Dislivello 1.420 mt. di Lorenzo Lorenzini

Annuario 2011

Vi racconto il mio primo 4000

… o meglio, il mio primo 4000 con gli sci. Perché in realtà a quella quota c’ero già passato, in discesa con il paracadute e in saliscendi sugli altipiani himalayani (anche più di 5.500 mt.!). Ma si trattava appunto, o di discesa, (spericolata, appeso a folle velocità a un sacchettone di seta, che alla fine qualsiasi pantofolaio con un po’ di voglia di adrenalina potrebbe fare), o di alti-PIANI, sì, con belle camminate fino a quelle quote, ma anche tutto traslato verso z positivo di almeno 3.500 mt. rispetto alla nostra Europa! E invece questa volta ci sono salito con le sole mie gambe e la scarpa che più amo: gli sci. Ma è stato anche molto più difficile delle altre due volte. Con ordine…

Sveglia ore 4.00 (qualcuno ore 3.45!), mugugni e rincoglionimento totale, colazione insulsa da tipico rifugio svizzero, scarponi, pelli, veloce prova ARTVA e alle 5.00, albeggia, si parte dal Britannia Hutte, quota 3.040 mt. Questa volta sono in coppia con Claudina, una graziosa macchina da guerra e poi… Marco, Herr Direktor! Lo sappiamo già, sarà una salita dura per noi, senza nessuna pietà. Passo regolare verso Felskinn, su un saliscendi palloso che ci fa fare tanta strada e non ci fa guadagnare preziosa quota, ma ci dà almeno il tempo di contemplare questi giganti ghiacciati progressivamente illuminati da un sole che per un attimo ci sembra più basso di noi. Ma è pura illusione: tempo pochi minuti ed è lui, assieme alla montagna, a comandare, così che già dalle prime ore del mattino ci costringe a impomatarci o coprirci come beduini. Arrivati sopra Felskinn miriamo il nostro obiettivo: l’Alphubel, 4.206 mt. Allora ragazzi, si passa di lì a destra, poi si fa quel traverso… si passa sotto quei seracchi, poi su su su, si fa la cresta e attraverso facili roccette si perviene alla cima… più o meno le voci che girano sono queste (a parte le facili roccette che questa volta non ci sono, ma un bel mammellone bianco dove arrivare forse con gli sci ai piedi)… sì, va beh, ma come si fa ad arrivare lì a destra? lì per modo di dire… laggiù!

Bisogna scendere tanto e, una cosa che ormai ho imparato bene facendo sci alpinismo, è che tutto quello che scendi, a meno che tu non torni alla comoda macchinina che ti aspetta parcheggiata, prima o poi lo devi risalire! Un po’ di sconforto, qualche smoccolamento e svariati saliscendi esplorativi, ma alla fine Herr Direktor trova una strada alternativa: un bel traverso in leggera discesa con pelli e coltelli, con piccozza a monte per tenersi: era meglio la salita… Capiamo che andiamo verso la traccia giusta vedendo sotto di noi due cordate che passano: traccia relativamente giusta perché uno dei quattro che vediamo entra in un buco. Ora: i nostri istruttori lo chiamano “buco”, ma pensandoci nemmeno tanto bene è un crepaccio. Fanno così per non metterci paura, hai capito? Comunque, come quasi sempre, ci riescono. Nel frattempo che il tizio è faticosamente uscito dal buco, noi abbiamo preso le loro tracce e finalmente anche un po’ di quota. Tutto procede, a parte qualche piccozza scivolata a valle, faticosamente recuperata da Alfio, e la fatica che comincia un po’ a farsi sentire, siamo ora tutti e 15 insieme. Fermatici su un pianoro per una pausa, Marco decide però che ci siamo allontanati troppo dall’Alphubel ed è meglio cambiare vetta, sennò facciamo troppo tardi: Allalinhorn. E Allalinhorn sia! Fortuna che qui c’è pieno di 4000…

Riprendiamo la salita, sempre come gruppetto di testa, ma dopo un po’ Claudia si ferma dicendomi di non stare bene: lì per lì voglio illudermi che sia solo stanchezza. La supero per raggiungere Marco e riferire: lui rimane con lei e come sapremo solo al ritorno, anche se ce lo immaginiamo, scendono di quota per tornare poi al rifugio. Il mal di montagna ha fatto la prima vittima, forse la più inaspettata. Proseguo davanti a tutti, con Brenno alle calcagna che mi incita a fermarmi sempre più in alto… quel colletto lì, dai, e poi aspettiamo gli altri. Al colletto ci arriviamo, un po’ cotto, ma comunque con ancora la forma sufficiente per affrontare il resto. Alla fine mancano 500 mt., ce la possiamo fare. Ripartiamo tutti insieme, ma le cose cambiano e ad ogni passo il fiato mi manca sempre di più. Nel giro di 200 mt. mi trovo praticamente ultimo, seguito solo da Alfio a debita distanza, lì per lì non riesco a capire se perché in difficoltà di fiato anche lui o semplicemente per non mettermi ansia. Superato un ponte di neve su un crepaccio vedo praticamente sparire tutti, anche la Betta e la Francesca che sembravano andare del mio passo.

Non ce la faccio più a non fermarmi, è il respiro a mancarmi, anche se non ho nausea o giramenti di testa. Prima ogni 30, poi ogni 20, poi ogni 10 passi sono costretto a fermarmi per recuperare. E Alfio dietro come un’ombra. Non ci scambiamo parole, forza sprecata. Ma mancano ancora 300 mt., quelli più difficili, quelli con meno ossigeno (o quelli con la minor pressione parziale di O2, come direbbe qualcuno!) così non ce la posso fare. L’imperativo poi è categorico: a mezzogiorno, dovunque siamo, anche a 10 mt. dalla vetta, si torna indietro. Comincia, e, si rafforza, uno scontro interiore tra colui che ha tutte le tentazioni di fermarsi e aspettare gli altri tornare in discesa e quello che pensa, invece, come sarebbe bello arrivare su quella vetta insieme a tutti i compagni, pregustare di riviverlo ogni volta che lo racconti o ci ripensi, mettere anche un punto fermo, che nella vita spesso ci sembra così importante. E’ un rapido alternarsi di questi pensieri che inevitabilmente mi offuscano gli occhi di lacrime, che, però, ho paura di sprecare. Con incredibile sforzo arriviamo a un colletto, dove gli altri ci aspettano, siamo sopra i 3.800. Ne mancano poco più di 200. Ma la vetta si vede, annerita da forse una ventina di metri di solite “facili roccette” sottostanti.

Ragazzi come state? A qualche ottimistico “bene”, si contrappongono altri “insomma” o “malino”. Non mi esimo ovviamente dall’ammetterlo. Era anche evidente! Sgranocchiata un po’ di frutta secca e bevuto come cammelli, ripartiamo e tempo pochi metri sono di nuovo ultimo, questa volta, dopo Alfio, a cui cerco però di stare dietro. Il passo è lentissimo, ta, ta, ta, c’è sempre qualche frazione di secondo tra un passo e l’altro, ma con fatica estrema riesco a tenerlo. Gli altri arrivano sotto le rocce, si tolgono gli sci e li vedo salire sulla vetta. Noi saremo forse 15 minuti indietro ma le forze sono proprio alla frutta… mi sembra incredibile, ma arrivo alle roccette, guardo l’altimetro, abbiamo superato i 4.000 mt., almeno un traguardo l’ho raggiunto! Che facciamo? andiamo sulla vetta? Mah, ho fatto 100, facciamo 101… via gli sci, e, senza ramponi, salgo le rocce, e poi, su sulla cresta, mentre alcuni miei compagni stanno ordinatamente ridiscendendo.

Questa cresta che stranamente non mi fa un minimo di paura. E non è incoscienza. Brenno mi vede e mi fa i complimenti, lì per lì non capisco neanche perché… abbraccio la Betta, faccio gli ultimi passi per raggiungere la croce, singhiozzando. Forse qualcuno se ne sarà accorto, abbracciandolo, come si fa quando si arriva insieme su una cima. Prendo una foto abbarbicato alla croce di ferro, ne faccio una a Gianluca e Alfio. Non credevo tu ce l’avresti fatta, mi confessa… mai fu più gradito un tale complimento… Sono le 11.45, il cumulonembo si avvicina, riscendiamo agli sci e ci prepariamo per il lungo ritorno.

Da qui è poi solo discesa, l’unica cosa che un buon sciatore riesce comunque a fare. O perdita di quota come direbbe qualcun altro. Con il Monte Rosa davanti, il Plateau Rosa ancor più in là e lo Strahlhorn in primo piano… tutti quegli spettacoli che difficilmente ero riuscito a vedere in salita.

 

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