Il Diavolo e il vin santo di Simone Marroncini

Annuario 2012 – Le interviste strapiombanti (dove il Diavolo è quello che meno ti aspetti)

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Sulla Bonatti al Dru (foto C. Barbolini)

La redazione ha deciso che dovessi intervistare quei due: probabilmente non resto simpatico. Con quello che vi vado a raccontare vorrei dare il via a una serie di incontri con chi ha dato lustro all’alpinismo fiorentino. Il ciclo s’apre con Marco Passaleva e Carlo Barbolini. I due rappresentano la cesura vivente tra l’alpinismo classico e la modernità, l’attualità, ma sempre dell’alpinismo con la A maiuscola. Sono due colonne portanti della Scuola di Alpinismo Tita Piaz, che Marco Passaleva ha diretto per ben 22 anni. Hanno partecipato a spedizioni extra europee, Carlo Barbolini ne ha fatte ben 10.

 Carlo Barbolini è un membro del Club Alpino Accademico Italiano, Marco Passaleva tra le altre cose ha fatto non meno di 80 vie sul Bianco (la leggenda dice 100, però). Questi dati ci danno la misura del loro essere alpinisti. Quanto mi hanno detto invece delinea il valore umano. Ecco la cronaca di questo bellissimo incontro. Fissarlo è stato un passaggio di VI. Per due ragioni, non capivano cosa volessi da loro; e bisognava trovare luogo, ora e giorno che mettesse tutti d’accordo. La fortuna ha voluto che Marco dovesse andare a riprendere la macchina a casa di Carlo, da un lato, e che io dovessi sbrigarmi. Alfine si fissa: cena a casa di Carlo. C’era Italia-Irlanda … Parigi val bene una messa (e poi per definizione l’alpinista aborrisce il calcio). Passo a prendere Marco e si va. Marco è un ingegnere, dunque, un logico, e questa cosa dell’intervista gli torna poco, è scettico. Ma ormai l’ho messo in macchina. S’arriva all’appuntamento. Angela, la cortesissima moglie di Carlo, c’accoglie. Si respira un’aria di sospetto. Da una parte Angela, loro due e il cane di Carlo (peraltro tanto grosso quanto educato), dall’altra, solo io. Durante la cena non si parla del più e del meno, si parla di montagna. Cioè loro parlano e io ascolto rapito.

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M. Passaleva (a sinistra) con C. Barbolini (foto S. Marroncini)

 Mi raccontano di vie fatte al buio, di calate fatte al buio, di incidenti, di soccorsi, di discese impossibili, di un sacco di cose, tutte di estremo interesse, ero quasi dispiaciuto di interromperli. Di fatti si sono interrotti da soli, realizzando al fine che eravamo lì per uno scopo preciso.

Faccio la prima domanda: cos’è la Montagna? E li spiazzo, almeno così mi sembra. Carlo risponde: e per te cos’è la Montagna?

Scusa ma le domande le devo fare io.

Si va bene, ma dimmi te, cos’è la Montagna per te.

Avverto tutto il peso di un possibile fallimento, ma prendere di punta Carlo …. non era (e non è mai) il caso. Allora la prima risposta della loro intervista, la do io. Non è un buon inizio. Azzardo una serie di ovvietà: la montagna, l’alpinismo sono avventura, natura, silenzio, terreno di gioco e d’avventura, toccare la roccia, insomma un insieme di cose. Marco mi leva da questo imbarazzante avvio: “L’alpinismo è l’evoluzione della passione per l’ambiente della montagna, anche nelle sue forme più estreme. Andare in montagna è fondersi col suo ambiente, in ognuna delle sue forme, e tra queste l’Alta Montagna più mi trasmette questa sensazione. La prestazione spesso è una conseguenza di una raggiunta simbiosi con l’ambiente. La pratica dell’alpinismo sviluppa la capacità di entrare in sintonia con l’ambiente alpino, sino a creare una vera e propria simbiosi. Attenzione, però, non è che tutte le altre maniere di vivere la montagna siano sbagliate, perché in montagna ognuno ha le sue motivazioni. Così come diverse sono le mie di oggi rispetto a quando ho cominciato quaranta anni fa. Allora era un’altra cosa, vivevo profondamente la montagna, come oggi non mi è più possibile: bisogna trovare dei compromessi.

La ricerca di un’armonia con l’ambiente è un po’ il senso dell’andare in montagna, armonia che progredisce con una appassionata frequentazione, che non è però, come spesso oggi si confonde, allenamento. E’ tutta un’altra cosa. E’ piuttosto una crescita della familiarità con la montagna, anche nelle sue forme più estreme, come dicevo, che si rivela poi necessaria per compiere una grande ascensione in alta montagna. Dovresti avvertire forte questa tensione ad entrare in simbiosi la montagna.”

MONTAGGIO
Marco e Carlo sulla cima del M. Bianco dopo la salita del Grand Pilier d’Angle

 Carlo: “Questa affinità con la montagna, specie con l’ambiente alpino, e ancor di più con quello dell’alta montagna, caratterizza ogni tuo gesto in montagna, al punto che potrei dire che la scarsa affinità si rivela quando si tratta di fare qualcosa di inusuale, come scendere un tiro. Ieri ad esempio, col mio compagno di cordata s’imponeva di scendere; ho fatto per arrampicare in discesa, ma ho colto nel mio compagno il disagio della situazione e allora ci siamo calati. Questo per dire come una discesa estremamente semplice possa assumere l’aspetto di una cosa assai complicata, in una situazione mai vissuta prima. Agli albori dell’alpinismo, quando la montagna era molto più selvaggia, la sua frequentazione non escludeva alcun suo aspetto, ci si preoccupava di arrivare alla meta e di tornare, inventandosi le soluzioni dei problemi, tutti imprevisti. E anche se il grado era modesto, la difficoltà d’ambiente era elevatissima. Questa è la differenza, oggi si cerca il grado alto, ma in ambiente familiare”.

Carlo ha finalmente parlato da par suo, poche parole decise, pesanti d’esperienza. Riparte l’altro, che è molto serio. Buon segno.

Marco:”La tua stessa simbiosi con la montagna si trasferisce anche ai componenti della cordata, meglio se già la possiedono. Ciò è di grande aiuto in un ambiente severo e migliora certo l’efficienza della cordata. Non c’è solo la tecnica d’arrampicata, bensì mille altre cose da fare: da rifugio a rifugio è un continuo pensare a ciò che fai, a ciò che farai dopo, e da fare bene. E’ molto tranquillizzante sapere che il tuo compagno ragiona come te, usa il tuo stesso linguaggio, fa le stesse cose che a ruoli invertiti avresti fatto te. Quando la difficoltà ambientale diviene elevata, questa comunanza di pensiero si trasforma in sicurezza”.

Carlo:”Cerco di spiegare, non è che si pensa in maniera identica ai problemi della progressione. Questo no. Si ha la certezza che la soluzione scelta dal compagno sia l’unica o la stessa che avrei potuto scegliere io, o tanto ragionevole quanto quella diversa che avrei fatto io. Così se Marco mi dice un chiodo non è buono, so esattamente cosa significa, e so che di quel chiodo penserei la stessa identica cosa. Ciò nonostante, quando l’ho da primo, penso sempre che vada piano (NdR: questa l’ho già sentita), e fremo e non capisco perché. Sempre. Poi tocca a me e capisco. Noi siamo della scuola dell’andare veloci (NdR: inimmaginabile!), perché essere veloci, con sicurezza s’intende, vuol dire stare meno in parete, tornare prima e rischiare per meno tempo. Non conta fare il bel passo, conta fare presto, che è sicurezza.”

Marco:”Anche se durante la progressione si cerca sempre la perfezione.”

Carlo:”C’è una cosa che mi disturba molto, per come ho sempre inteso l’alpinismo, questa ricerca del passaggio difficile a tutti i costi, compreso quello di “volare”. Oggi mi sembra che sia diventato un po’ troppo normale “volare”. Personalmente ho fatto tre soli voli, e non me li scordo: in Apuane, nel Bianco, e in Dolomiti. Oggi il passaggio si prova, invece, il passaggio non si tenta: si procede o si torna indietro. Prima di lasciare una mano si DEVE scendere. Il volo è e dev’essere sentito come un incidente, mentre lo si vive e lo si racconta con troppa leggerezza.”

Marco:”Questo modo di pensare, e mi associo a Carlo, è sicuramente un frutto dei tempi. Il nuovo non è certo tutto da buttare, come non si può mettere tutto sotto la stessa campana. Bisogna però mantenere chiare certe distinzioni, per cui non si può trasferire in ambiente la mentalità della falesia o della palestra. Non vorrei fare un discorso di sola montagna, questo no, oggi il nostro movimento è più allargato, così ci sono persone che dalla falesia si avvicinano alla montagna se non all’alta montagna, trasferendovi la loro idea di performance. La qual cosa non è necessariamente negativa, a condizione di non scordare che trasferire in alta montagna una performance tecnica di alto livello richiede una grande familiarità con l’alta montagna. E’ vero che c’è chi in ambienti estremi si comporta come in palestra e con successo, ma si parla di personaggi che hanno doti tecniche non comuni, e certo una gran passione per quegli ambienti difficili. L’unione di tecnica elevata e intensa passione produce il massimo delle prestazioni.”

Sulla Bonatti al Dru (foto C. Barbolini)
Sulla Bonatti al Dru (foto C. Barbolini)

 Ribadisce il concetto e poi precisa Carlo:”Alpinismo oggi viene variamente declinato, trad, classico, etc; il richiamo all’alpinismo classico ha sovente un che di quasi denigratorio. Questo non lo posso accettare, l’alpinismo è tutto, poi c’è chi fa la Nord delle Jorasses di corsa e chi no.”

Marco:”Uno come Ueli Steck non andrebbe di corsa sulla nord delle Jorasses se non amasse profondamente quell’ambiente. Alla base di tutto c’è e ci deve essere la passione per l’ambiente alpino. “

Breve pausa di riflessione corale. Quindi, soggiunge Marco: “Non si deve scordare che l’alpinismo in ambiente severo era l’unico che c’era nel 1900

Carlo:”Erano salite di limitate difficoltà tecniche, ma in ambienti talmente severi … penso alla traversata delle Courtes agli inizi del ‘900 …

Marco: “Nel 1920 erano sostanzialmente più forti di adesso”. Carlo a braccia conserte acconsente. Poi aggiunge:”Non esistono uomini per ogni stagione, e dopo la nostra ce ne sarà un’altra, a Firenze per esempio non c’è nessuno che ha fatto un 8000. Quello che però vorrei far capire è l’esigenza di conoscere e rispettare propri limiti, che significa accettarli e godere al loro interno di tutto ciò che ti offre l’ambiente alpino. Quanti incidenti sono spesso frutto di errori di valutazione”. Chi meglio di lui può dirlo, essendo pure membro del Soccorso Alpino. Sanno di aver sparato ad alzo zero sulle mode, sull’immaturità di adesso, sulla mancanza di rispetto per l’ambiente. La pausa mi consente di cambiare argomento: come si concilia questa vostra rigorosa concezione col vostro impegno nella Scuola Tita Piaz o col fare comunque scuola di Alpinismo?

Tentativo all'Aiguille del Fou (foto C. Barbolini)
Tentativo all’Aiguille del Fou (foto C. Barbolini)

Carlo:”Le scuole cambiano. Entrare nella scuola è stata una naturale evoluzione della nostra passione. Fummo chiamati dalla scuola per quello che avevamo fatto ed eravamo in grado di fare. Non siamo entrati nella scuola per avere una certificazione delle nostre capacità, al contrario di quello che mi sembra oggi accada ovunque. La scuola aveva una sua ragione di essere vissuta con passione, era un momento di confronto importante.”

Marco:”L’alpinismo è certo cambiato e le scuole sono cambiate. Noi abbiamo avuto il privilegio di vivere il periodo per me più bello della Piaz, quello del passaggio da una scuola prima maniera, tutta entusiasmo, a una scuola di qualità, che raccoglieva intorno a sé il meglio degli alpinisti fiorentini. Negli anni ’70 non c’era un movimento alpinistico al di fuori del CAI. Prima della nostra generazione gli alpinisti fiorentini erano pochissimi, e, soprattutto, erano pressocchè dei singoli. Con noi si coagula intorno al CAI un gran bel gruppo di alpinisti, che facevano montagna davvero, e dalle cose fatte nasceva la proposta, nel mio caso accettata, di entrare a far parte della scuola. Cosicchè nella scuola si trasferì armi e bagagli quello stesso gruppo. La vera evoluzione fu nei numeri del gruppo, diciamo, protagonista, alpinistico prima ancora che didattico. Oggi si scorda questa grossa differenza. Sono passati diversi anni da allora, e se si considera che le scuole più vecchie hanno 50 anni … ma tutto questo è scritto nel libro sui 50 anni della Scuola Tita Piaz“.

Si vede che sono e si sentono ancora la Scuola, e vorrebbero che continuasse ad assomigliare a se stessa. Temono per il suo futuro? Sembra di sì.

Carlo:”Oggi nelle scuole ci sono gli istruttori a terra. Il che vuol dire che si fa curriculum per entrare o peggio legittimare il già avvenuto ingresso nella scuola. Se non ricordo male, Mario Verin ci chiamò nella Scuola nel 1973 e divenimmo istruttori; poi appena raggiunti i 25 anni necessari per partecipare al corso per INA, ci presentammo, e per il nostro curriculum divenimmo INA; quindi nel 1981 entrammo nella Scuola Centrale CAI. Era una scuola di sostanza, molta concretezza. C’era tanta passione e condivisione, spesso alle uscite eravamo quasi troppi, e si facevano un sacco di uscite con gli allievi“.

Marco:”La Scuola era vissuta con grande pathos, al punto che in alcune riunioni si trascendeva fin quasi alle vie di fatto. Erano anche altri anni. Comunque la Scuola era un parte della nostra vita. La scuola insomma era il luogo di incontro di un gruppo allargato di persone che prima di tutto amava andare in montagna insieme: la passione era la spinta … ti basti pensare che ci sono stati anni in cui ho fatto 60 ascensioni, che stavo 30 giorni di fila in campeggio in Val Veny. Quella stessa passione mi ha portato a dedicare 22 o 23 anni della mia vita alla direzione della Scuola. E la scuola è anche mia. E’ parte di me.

Carlo: ”Noi facevamo tanto alpinismo e tanta scuola. Va detto che non era come oggi, le cose si sapevano in modo diverso. Si arrivava da Toni Gobbi (negozio luogo d’incontro di Courmayeur) si leggeva che qualcuno aveva aperto una via, ci si guardava in faccia e si diceva, andiamo. Così è venuta la prima ripetizione della Grassi Casarotto alla Nord dell’Aiguille Verte, il tentativo della quarta ripetizione della Gervasutti alla Est della Grand Jorasses. Ciò era possibile perchè fino agli anni ’90 circa il grado massimo era il VI (poi c’era l’artificiale), e se possedevi il VI grado, in pratica potevi fare tutte le vie. Inoltre, era scattata in noi la consapevolezza di essere alla pari dei migliori del Nord, come si diceva allora, perchè andammo a fare il corso INA, vedemmo che i nostri curricula erano pari ai loro, e forse anche più importanti. Così ci sentimmo in condizione di osare di più. Da questa consapevolezza venne la prima ripetizione italiana alla Nord della Droites.”

CAMPEGGIO VAL VENY
Un giovane Carlo Barbolini (primo da destra) ed un altrettanto giovane Marco Passaleva (secondo da destra), negli anni ’80 al campeggio della Val Veny

 Dalla scuola di alpinismo Tita Piaz, si ritorna al Bianco. Come mai a lasciarvi parlare, s’arriva sempre al Bianco; e, poi, dalle vostre parole sembra che ci siano due universi alpini, il Bianco e il resto del mondo. Perché?

Marco Passaleva parte da lontano:”La storia alpinistica fiorentina nasce sulle Apuane e sulle Dolomiti, che per certi versi si assomigliano. La passione per il Bianco arriva dopo con Mario Verin, Valdo Verin, Giovanni Bertini, e il Lea (Leandro Benincasi): sono loro che fanno le prime vie significative. Nel 1969 il Lea e Mario Verin ripetono la Nord della Grand Jorasses, che è una grande via. E’ soprattutto, un exploit di mentalità. Sul Bianco si viveva di episodi isolati, anche quelli di grande qualità, anche Bonatti al Grand Capucin fu un caso sporadico”.

Carlo:”Prima si metteva sempre la tenda al Pordoi per 20-25 giorni d’estate, col Santini, Poldo e gli altri, e s’arrampicava. Per farti capire il “prima” pensa che quando facemmo la Carlesso Menti alla Torre di Valgrande, con Marco e il Ghiandi in tre si faceva 54 anni! Poi vennero le stagioni del Bianco. Marco fu il primo.”

Marco: ”Da quando avevo quattro anni sono sempre andato in Val d’Aosta d’estate. Nel 1975 ero in zona, al Campeggio Val Veny, e con Antonio Bernard, eccellente alpinista di Parma, amico di Mario Verin, andai a fare il Piler Gervasutti: fu una violenta folgorazione, ero in estasi. 800 metri di splendido granito rosso, una meraviglia! (ndr: si commuove). Tornai a Firenze e dissi ragazzi si deve andare, ma che siete grulli! si deve andare lì e basta. Così fu per 15 anni. Carlo mi sembra venne nel 1978 la prima volta.”

Carlo: ”Si stava lì e si facevano vie, ripetizioni, magari prime ripetizioni. Si sentiva parlare di una via, la si vedeva e, almeno io, pensavo che bello sarebbe essere lì, e si andava. “

Marco: ”Come il Delfinato, il Bianco è un gruppo che racchiude cose che nessun altro gruppo in Europa ha. E’ infinito. La difficoltà però è reale. Non ammette bluff. Più volte s’è vista gente anche brava tornare indietro.”

Marco al Grand Pilier d'Angle - via Doufur/Frehel (foto C. Barbolini)
Marco al Grand Pilier d’Angle – via Doufur/Frehel (foto C. Barbolini)

Momento di pausa.

La Montagna d’Alta Quota significa roccia di alta difficoltà, ma anche e insieme ghiaccio di alta difficoltà, discese di estrema complessità, avvicinamenti lunghi complicati e faticosi. Partenze di notte e rientri spesso di notte pure“.

Carlo:”Quello che mi affascina del Bianco è la sua vastità, la sua estrema difficoltà ambientale, e quella sensazione che ti dà di dover contare solo su se stessi. Al contrario di altri scenari alpini, in cui è facile e frequente contrabbandare per alpinismo ciò che non lo è. Per quanto oggi si sia un po’ persa quella ambizione di essere autosufficienti, propria dell’alpinismo, dell’avventura alpinistica. Oggi si ripiega troppo disinvoltamente sul soccorso alpino, si confonde la difficoltà con l’emergenza. Con la conseguenza che non si maturano più quelle esperienze di contrarietà, capitate a tutti quelli che vanno in montagna, che arricchiscono e consentono di risolvere situazioni difficili, senza tanti problemi e tanti rischi, certo con difficoltà. Anche nell’incidente di cui ho detto poc’anzi, la prima preoccupazione dell’infortunato è stata capire tra quanto arrivava l’elicottero, mentre si dovrebbe pensare che non sempre ci può essere un elicottero che ti leva dalle peste. Chiudo il ragionamento tornando al Bianco, se uno maturasse le sue esperienze in un ambiente severo, non perderebbe quel senso dell’alpinismo, come avventura, e in cui devi fare affidamento solo sulle tue forze. Nel Bianco avverto nettamente queste sensazioni. Per capire la montagna e l’alpinismo bisogna andare anche in ambienti più severi. Cento comode vie in Dolomiti, non ti metteranno mai a tuo agio in un ambiente severo, alpinisticamente non progrediresti neppure se ne fai 150. In un anno, non mi ricordo quando, Marco fece tre vie sole, ma quelle tre vie erano la Maior al Bianco, la Grassi-Meneghin al Mont Greuvetta, e la Bonatti al Dru. Io ero con lui, e ti assicuro che quelle tre vie ti conservano quella sintonia con l’ambiente alpino di cui si parlava all’inizio. Perchè se non fosse così, non le avremmo potute fare quelle tre vie, che comportarono difficoltà ambientali e durata d’impegno non comuni.”

Marco: ”L’alpinismo di alta quota è il compendio massimo dell’essenza dell’alpinismo. Non ammette errori, di nessun genere. Non puoi sbagliare neppure i tempi con cui fai colazione alla partenza, la gestione dell’avvicinamento, o altro, perché il risultato è che la via non la fai. Tutto è al limite“.

Carlo: ”La frequentazione del Bianco, inteso come ambiente ostile, è necessaria per imparare a leggerlo, e saperlo leggere insegna a fronteggiare l’imprevisto, a rimediare all’errore, magari scendendo due tiri, d’altronde se occorre si scende (ndr: è una fissazione quella di arrampicare in discesa!). Tutto al fine concorre a migliorare l’attitudine a fronteggiare l’emergenza, che si rivela utile in ogni ambiente, e specialmente nelle spedizioni, che sono l’evoluzione dell’alpinismo di alta quota. Lì farsi male è davvero vietato, perché è fatale.”

In Dolomiti di Brenta dopo la "via delle Guide" (foto C. Barbolini)
In Dolomiti di Brenta dopo la “via delle Guide” (foto C. Barbolini)

Marco: ”La forte differenza tra l’arrampicata diciamo tradizionale e l’alpinismo in alta quota, in rapporto di 10 a 1000, è che nel secondo tutto ha una sua consequenzialità, per cui paghi ogni gesto che fai, nel bene e nel male. Se fai una via come la Dufour-Fréhel con variante Boivin al Grand Pilier d’Angle non sarà tanto la tecnica d’arrampicata che ti servirà, bensì determinazione e affinità con quell’ambiente.

Carlo: “Quella volta le condizioni erano tali che altri forse sarebbero scesi, ma noi pur avendo dei problemi, con tutti i tempi previsti saltati, siamo arrivati alla fine. Sulla Bettembourg all’Aguille Verte, di notte incrociammo due francesi, un uomo e una donna, che non avevano previsto il ghiaccio, scendevano e lì finì la loro via, per un grave errore di previsione. Il ghiaccio si può trovare sempre a quelle altitudini.”

Marco: ”Occorre ragionare sempre con la propria testa.”

Carlo: ”Non si deve prendere per oro colato la descrizione dei problemi tecnici, occorre usare la testa e avere fantasia.”

Nel Bianco negli anni Sessanta arrivarono gli “americani”, cosa pensate del vento di trasformazione che giunse con loro e di cui qui ci siamo spesso occupati come AF. Il Barbolini fa quasi spallucce alla domanda, lascia intendere che per lui se n’è già parlato troppo di questi americani. Senza troppo entusiasmo, allora, risponde Marco: ”Gli americani iniziano nel ’30 nello Yosemite, quando da noi eravamo già molto avanti, si può dire che da noi tutto era stato esplorato. Loro sviluppano una grande tecnica d’arrampicata, molto spinta sia in libera che in artificiale, in ciò obbligati dalle fessure dello Yosemite, le uniche strutture lungo cui era possibile arrampicare. Negli anni ’60, rispondendo agli echi che gli venivano dal vecchio continente, vengono anche a conoscere il Bianco. Si piazzano a Chamonix, e trovano le stesse strutture delle loro vie, e aprirono nuove vie, laddove si riteneva non fosse possibile. Furono dei veri exploit per l’epoca. Solo su roccia però. In questo furono d’insegnamento agli europei, e furono subito seguiti dai fratelli Remy e Piola, che riempì il Bianco di spit.”

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Gruppo del M. Bianco – Marco sulla “Albinoni” (foto C. Barbolini)

Carlo Barbolini non aggiunge niente. Mi sa che gli americani non li entusiasmano. Rubo ancora qualche rapida domanda. E’ stato un vostro interesse aprire nuove vie?

Marco: ”No, assolutamente. Non era e non è questo il mio interesse, se è accaduto è stato per caso.”

Carlo: ”E’ successo che siamo stati degli apritori, perché abbiamo finito il lavoro lasciato a mezzo da altri. Avevamo due alpinisti e insigni geologi a Firenze, Giovanni Bertini e Piero Passerini, che cercavano sempre nuove vie, essendo sovente nelle Apuane, così abbiamo collaborato con loro, e ci hanno indicato tra gli apritori.”

E’ molto tardi, forzo la mano: l’evoluzione del vostro arrampicare.

Marco: ”C’è poco da aggiungere a quanto ho scritto nel volume commemorativo della Piaz. Il tempo è passato e il mondo è cambiato, e noi abbiamo seguito l’evoluzione della disciplina, ci sono stati dei momenti di rottura e di progressione. Mi piace ricordare l’importanza che ebbe per noi il raduno di Konstein del 1981, dove ci confrontammo coi più forti arrampicatori del momento. E con orgoglio devo dire che il gruppo di Firenze era tra i pochi italiani presenti. Aver visto i più forti arrampicatori passare dove non ci riuscivamo proprio, e non eravamo male, ci fece capire che quelli erano anni avanti, e tornammo avendo capito che andava rivisto tutto il nostro modo di arrampicare. E difatti rivedemmo tutto, ad esempio via le staffe a Maiano, dove fino ad allora si usavano normalmente”.

Carlo: ”A Maiano piano piano si riuscirono a fare tutte le vie in libera, e nessuno prima di Konstein l’avrebbe immaginato”.

Boulder ante-litteram in Val Ven y - anni '70
Boulder ante-litteram in Val Veny – anni ’70

 Infine, vi devo chiedere una cosa, davvero l’ultima: ma chi vi sta accanto come vive e ha vissuto la vostra passione? La risposta di uno dei due è stata sostanzialmente questa. Bisogna fare un distinguo, tra la compagna che non conosce la materia, e quella che sa di alpinismo. La prima si fida di ciò che gli viene raccontato, e sta tranquilla; la seconda esige e merita un maggior numero di spiegazioni, che diventano, però, le sue preoccupazioni. E fin che può le tiene per sé. Non sempre però questo accade, e allora la consapevolezza si trasmette all’ignara e …. qui cominciano le apprensioni, ma di lì a poco in genere tutto finisce. La pace domestica di ognuno è sacra e qui mi fermo. Vi basti sapere che di apprensioni a chi gli è stato accanto questi due ne hanno create molte, ma molte di più ne hanno evitate. Il punto è un altro: siccome per loro è tutto banale, se ne saranno resi conto?

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