“Volontariato, professionismo e fini istituzionali” di Marco Orsenigo

Annuario 2006

Accompagnamento volontario in montagna ed accompagnamento professionale che cosa li distingue; ecco la domanda ineluttabile, ogni qual volta si affronta il tema delle Scuole del CAI, pacifico essendo che il concreto esercizio dell’attività di accompagnamento in nulla si differenzia, secondo che operi un volontario od un professionista.Ciò porta a chiedersi ancora che cosa sia lo spirito di servizio. Il problema non è nuovo. Queste domande risorgono puntuali nei consessi degli istruttori e su di loro si sviluppa sempre un vivo dibattito. L’istruttore sente la propria identità ed il proprio ruolo, più difficile è rendere esplicita quest’identità, questo ruolo per distinguersi dal professionista. Volontariato e professionismo si connotano in funzione del compenso, assente nel primo caso, presente nel secondo. Il dato dovrebbe essere pacifico e così è percepito dagli istruttori, come il principale elemento che vale a distinguerli dai professionisti della montagna, innanzitutto le guide alpine.

Volontariato ed assenza di profitto tuttavia non sono due concetti strettamente connessi. Il CAAI (Lo Scarpone 12/2001) ha posto in evidenza che il vantaggio economico può essere perseguito dall’alpinista dilettante nei modi più diversi, senza necessariamente sfociare nel professionismo. E’ vero però che la nostra riflessione prende origine dal fatto, ed è bene ricordarlo, che l’attività dell’istruttore si esplica anche in forma di accompagnamento, che poi è la manifestazione più palese della sua attività. Ho già affermato che l’accompagnamento in montagna è uno solo e da ciò nasce il bisogno di distinguere l’istruttore da altri accompagnatori per professione. In uno degli ultimi congressi degli istruttori nazionali la distinzione in questione, fondata sull’aspetto economico, è stata posta in discussione fino a negare l’idoneità del compenso a distinguere l’opera del volontario del CAI dalla guida alpina.
Per sostenere questa tesi si è dato risalto all’aspetto associativo dell’attività degli istruttori: essi agiscono in gruppo. Con questo assunto si è posto in evidenza, da un lato, che la capacità didattica di una Scuola del CAI deriva dall’insieme delle capacità tecniche, culturali di cui ogni singolo istruttore è portatore; dall’altro si è ritenuto di provare che il fattore dell’azione collettiva prevale sull’elemento economico, che non giocherebbe alcun ruolo nella distinzione che ci occupa. Questi rilievi sollecitano una riflessione del problema alla luce della legislazione vigente in materia di G.A. (L. 6/89 e pure di maestro di sci, L. 81/91), che invece è stata affatto trascurata nelle riflessioni su esposte.

La normativa attuale non consente di svalutare il dato economico, così come non è possibile sovraccaricare di significati il dato strutturale. Per il legislatore il guadagno è una componente che permea l’attività dei professionisti della montagna, i quali possono organizzarsi in gruppo, proprio istituendo scuole. L’associazionismo professionale del resto è un fenomeno frequente in ogni campo. A mio avviso per fare chiarezza sull’argomento il discorso deve partire dal significato dei termini professione e volontariato. Il vocabolario Treccani (v. anche il Devoto Oli) definisce “professione l’attività intellettuale o manuale esercitata in modo continuativo e a scopo di guadagno; in senso ampio, qualsiasi attività lavorativa abituale riferita a chi svolge un’attività come principale e abituale”.

Il professionismo è “l’esercizio di un’attività (che di solito viene svolta saltuariamente e dilettantisticamente) con carattere professionale. In particolare esercizio dell’attività sportiva con carattere di esclusività e continuità, su una base di impegni contratti e dietro retribuzione regolare e costante”. Cardini di queste definizioni sono la continuità ed il profitto. La legislazione cit. sulle professioni di montagna (GA e m. sci) non applica con rigore i concetti or esposti. L’art. 2 L. 6/89 recita “ È guida alpina chi svolge professionalmente, anche in modo non esclusivo e non continuativo, le seguenti attività: ecc.” (identico il tenore dell’art. 2 L. 81/91 sui m. sci). Le attività in parola non sono state connotate da quello che costituisce uno dei due cardini dei concetti di professione di professionismo, la continuità. D’altra parte l’art. 20 (Scuole e istruttori del CAI) L. 6/89 recita: “Gli istruttori del CAI svolgono la loro opera a carattere non professionale e non possono ricevere retribuzioni.” Se il carattere della continuità non vale a connotare il professionismo delle GA (e m. sci), e l’attività dell’istruttore non dev’essere professionale, l’accento cade inevitabilmente sulle retribuzioni, che devono mancare. Conclusione più prossima di questi rilievi è che la distinzione fra il professionista ed il volontario della montagna si gioca tutta ed esclusivamente sul profitto.

Ho scritto profitto e non gratuità, in quanto pure i corsi organizzati dalle Scuole del Sodalizio hanno un prezzo per gli allievi; il costo tuttavia è determinato soltanto dal rimborso delle spese che l’istruttore deve sostenere, manca invece nel modo più assoluto quel quid in più che rappresenta l’utile realizzato al netto dei costi. Ancora nel vocabolario Treccani si definisce volontariato “la prestazione volontaria e gratuita della propria opera, e dei mezzi di cui si dispone, a favore di categorie di persone che hanno gravi necessità e assoluto e urgente bisogno di aiuto e di assistenza, esplicata per far fronte a emergenze occasionali oppure come servizio continuo (come attività individuale o di gruppi e associazioni)”. Nel concetto di volontariato, spiccano due elementi: quello solidaristico, e quello economico (nel senso della gratuità).
Il volontariato degli istruttori è un volontariato diverso da quello or definito. L’istruttore non intende assolvere ad esigenze assistenziali; il suo servizio non è gratuito. Si parla di volontariato per distinguere l’attività dell’istruttore da quella del professionista. L’andare i montagna, in una parola l’alpinismo, è un’attività essenzialmente sportiva, estranea di per se ad una logica economica; tuttavia lo sport è diventato un’attività economica, pure lucrosa. Ed allora è proprio l’elemento economico che connota e vale a diversificare lo svolgimento di un’attività che è identica nel modo di esplicarsi (come vuole la definizione di professionismo). Giova ricordare per amor di esattezza che in montagna attività sportiva e mestiere di guida hanno percorso un cammino inverso rispetto a ciò che accaduto normalmente nel professionismo sportivo. Il professionista della montagna è nato prima dello sportivo.

Agli albori dell’alpinismo si andava in montagna a scopo esplorativo o scientifico, non per il piacere fine a se stesso di salire su una vetta, appunto con fine meramente sportivo. L’alpinismo come gioco sarà un’evoluzione successiva alle prime esplorazioni delle Alpi e si affermerà soltanto nella seconda metà del XIX secolo. L’esploratore e lo scienziato non si ponevano, almeno formalmente, scopi alpinistici in senso stretto; di qui il compito della guida che doveva accompagnarli nelle ascensioni. Solo quando l’alpinista ha preso coscienza del fatto, o meglio ha riconosciuto a se stesso ed agli altri, che in montagna si poteva andare, e si andava, per puro diletto e che questo tanto era maggiore quando mancava l’ausilio della guida, solo allora ha cominciato a prendere forma la differenza fra un accompagnamento effettuato senza scopo di lucro da quello operato dal professionista. Quando il primo ha iniziato a diventare sistema si è avviato pure il processo di formazione delle scuole di alpinismo.

I caratteri di differenziazione fra istruttore e professionista della montagna neppure sono offerti dal dato formale in campo amministrativo: tanto l’uno, quanto l’altro, deve sostenere un corso di formazione con valutazione finale; tanto l’uno, quanto l’altro, è iscritto in apposito albo. Sul piano delle definizioni semantiche e normative la differenza fra l’istruttore e la GA si esaurisce tutta nell’elemento economico del profitto. Conferma la conclusione l’art. 18 L. 81/91(m. sci); l’esercizio abusivo della professione è così definito: “all’insegnamento professionale è equiparato l’accompagnamento retribuito di clienti sugli sci”; ancora una volta è palese che il legislatore pone attenzione al solo aspetto economico.

Si è cercato e si è creduto di trovare la differenza fra il volontario ed il professionista dal punto di vista giuridico, affidandosi alla distinzione che si suol fare in diritto fra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale o da fatto illecito. Non è mia intenzione in questa sede affrontare un tema tecnicamente complesso come quello della responsabilità; mi sarà perdonato pertanto il procedere del discorso per mere affermazioni che potrebbero sembrare anche apodittiche. Nel manuale del CAI dedicato all’argomento, “La responsabilità nell’accompagnamento in montagna”, si è affermato che l’istruttore, prestando la propria opera gratuitamente, risponderebbe soltanto per colpa grave, nell’ambito della responsabilità extracontrattuale. La G.A. invece opera dietro compenso; questo fa sì che il rapporto col cliente sia di natura contrattuale (lavoro autonomo), come la responsabilità che ne deriva. La differenza così impostata è mal posta. Essa per un verso prende le mosse da presupposti teorici circa il modo di essere della responsabilità ormai superati, per altro verso da un dato di fatto erroneo.

La differenza fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale è stata abbandonata, in quanto non più idonea a descrivere la realtà così complessa delle relazioni personali nella società moderna, con inevitabili risvolti giuridici. L’area della responsabilità tout court si è allargata ben oltre quanto potevano immaginare i giureconsulti dei secoli passati, che discettavano di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, avendo come riferimento una società che ancora doveva conoscere la rivoluzione industriale. La seconda affermazione circa la non contrattualità del rapporto istruttore-allievo, è possibile solo ignorando le Scuole del CAI ed il loro modo di operare.

Innanzitutto l’allievo non ha un rapporto giuridico diretto con l’istruttore, bensì con la Scuola; con l’atto di iscrizione la Scuola e l’allievo sottoscrivono un contratto, in base al quale la prima fornisce un servizio, il corso, il secondo paga un prezzo. E’ lo schema del tipico rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive. In secondo luogo pure il rapporto Scuola ed istruttore è contrattuale; entrando nell’organico l’istruttore si obbliga ad effettuare talune prestazioni senza corrispettivo. E’ lo schema del tipico rapporto contrattuale con prestazioni di una sola parte (come ad es. il comodato od il trasporto gratuito). Come poi la colpa dell’istruttore verso l’allievo si riverberi sulla Scuola, facendone sorgere la responsabilità, in questa sede non interessa spiegare. Il fatto che dalla Scuola all’istruttore non corra denaro; il fatto che il loro rapporto sia connotato essenzialmente da vincoli e motivi metagiuridici non ha rilevanza alcuna e non inficia la verità di quanto sono andato affermando. Del resto è banale osservare che non tutto ciò che è preso in considerazione dal diritto è necessariamente rilevante sotto il profilo economico; proprio l’art. 20 (Scuole e istruttori del CAI) L. 6/89 dimostra l’assunto. Volendo recuperare per mera ipotesi di lavoro la dicotomia fra responsabilità contrattuale ed extracon-trattuale, dovremmo concludere che la responsabilità cui va incontro l’istruttore, quando accompagna l’allievo in montagna, è di natura contrattuale. La conclusione di questa breve digressione giuridica è che sul piano della responsabilità non si può cogliere nessuna differenza fra chi opera in montagna gratuitamente, come l’istruttore del CAI, e chi invece ne fa una professione. L’istruttore a rigore dovrebbe essere definito un dilettante, vale a dire chi coltiva un’arte, una scienza, uno sport non per professione, né per lucro, ma per proprio divertimento; sennonché il termine è usato troppo spesso a sproposito in accezione spregiativa, che ne sconsiglia l’adozione. In verità l’istruttore coltiva uno sport per proprio piacere; ed il diletto non solo è tratto dal praticare l’alpinismo, pure dall’insegnarlo agli altri.

E su questo rilievo può essere impostata la ricerca di un’altra differenza fondamentale che, aggiungendosi all’aspetto economico, vale a distinguere ulteriormente l’attività dell’istruttore del CAI da quella del professionista della montagna. L’istruttore svolge un’attività didattica complessa, impegnativa, che in tanto non è retribuita, in quanto ad essa è indotto da un forte entusiasmo, dal desiderio di trasmettere questo entusiasmo agli altri e con loro condividerlo. Introducendo queste riflessioni ho scritto passione. Una grande motivazione ideale spinge l’istruttore a dedicarsi agli allievi, sacrificando la propria attività personale.

Entusiasmo ed amore derivano da un approccio estetico alla montagna e ciò esclude che l’istruttore sia solo un depositario delle tecniche alpinistiche da dispensare agli allievi. In una parola l’istruttore vuole e deve trasmettere la cultura della Montagna. Questo scopo collima con la domanda dell’allievo che frequenta i corsi delle Scuole del Sodalizio; l’allievo chiede di essere accompagnato in sicurezza in montagna, però nell’ambito di un obiettivo più ampio che è quello di imparare a conoscere e frequentare la Montagna, accettandone i pericoli, ma escludendone i rischi; in ultima analisi chiede cultura. Questa è l’essenza dell’attività dell’istruttore, che condiziona pure la natura del rapporto fra allievo, Scuola del CAI ed istruttore. La GA non deve necessariamente insegnare al cliente, pur essendo in grado di farlo; il professionista della montagna non ha bisogno di essere un esteta per dare motivazione alla propria attività. Il cliente chiede alla GA di essere accompagnato in sicurezza ed in ciò si esaurisce la richiesta; ed accompagnare in sicurezza dopo tutto deve fare professionista. Se poi si verifica un apprendimento da parte del cliente, che il professionista può assecondare, si tratta di un fenomeno meramente secondario, che non vale a cambiare l’essenza dell’attività della GA e la natura del rapporto fra GA e cliente. Credo di poter concludere affermando che la Scuola di Alpinismo Tita Piaz in questi suoi primi cinquant’anni di vita sia stata specificamente funzionale ai fini del Sodalizio fissati nell’art. 1 Statuto: “ ‘Il Club Alpino Italiano … ha per iscopo l’alpinismo in ogni sua manifestazione, la conoscenza e lo studio delle montagne, specialmente quelle italiane, e la difesa del loro ambiente naturale”.
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