato passaggio del moschettone di sicurezza da una corda all’altra, un po’ come per i frazionamenti in speleologia, o i passaggi di fittone nelle ferrate. Tengo i piedi in fila sul piccolo scalino di neve che ogni tanto crolla e deve essere scavato un po’ più in basso, mentre mi passano accanto volti notissimi e sconosciuti, tutti sorridenti, e tutti incredibilmente bravi, veloci, leggeri, in una progressione ordinata e continua che non trova mai intoppi; e tra un passante e l’altro ammazzo il tempo guardando la mia piccola cengia e confrontandola con quello che mi sono sempre immaginato leggendo le storie dei bivacchi notturni di Bonatti ed Heckmair. Una ventina di metri sopra di me, spostato verso la cima, Stefano ripete sempre la stessa frase come un campanello che suoni al passaggio di ogni persona: “alza il piede, prendi la piccozza in fondo al manico, infilala nel ghiaccio lì, ecco, ora alza la gamba destra, sali sulle rocce…”, sta aiutando tutti a superare un bel passaggio di misto prima dell’uscita di nuovo in cresta.

Molto prima di iniziare a stancarmi della scomoda posizione la fila era già finita, non riuscivo a credere di aver visto passare più di 50 persone in un tempo così breve, e questo nonostante la neve cominciasse davvero a non tenere più; così riprendo la salita verso la voce che intanto continuava a dispensare consigli, ed eccomi alle roccette, un passaggio corto ma già completo di tutto quello che serve a un tratto di misto che si rispetti. E  infine la cresta, bellissima, piena di aria e sole, con lo sguardo che spazia dall’Appennino oltre la Garfagnana alle Cinque Terre, e davanti i bei versanti imbiancati dell’Altissimo, la sua vetta arrotondata dove parte del gruppo si sta già godendo il meritato bagno di sole. La giornata è di quelle che dalle cime delle Apuane sembra di poter toccare mezza Italia, il sole è caldo e piacevole, profuma quasi di mare, e la vetta dell’Altissimo sembra quasi un caldo salotto quando Paola tira fuori dallo zaino una torta miracolosamente scampata alle ingiurie dell’ascensione: mi perdonino gli alimentaristi, ma altro che barrette Enervit, due ore dopo c’era ancora qualcuno che chiedeva la ricetta, mai sentito fare le stesse storie per una barretta! La discesa è tranquilla, c’è tempo persino per fare qualche prova di autoarresto, il paesaggio carsico innevato è unico, le cave invece sono il solito tetro scempio, anche innevate. Lungo il sentiero mi stendo in avanti per scattare una foto; all’improvviso la neve cede, e con un salto all’indietro evito di piombare in un buco largo abbastanza da finirci dentro di testa: si trattava di una ventarola, un buco carsico da cui soffia aria di grotta (più calda che all’esterno) che aveva sciolto la neve all’imbocco, lasciandone però un sottile strato che aveva trasformato la cavità in una trappola degna di un cacciatore paleolitico. Scattai una foto al buco traditore, e continuai allegro verso valle, pensando al cinghiale a cui avevo risparmiato momenti di vera paura.

Un ringraziamento ai capicordata Roberto, Lorenzo, Paola, Fabio, Leonardo, Stefano, Pasquale e gli immancabili Aldo e Franco (e non me ne abbia qualcuno che la mia memoria corta ha dimenticato), ma non dimentico i 50 prodi che, meglio dei 100 cinesi nella spedizione all’Everest del 1960, hanno affrontato rapidi e sicuri la splendida ascensione apuana.

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