Annuario 2006
La mia generazione è quella dei papaveri e delle papere. Figli di chi aveva cantato Pippo che non lo sa, nipoti dei balocchi e dei profumi, nonché della vipera (che, al braccio di colei, distruggeva tutti i sogni miei), abbiamo sguazzato per anni in un tremendo sciocchezzaio canoro.
Il primo contatto con un repertorio diverso l’ho avuto durante le gite in montagna, organizzate già alle scuole medie da benemeriti professori che ci portavano a camminare per il nostro Appennino. Durante i viaggi di andata e ritomo in pullman, si intonavano e si imparavano dei canti corali che avevano per base la Montanara, poi proponevano di andar fuori dalla Valsugana e, via via, spaziavano dal repertorio alpino della grande guerra a quello del Gran Sasso. Si trattava – come ho scoperto presto – del repertorio del Coro della SAT di Trento, imparato sui dischi che solo qualcuno di noi possedeva.
Il coro SAT ha avuto un merito fra i tanti: dovunque ha eseguito dei concerti (nella nostra regione sono stati offerti alla cittadinanza di frequente, fino dalla metà degli anni ’50), ha lasciato un seme, facendo nascere la voglia di imitarli, magari allargando il repertorio a qualche canto locale appositamente armonizzato. Fra i tanti tentativi non andati in porto, ha invece avuto successo quello del coro fiorentino La Martinella, che ed è stato fondato nel 1970 (manco a dirlo, dopo un concerto del coro trentino in Palazzo Vecchio) ed ha avuto occasione di eseguire concerti anche nei paesi del nostro Appennino.
Nella montagna toscana la tradizione del coro a più voci come quello della Sat non c’era. E’ vero che nei paesi è sempre piaciuto cantare nelle osterie e nelle occasioni di festa, ma si tratta di canti eseguiti in coro all’unisono, imparati nelle trincee della prima guerra mondiale, oppure tramandati di padre in figlio e prescelti fra i più allegri. Alcuni sono diffusi in tutta la regione, come lo spigliato Voglio andare sull’alte montagne.
Voglio andare sull’alte montagne dove cantano gli uccelli canarin, passerotti e fringuelli e di tutte le qualità. Giovanotti, non prendete moglie, che le donne son piene di inganni vi lusingan sul fiore degli anni e da vecchie vi fari sospirar. Presi moglie per mia compagnia, la credevo una giovane bella: scorticata come una padella e liscosa come un baccalà. La mattina si alza alle otto e con gala allo specchio si veste, mentre a me tocca alzarmi alle sette, domandar cosa vuoi da mangiar. Tutte le sere teatri e veglioni e a me tocca restare soletto, se la grido lo fa per dispetto e a me il capo mi tocca abbassar. Solo ‘n bocca ci aveva sei denti meno quelli che aveva posticci con la gomma posata tra i ricci, le fiaschette di qua e di là. Non lo vedi che l’albero pende e le foglie cadon giù e per contentare le donne e’ ci vuole la gioventù. Nella versione che ho sentito nella Montagna Pistoiese, a ogni fine strofa il solista Menico faceva un’arguta imitazione dello jodler tirolese (eroléh iò-ià / eroléh-e i-ttì // eroléh iò-ià / eroléh i-tti; le fiaschette sono le guance pendenti, tipiche della vecchiaia). Canti come questo, assieme ad altri con qualche doppio senso, vengono ancora eseguiti nei pranzi dei matrimoni e simili.
Viene dal Monte Amiata questa versione della Maremma, affidata alla memoria della signora Annida Camperesi, nata alla fine del 1800, che è stata la “tata” della famiglia Fortuna a Firenze e dagli anni Venti del ‘900 ha insegnato ai ragazzi di casa molti canti assai belli (compresa la ninnananna L’uccellino quando imbruna). L’ho potuta pubblicare restaurata e ho capito che il celebre canto allude a chi va in Maremma e lascia l’aria buona (e non l’acqua, come si dice), evitando di evocare e nominare – sia pure con un’allusione – la terribile ed esiziale malaria. Si riteneva infatti che la malattia fosse provocata dai miasmi dell’aria delle paludi e non dalla puntura della zanzara anofele.
L’esperienza locale è stata essenziale per diffondere dei canti importanti e proporre l’idea stessa di formare un coro. Il coro della Martinella ha armonizzato a più voci proprio la Maremma. Quando venne organizzato un concerto nella piazza di Rivoreta (Cutigliano), feci conoscere Claudio Malcapi – il primo direttore- alla signora Franca Calissi, la promotrice del locale Museo della Montagna (venne fuori un colloquio piuttosto buffo, fra lui che temeva che il coro non fosse all’altezza e lei che diceva lo stesso del comitato paesano). Lo spettacolo, presentato dalla bella Rossella in pregevole minigonna, piacque assai ai turisti e agli abitanti del paese, che si commossero: proprio da quelle montagne scendevano i pastori col gregge, in ogni famiglia c’era il ricordo di chi era partito e non era tornato, colpito dalla malaria.
La montagna vista da quelli della pianura è testimoniata in un canto dell’epoca granducale, che attende ancora chi lo voglia armonizzare ed eseguire a quattro voci. Si tratta di O poveri soldati, che risale ai tempi di Ferdinando III di Lorena (che, essendo morto nel 1824, fìssa il termine ante quem del canto, giunto fino a noi per tradizione orale locale). Si canta ancora sull’Appennino, ai confini con Modena.
E’ una scanzonata descrizione dell’ambiente disagevole della montagna toscana, che risulta ostico a delle truppe abituate alla pianura, che fìngevano di lodare, ma certo non apprezzavano l’acqua buona invece del vino ne i castagnacci al posto del pane; tutte cose che in futuro sarebbero piaciute tanto all’escursionista (ma, in pianura, pane e vin non gli mancava, mentre vorrei vedere un entusiasta cittadino a sopportare i lunghi inverni, isolato in mezzo alla neve in case mal riscaldate, con le strade fangose e ghiacciate).
I canti della tradizione – nell’Appennino come altrove – non descrivono l’ambiente, si svolgono altrove e solo raramente traspare l’habitat umano, che confina con i campi orlati di roveti, con i pascoli dove le capre sono insidiate dal lupo e con i monti, coperti di neve. Dietro, appare il mare; nel quale una figlia – che è arrossita per un bacio d’amore scambiato di nascosto – vorrebbe confinare il padre troppo inquisitore.
“O Violina, chi t’ha tinto la bocca?” “O babbo mio, me l’ha tinta la mora”. “O Violina, insegnami la mora”. “O babbo mio, l’ha mangiata la capra”. “O Violina, insegnami la capra”. “O babbo mio, l’ha mangiata lo lupo”. “O Violina, insegnami lo lupo”. “O babbo mio, ha passato quel monte”. “O Violina, insegnami quel monte”. “O babbo mio, l’ha coperto la néve”. “O Violina, insegnami la néve”. “O babbo mio, l’ha strutta lo sole”. “O Violina, insegnami lo sole”. “O babbo mio, ha passato quel mare”. “O Violina, insegnami quel mare”. “O vecchio stucco, andàtevelo a trovare!”
Dopo il coro di Firenze, altri ne sono nati in Toscana, anche in montagna, con un repertorio in tutto o in parte d’autore, che stavolta comprende orgogliosi riferimenti alle vicine cime e invocano il turismo (della serie – ho suggerito una volta per scherzo – Mugolio, tu sei bello e Se non vai in Chianti, schianti). Le vere tradizioni, tipiche della cultura delle comunità locali, descrivono il qui attraverso l’altrove e la normalità attraverso l’eccezione, in una continua azione educativa e socializzante, che non ha niente di pedante, ne nasconde l’orgoglio – quello vero – degli abitanti delle nostre montagne:
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