“Cesare Maestri, il ragno delle Dolomiti” di Paolo Melucci

Maggio 2006

Queste righe, tributo ad un’amicizia ultra-cinquantennale, furono buttate giù alcuni anni fa e destinate ad una pubblicazione che poi, per motivi vari, non vide allora la luce. Oggi mi sono richieste dalla redazione del Bollettino Sezionale e ho ritenuto opportuno lasciarle invariate per mantenere intatta l’atmosfera in cui furono scritte.

Mentre mi accingo a scrivere queste note Cesare Maestri sta trascinando i suoi 73 anni su per i fianchi dello Shisha Pangma, ottomilaquattordici metri. Con lui una bandiera inneggiante alla Pace, in varie lingue (l’ho sconsigliato di aggiungere il tibetano, i “compagni” cinesi avrebbero potuto non gradire). Ognuno ha sacrosanto diritto alla sua dose d’Utopia ma, caro Cesare, se bastasse cosi’ poco per ricondurre alla ragione i piccoli Grandi della Terra … Molta sarà’ stata invece, sicuramente, la tua fatica non solo durante la salita ma anche prima, in allenamento (Livanos ha detto che oltre i sessanta bisogna allenarsi sempre più per fare sempre … meno).

Mi sembra già di vederti a ruminare ingiurie tra i peli della barba bianca, imprecando contro il peso dello zaino e delle tue ossa. Nell’ultima nostra telefonata prima della partenza ti ho sentito amareggiato perche’ la famiglia continuava a cercare in tutti i modi di dissuaderti, mettendoti i bastoni fra le gambe. Come se non ti conoscessero! Mi hai detto che volevi salire solo e soltanto per te stesso, per la voglia di farlo, che quello che avevi da dimostrare era già nella storia dell’Alpinismo. Proprio perchè ne sono anch’io convinto, mi son permesso di metterti In guardia. Se hai successo sarai solo l’ennesimo salitore solitario, ancorché il più’ attempato, d’un ottomila. Se fallisci ci sarà subito qualche spirito generoso che salterà su a darti del vecchio alpinista rimbambito, ricordandoti che oggi in Himalaya si va col cronometro, come in una pista d’atletica e che sull’Everest, ottocento metri più in alto dello Shisha, si sale a sedici anni (beh, anche a sessantacinque, ma insomma…). Ne eri perfettamente cosciente e te ne importava meno di niente. E allora vai, caro vecchio Cesare, e torna presto a raccontarcela!

Cesare Maestri (foto P. Melucci)

Nei primi anni ’50 avevo partecipato a due corsi della Scuola “Graffer” in Brenta e in Catinaccio e la frequentazione dell’ambiente trentino doveva inevitabilmente  sfociare  nell’amicizia  con  Cesare  (anche  se, onestamente, non ricordo quando e dove lo incontrai la prima volta) non foss’altro che per una sorta di “affinità’ elettive” che ci accumunava. Erano quelli gli anni d’oro in cui inanellava prime ascensioni solitarie ai massimi livelli, in arrampicata libera: via Dibona al Croz dell’Altissimo, Comici all’omonimo campanile del Sassolungo, Solleder alla Civetta, via delle Guide al Crozzon, Detassis alla Brenta Alta, Solda’ alla Marmolada, traversata dalla Cima d’Ambiez alla Bocca di Tuckett (16 cime in meno di  ventiquattr’ore),  Vinatzer  al  Sass  de  la  Luesa,  Oppio  al  Croz dell’Altissimo, Micheluzzi al Piz Ciavazes, discesa della Solleder al Sass Maor, BuhI alla Roda di Vael, solo per citarne alcune del migliaio in tal modo effettuato e per non parlare delle tremila fra ripetizioni e vie nuove. Sono stato testimone oculare d’un evento singolare: nel 1956 Cesare si presentò agli esami d’Istruttore Nazionale (a quel tempo anche le Guide ambivano quel titolo e non erano ancora nate sterili polemiche) scendendo in libera solitaria la via delle Guide al Crozzon sotto lo sguardo di Cassin, degli altri commissari e degli allievi Istruttori…

Eppure nell’ambiente alpinistico, di corta memoria, Cesare è ancor’oggi ricordato soprattutto come un formidabile chiodatore nonchè cultore dei chiodi ad espansione. Va innanzitutto ricordato come a quel tempo (pochi decenni fa ma è come se fossero già passati dei secoli) i trapani elettrici erano dilà da venire e i fori nella roccia si facevano col bulino, il mazzuolo ed i muscoli: Cesare calcolò in centinaia di migliala i colpi che aveva dovuto battere per aprire la Direttissima alla Roda di Vael con Baldessari !!  Altri al pari di lui si erano cimentati nell’aprire vie di artificiale estremo: De Francesch, gli Scoiattoli di Cortina, Desmaison, Piussi ecc., ma solo lui si meritò l’appellativo di  “Ragno delle Dolomiti”, appellativo che può apparire seducente ma non mi pare rispondere al vero, anche se talvolta ha tessuto la sua “ragnatela”. Quando non fu selezionato per la Spedizione nazionale al K2 non ne fece una malattia, al contrario si rese conto che il suo carattere insofferente d’ogni costrizione mal si sarebbe adattato ad una struttura complessa, gestita con metodi e polso militareschi. Si potrebbe pensare che la prima ascensione del Cerro Torre fosse stata un pò una rivincita per tale esclusione, ma credo sarebbe sbagliato. Il lasso di tempo intercorso fra il K2 e il Torre, cinque anni, fa già di per se scartare tale ipotesi.

Nel luglio del ’56 eravamo partiti da Trento con la moto di Cesare , una Matchless vecchio residuato bellico, diretti in Lavaredo. Sembravamo un pò un carro di Tespi, carichi di zaini, corde e quant’altro. In più la moto continuava a rompersi e dovevamo fermarci per le riparazioni di fortuna del caso, con un contorno di coloriti improperi: alla terza sosta il pantheon di tutte le principali religioni era già stato coinvolto… Finalmente arrivammo e le Lavaredo ci regalarono belle salite con un tempo impeccabile. Al ritorno dalla Comici alla nord della Grande, mentre eravamo intenti a demolire generose porzioni di polenta e capriolo al Rifugio Locatelli, si presentò a noi un alpinista dall’inconfondibile accento austriaco. Piccolo di statura, dal fisico possente ed il viso arguto che ispirava simpatia, Toni Egger aveva voluto conoscere Cesare che stimava e ammirava. Nessuno, allora, poteva immaginare che, tre anni dopo, avrebbe legato per sempre il suo nome alla nord del Cerro Torre, pagando il prezzo più alto.

La prima ascensione del Cerro Torre, considerato una delle vette più difficili del mondo per le difficoltà tecniche e le particolari condizioni ambientali, avrebbe avuto un triste corollario di polemiche e veleni che dura tutt’oggi, al di là d’ogni ragionevolezza e senso comune. Il  fatto  che  con  Toni  fosse  scomparsa  sotto una  valanga  anche  la macchina fotografica con la “prova” della conquista, autorizzò qualcuno ad avanzare meschini dubbi. A nulla, per quei figuri, valeva la parola di Cesare nè il fatto che in montagna non avesse mai bluffato (purtroppo non si può dire lo stesso per altri esponenti del mondo alpinistico). A

Maestri sulla Comici-Dimai alla Grande di Lavaredo (foto P. Melucci)

nulla il fatto che Cesare fosse stato salvato per un pelo, dopo giorni che giaceva incosciente semisepolto dalla neve alla base del Torre, da un amico che – caparbiamente – non aveva voluto arrendersi all’evidenza. Fu una triste pagina della storia dell’alpinismo e Cesare reagì a suo modo, organizzando anni dopo un’altra spedizione e realizzando la prima ascensione della cresta sud-est del Torre con Claus e Alimonta. Questa volta portò su, azionando un piccolo argano a mano, un compressore ad aria compressa ed il carburante per farlo funzionare. In questo  si  ritrova  un tratto saliente del  carattere di Cesare, anticonvenzionale e dissacratore. Nonostante tutte le ascensioni effettuate in solitaria e in arrampicata libera era considerato un “manovale” della montagna? Bene, avrebbe accettato la sfida e utilizzato tutti i mezzi che la tecnologia metteva a disposizione dei manovali… Raggiunse ancora una volta la vetta del Torre e tornarono tutti sani e salvi alla base: difficile, anche per i più in malafede, mettere in dubbio la parola di tre persone e le prove fotografiche.

Con Cesare ho compiuto tante belle salite dolomitiche ed il nostro non è mai stato un sodalizio guida-cliente, ma un rapporto di solida amicizia del tutto disinteressata. Nei primi anni Cesare non se la passava certo bene, finanziariamente parlando, e per la montagna aveva rinunciato a tanti agi e comodità. Aveva grande successo con le donne ma non ne aveva trovato ancora una che si prendesse cura di lui: lo ricordo, in una serata di plenilunio, mentre si lavava i calzettoni nella vasca del Rifugio !! Ciò nondimeno ha sempre dimostrato nei miei confronti una commovente generosità, senza mai far valere il suo titolo di Guida e parlare così di tariffe. Oltre alle salite in Lavaredo, cui ho prima accennato, ne ricordo sempre con piacere (e un pò di..nostalgia) molte altre. In particolare la prima, la Fox-Stenico alla Cima d’Ambiez… L’ha salita un paio di volte anche mio figlio e mi dice che, su taluni passaggi, qualcuno oggi mette le staffe. Allora si faceva tutta rigorosamente in libera, “Maestri style”. E poi la via delle Guide al Crozzon, salita a ritmo forsennato e spesso di conserva, quasi fossimo inseguiti da una banda di tagliagole, salvo poi fermarci lungamente in vetta a goderci il sole e il panorama e scendere poi tranquillamente a valle. O la Graffer allo Spallone del Basso, terminata con la Meade, mentre dietro di noi salivano Milo Navasa e Giancarlo Dolfi.

Fu a Firenze varie volte. In quelle occasioni facemmo alcune uscite in Apuane, riuscendo tra l’altro  la  prima  del  Campanile  Francesca  ai  Torrioni  del  Pizzo, in compagnia anche di Dolfi. Insieme percorremmo tutta la parete della Cava Ceccallori (Palestra Comici) sotto l’occhio della cinepresa del compianto Dott. Aldo Berzi: chi sa dove e’ andato a finire quel filmino, sarebbe un simpatico documento storico di quel periodo. Andrea Bafìle organizzò un’uscita invernale al Gran Sasso, la traversata del Corno Grande, durante la quale prestai uno dei miei ramponi a qualcuno del gruppo che ne era sprovvisto e così fummo in due a camminare come papere sulla cresta innevata… E poi, e poi… E poi, direi inevitabilmente, le nostre strade si divisero ma ad unirci sono rimasti i ricordi e, quel che più conta, una forte amicizia.

P.S.

E insomma è andata male. Cioè, a dire il vero, bene…. Più che il pessimo meteo post-monsonico che ha costretto tante spedizioni a battere in ritirata, è   stata la sindrome da AMS (mal di montagna acuto) che ha obbligato Cesare a tornare a casa. Battuto ma non vinto.

Alcuni vedranno in ciò una più o meno logica sconfitta. Io, egoisticamente, non la penso così. Ho già perso negli anni tanti cari amici rubatimi dalla montagna, da arrivare alla conclusione che non v’è montagna, sopra o sotto gli ottomila poco importa, che giustifichi il sacrificio della vita. E allora caro Cesare porta un cero, anche piccolo, a San Romedio (se non ricordo male prediligeva gli … orsi) e goditi per tanti, tantissimi anni ancora la tua famiglia e i tuoi amici. Chissenefrega dello Shisha Pangma….

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