Pilone Centrale del Freney – agosto 1961 di Roberto Masoni

Annuario 2012 – La conquista del Pilone Centrale – Un finale degno della miglior regìa

Colle di Peutery, 27 agosto 1961
in primo piano: Clough, Whillans e Douglosz
(foto di C. Bonington dal libro “I chose to climb”)

La tragedia di Bonatti e compagni si è conclusa solo da qualche settimana. Una disgrazia che “aveva suscitato un’impressione profonda, ma sollevato anche un turbine insensato di polemiche, di più o meno velate accuse, di indignazioni fuori luogo. Per molto tempo ancora si cercarono responsabili, si valutarono scelte, comportamenti, opportunità: si fece di tutto insomma fuorché onorare, col silenzio, i morti e la sofferenza dei vivi” (Nereo Zeper – “Ladro di montagne, Ignazio Piussi: montanaro, alpinista, esploratore” – Franco Muzio Editore 1997).  Anche in quell’estate del 1961, come abitudine d’altronde, Chamonix e Courmayeur sono affollate di villeggianti. Molti di loro fanno la coda alla biglietteria per salire al Rifugio Torino, da un lato, o all’Aiguille du Midi, dall’altro. Difficile trovare traccia, sui loro volti, com’è anche ovvio che sia, del dramma che si è consumato a metà luglio sul versante del Freney. Difficile anche che sappiano interpretare quanto, in quei giorni di vacanza, sta avvenendo intorno a loro. Eppure la storia della conquista del Pilone Centrale è agli sgoccioli, una storia che si concluderà il 29 agosto del 1961. Una storia avvincente che non merita di essere liquidata consultando semplicemente un libro, o una guida, dove sono freddamente elencati nomi e cognomi dei primi salitori, talvolta anche le difficoltà dell’itinerario. Sarebbe riduttivo. E’ una storia invece che vale la pena raccontare, non fosse altro perché basta camminare per Chamonix o per Courmayeur, in quei giorni di fine agosto, per capire che le “grandi manovre” sono iniziate. Da anni il Pilone Centrale è nel mirino di molti alpinisti ma, specialmente dopo la tragedia di luglio, l’interesse è addirittura aumentato.

La corsa al Pilone

In montagna gli alpinisti si riconoscono, non so da cosa dipenda, cosa mai avranno, avremo, di diverso. Forse il modo di vestire o il modo di comportarsi, non saprei. Resta il fatto che in quell’estate del 1961 se ne riconoscono molti fra i bistrot di Cham o nei pressi di Gobbi Sport a Courmayeur. Nella prima settimana di agosto, peraltro, si è tenuto un convegno internazionale organizzato dall’Ecole di Chamonix al quale hanno partecipato molti di questi alpinisti. Quando si parla di Ecole si parla dell’ENSA – Ecole Nationale de Ski et d’Alpinisme, un’istituzione.

Pochi villeggianti avvertono che quegl’uomini che incrociano in Rue Vallot o in via Roma sono nomi di prima grandezza: Chris Bonington, Don Whillans, Pierre Julien, Ignazio Piussi, Jan Clough, René Desmaison. Ma anche nomi che abbiamo già incontrato, nomi come Gary Hemming o John Harlin. E infine, anche se non coinvolto in quest’ultima corsa al Pilone, un nome che ritorna, che rientra, nonostante molti lo ignorino, sulla scena del dramma: Walter Bonatti.

Molti di loro pensano da tempo al Pilone Centrale, d’altronde è una storia che si concentra in pochi episodi. Il primo, in verità, a pensarci seriamente fu Renè Desmaison, il grande Renè. Già nel 1957, infatti, d’accordo con Jean Couzy, aveva programmato un tentativo a “quel pilastro di cui si cominciava a parlare (René Desmaison – “La montagna a mani nude” – Dall’Oglio Editore, Collana Exploit 1985)”. Un tentativo che purtroppo si arenò per la morte di Couzy, ucciso l’anno successivo da una scarica di sassi alla Crete des Bergers. Il primo vero tentativo è dunque quello di Bonatti e Oggioni, quello del 1959 di cui ho già parlato. Passa meno di un anno ed ecco che riprende corpo il progetto di Desmaison. In compagnia di Pierre Mazeaud, Bernard Lagesse e Georges Payot tenta di nuovo ma con poca fortuna, viene respinto dal maltempo dopo due terribili bivacchi all’altezza delle Rochers Gruber. Il nome di Mazeaud fa tuttavia il suo ingresso nella storia del Pilone Centrale. Poche settimane dopo, due ginevrini, Marcel Bron e Michel Vaucher, vengono anch’essi respinti dal maltempo, non supereranno nemmeno il Colle dell’Innominata. Arriviamo al 1961, l’anno della tragedia. Quel Pilone, originariamente battezzato “Pilastro Bianco”, anche se di bianco non ha niente, resiste a tutti i tentativi. A titolo informativo dirò che non poteva evidentemente essere chiamato “rosso” perché di “rosso” ce n’era già uno, non molto lontano, quello del Brouillard. Fu allora chiamato “Gran Pilastro”, prima di essere definitivamente battezzato Pilastro o Pilone Centrale del Freney.

Ignazio Piussi all’epoca del
Pilone Centrale (foto dal libro “Ladro di Montagne”)

Faccio subito un altro nome: Ignazio Piussi. Un nome che non ha bisogno di presentazioni. E’ uno degli alpinisti che hanno preso parte al Convegno internazionale dell’Ecole, ai primi di agosto, ed è proprio con un Istruttore di questa organizzazione che si lega il 5 agosto, solo tre settimane dopo la catastrofe, per un tentativo al Pilone Centrale: questo Istruttore è Pierre Julien. Julien non ha molto tempo a disposizione, il lavoro di Istruttore, specialmente nel mese di agosto, lo impegna molto e per questo chiede il permesso di allontanarsi qualche giorno al responsabile tecnico della Scuola, un certo Armand Charlet. Il permesso viene accordato ma i soldi a disposizione sono pochi, Piussi e Julien vanno da “Jean Franco, che era il direttore della Scuola (ndr: Franco è uno dei più grandi alpinisti francesi del dopoguerra) e lui ci ha messo a disposizione un bel po’ di materiale (N. Zeper – o.c.)”. Per guadagnare tempo si fanno depositare da un elicottero sulla cima del Bianco (e già questo sarà causa di critiche) e scendono lungo la Cresta di Peuterey fino all’attacco del Pilone. Alle 11,30 attaccano, bivaccano su un confortevole terrazzo e la mattina dopo, verso le 5, riprendono ad arrampicare. Salgono veloci, “la mattina […] abbiamo trovato il bivacco di Bonatti e degli altri. C’erano corde e altra roba, tutto ancora coperto di neve. Proprio allora ho alzato gli occhi e ho visto il brutto che arrivava. […] Ho fatto ancora due tiri in artificiale […] A Julien erano rimasti solo pochi altri (chiodi) […] non c’è stato niente da fare. Il maltempo aumentava e non ci fidavamo a finire la via con quei quattro chiodi là. Più sotto poi c’era ancora il bivacco di Bonatti; la disgrazia era ancora fresca” (N. Zeper – o.c).

Piussi e Julien sono molto vicini all’uscita della Chandelle, sono a un soffio dal successo, mancano forse tre, quattro tiri. Gli ultimi due nemmeno così proibitivi rispetto a quelli sotto, nessuno si è mai spinto così in alto. Il maltempo e la mancanza di materiale costringe loro a rientrare (“… siccome mi mancavano chiodi per proseguire, ho detto a Julien che me ne mandasse; e lui mi ha mandato su un mazzo di chiodi che però si è incastrato su uno strapiombo. Tira e ritira il moschettone si è aperto e i chiodi sono volati giù” (N. Zeper – o.c.). Scendono lungo l’itinerario utilizzato da Bonatti e compagni. Sul libro della Capanna Gamba, Pierre Julien annoterà: “Senza dubbio è uno dei più grandi arrampicatori che ci siano (ndr: Piussi); le sue qualità di alpinista sono complete: ambizioso senza essere temerario, prudente al massimo. Personalmente lo giudico il più grande alpinista del mondo. Rispetto a quella di tutti gli alpinisti che ho incontrato a tutt’oggi, la sua tecnica è indiscutibilmente la più grande”. Ignazio, una volta al Gamba, si toglierà gli scarponi ed a causa dei piedi gonfi, scenderà scalzo fino a valle.

Il tentativo non viene preso bene, in molti criticano l’iniziativa dei due alpinisti a così poco tempo dalla disgrazia del Freney. Soprattutto Bonatti e Mazeaud che vedono nel comportamento di Piussi e Julien il tentativo di sfruttare a loro vantaggio la tragedia appena conclusa, sostanzialmente per loro interesse. Pierre Mazeaud, in particolare, disegnerà la figura di Julien come quella di un uomo “che non avrebbe saputo rispettare le leggi della montagna” (P. Mazeaud, Montagne pour un homme nu – Ed. Athaud 1971). Julien risponderà: “Avevo il diritto di tentare il Pilone con Piussi qualche giorno dopo la tragedia? Sì, cento volte sì! Il più bell’omaggio alle vittime è di continuare per la loro strada“ (N. Zeper – o.c.).

In quei giorni di fine agosto due nomi eccellenti dell’alpinismo britannico vanno a spasso per Chamonix, sono Chris Bonington e Don Whillans. Provengono da Grindenwald dove hanno rinunciato, per il maltempo, alla nord dell’Eiger. Insieme a loro anche Jan Duglosz, esperto alpinista polacco dotato di grande talento e soprattutto in grado di parlare un minimo d’inglese e di francese. Sono tuttavia alla ricerca di un quarto uomo per omogeneizzare le cordate. Bonington conosce Pierre Julien e si rivolge a lui per chiedergli se il Pilone Centrale può interessargli. Julien risponde: “Impossibile, ho troppo lavoro come guida”.

Tornano verso il campeggio e subito capiscono, tuttavia, che “la fortuna era dalla nostra e ci piovve dal cielo la persona ideale: Jan Clough, uno scalatore dello Yorkshire, che era appena arrivato a Chamonix, dopo aver compiuto alcune dure arrampicate sulle Dolomiti” (Don Whillans – “Ritratto di un alpinista” – Centro Documentazione Alpina, Collana Le Tracce 2001). Né Bonington, né Whillans hanno mai arrampicato con Clough ma “lo conoscevamo di fama. Nonostante avesse poco più di vent’anni aveva già scalato più vie difficili nelle Alpi di qualsiasi altro britannico” (Chris Bonington – “Ho scelto di arrampicare” – Vivalda Editore, Collana I Licheni 1997). Julien capisce, nel frattempo, che il tempo stringe e accellera i tempi di un nuovo tentativo. Invia un rapido telegramma a Piussi. “Eravamo rimasti d’accordo, Julien ed io, che, non appena il tempo fosse stato favorevole, lui mi avrebbe mandato un telegramma e io sarei arrivato subito” (N. Zeper – o.c.).

Insieme a Piussi saranno della partita anche René Desmaison e Yves Pollet-Villard. Nel campeggio della Val Veny, due americani stringono anch’essi i tempi. Sono due americani che fanno parte della grande scuola californiana e che abbiamo già incontrato: Gary Hemming e John Harlin. I giochi sono fatti.

La commedia ha inizio, si apra il sipario

Pomeriggio inoltrato di sabato 26 agosto. Alla stazione di partenza della funivia che porta all’Aiguille du Midi non c’è molta gente. Fra chi aspetta quest’ultima corsa ci sono Don Whillans e gli altri.

Sabato 26 agosto 1961
I francesi alla partenza della funivia dell’Aiguille du Midi.
in primo piano: Pierre Julien – di spalle: Renè Desmaison
La foto è stata scattata da Chris Bonington ed è tratta dal suo libro “Mountaineer”

Due alpinisti, con tremendi zaini di dimensioni himalayane, stavano appoggiati alla ringhiera. Mentre di sottecchi guardavamo quella incredibile coppia, domandandoci chi fossero, spuntò Pierre Julien, impeccabile nel suo abbigliamento da scalatore e con uno zaino altrettanto immenso. Superò il cancelletto e si diresse verso i due alpinisti.

“Ahi, ahi”, sussurrai.

“Monsieur Julien, le professeur”, disse Chris.

Julien si guardò in giro, si avvicinò e ci scambiammo tiepidi saluti.

Disse che quei due erano René Desmaison e Poulet Villard, due istruttori e, come sapevamo pure noi, formidabili scalatori. Non c’erano dubbi sulla loro destinazione e a noi non rimaneva che immaginare che Julien avesse ottenuto un permesso dal suo pressante lavoro e, in contemporanea, gli fosse morto un ricco parente” (D. Whillans – o.c.).

“Andate al Fréney?” chiese. “Forse, e tu?”. “Forse”. In cima alla Midi, i tre francesi presero una telecabina per andare al rifugio Torino. Non capivo perchè, visto che per raggiungere il bivacco della Fourche è comodo scendere sulla vallée. “Chissà cos’hanno in mente” si chiese Jan

Probabilmente hanno un elicottero che li aspetta” disse Don “In ogni caso non ci possiamo far niente. Andiamo al bivacco prima che faccia buio. Avremo solo un paio d’ore per dormire” (C. Bonington – o.c.).

Cosa avevano in mente i francesi?

La Combe Maudite (foto: R. Masoni)

Arrivati all’Aiguille du Midi salgono sulla telecabina di Punta Helbronner e da lì scendono al Rifugio Torino. Sperano di trovare Piussi al Torino ma di lui non c’è traccia. Intanto gli inglesi si dirigono verso la Fourche. Al piede del Gran Capucin, nella Combe Maudite, notano una tendina alla quale non danno importanza. In quella tenda ci sono Gary Hemming e John Harlin. Desmaison e Pollet-Villard partono dal Rifugio Torino lasciando a Julien il compito di attendere Piussi. Concordano di ritrovarsi al Colle di Peuterey il giorno successivo. Piussi, nonostante la forsennata corsa dal Friuli con una motocicletta a noleggio, arriva a Courmayeur dopo mezzogiorno: “Lì ho incontrato per caso Cirillo Floreanini – ricorda – Con lui ho preso la funivia e sono andato su al rifugio Torino dove mi aspettava Julien. “Presto, presto,” mi ha detto lui quando mi ha visto”che abbiamo quattro inglesi davanti!” (N. Zeper – o.c.). Floreanini aiuterà i due a portare i pesanti zaini fino alla Tour Ronde. Nel frattempo, nella serata del 26 gli inglesi raggiungono il bivacco della Fourche. Ad accoglierli all’ingresso, una “grande foto a colori strappata da una rivista: ritraeva quattro alpinisti sorridenti in posa sulla porta del rifugio. Erano Guillaume, Vieille, Kohlman e Mazeaud; tre di loro erano morti e uno era ancora convalescente. Prima di andare a dormire, scrissi i nostri nomi sul libro del rifugio, indicando come destinazione “Pilone Centrale del Frèney” (D. Whillans – o.c.).

Le versioni di Bonington e di Whillans discordano, il primo dice che il bivacco era molto affollato, il secondo scrive che era mezzo vuoto. Non cambia tuttavia la sostanza dei fatti, troveremo in seguito altre versioni discordanti e saranno ben più importanti. Nel bivacco ognuno si sistema come meglio può, dice Bonington: “In ogni caso c’era poco da dormire, ammassati in poco spazio come prigionieri in un campo di concentramento. Non ci si poteva rigirare e nemmeno dormire supini” (C. Bonington – o.c.). Dov’era Don Whillans?

Qualcosa di imprevedibile avviene al Bivacco della Fourche quando è già notte fonda. All’improvviso entra un uomo “di bell’aspetto, atletico, con un berretto di lana in testa. Aveva l’aria di sentirsi a suo agio come se il bivacco e l’intera montagna gli appartenessero. Andò dritto al libro del bivacco dove poche ore prima avevamo scritto i nostri nomi e la destinazione – Pilone del Freney – con un gran punto interrogativo; gli diede un’occhiata, scrisse qualcosa e uscì. Appena la porta si richiuse ci gettammo sul libro, ed ecco lì il nome: Walter Bonatti. Era con un cliente e aveva indicato come destinazione la parete della Brenva” (C. Bonington – o.c.).

Il commento di Whillans concorda con quello di Bonington: “A mezzanotte, la quiete del rifugio fu interrotta dall’arrivo di due alpinisti che portavano caschi bianchi. Uno di loro si diresse verso il libro lo prese in mano e lo illuminò con la torcia. Lo vidi esitare un attimo leggendo la mia nota, poi scrisse qualche cosa anche lui, lo posò, se ne andò. Cedetti alla curiosità, mi alzai e andai a dare una sbirciata. Lessi il nome di Walter Bonatti, diretto alla Brenva con un cliente. Mi domandai che cosa gli fosse passato per la testa leggendo i nostri nomi sul libro” (D. Whillans – o.c.).

Jan fece comunque a tempo ad osservare: “Bene almeno per qualche giorno non andrà al Pilone” (C. Bonington – o.c.). Dirò, per inciso, che Bonatti non salì lo Sperone della Brenva con il cliente. Erano ancora bassi quando videro le luci delle loro frontali ridiscendere, non sappiamo perché. Passò di nuovo davanti alla porta della Fourche, qualcuno lo salutò, poi si allontanò velocemente con il suo cliente verso la Vallèe Blanche.

La grande corsa

“Finalmente arrivò l’ora di alzarsi; anche gli altri occupanti del bivacco cominciavano a muoversi. Ci scaldammo con un caffè, preparammo gli zaini e partimmo. Altre due cordate si erano già messe in marcia: vedevamo le loro lampade che si allontanavano lentamente sul ghiacciaio sottostante. Mettemmo subito i ramponi e scendemmo fino al ghiacciaio, su roccette e tratti ripidi innevati. In alto sulla parete della Brenva, si vedevano due minuscoli puntini luminosi: Walter Bonatti e il suo compagno” (C. Bonington – o.c.).

Più o meno in quei momenti partono anche gli americani e i francesi. “Il cielo era perfettamente limpido, anche se mi sembrò che l’aria della notte fosse molto calda. Dopo lo spuntino, guardai di nuovo fuori e vidi con stupore le due luci che stavano scendendo a passo sostenuto. Lo feci notare a Chris e ci domandammo come mai i due avessero rinunciato a salire. Il tempo e la montagna erano in buone condizioni e non c’era un evidente motivo per quella frettolosa ritirata. Mentre finivamo di sistemare il materiale, Bonatti e cliente

Il Colle di Peuterey (foto: R. Masoni)

passarono velocemente di fianco al rifugio e scesero lungo il ghiacciaio del Gigante in direzione del rifugio Torino. Cercando di non pensare a questo strano comportamento, ci avviammo sulla neve crostosa verso il ghiacciaio della Brenva” (D. Whillans – o.c.). Circa quattro ore dopo raggiungono il Colle di Peuterey. E’ ancora buio, fa freddo. Sono stati veloci, la salita al Col Peuterey non è uno scherzo, ma sono congelati. Decidono di attendere il sole prima di tuffarsi nell’avventura del Pilone. Accendono il fornello a gas per bere qualcosa di caldo e camminano avanti e indietro sul ripiano del Colle cercando di scaldarsi i piedi. Improvvisamente vedono due luci che salgono al Colle. Pensano ai francesi, si domandano perché siano solo due ma si sbagliano, quelle luci sono di Hemming e Harlin.

Quella sera saranno in sei a bivaccare al Colle: due americani, tre francesi e un italiano. Gli ultimi ad arrivare al Colle, verso le otto di sera, sono Piussi e Julien. Gli inglesi sono già alti e bivaccano alla base della Chandelle. Dieci alpinisti con un unico obiettivo. Don Whillans osserverà con ironia: “Ci mancava solo che saltassero fuori gli Scoiattoli di Cortina… A Chamonix correva voce che il gruppo stesse facendo un durissimo allenamento su granito per affrontare il Pilone del Frèney” (D. Whillans – o.c.). Gli inglesi hanno un giorno di vantaggio, Desmaison commenterà: “Scorgiamo gli inglesi sul pilastro: ne hanno già salito il primo terzo, il che significa che questa sera bivaccheranno alla base della cuspide, centocinquanta metri sotto la vetta” (R. Desmaison – o.c.).

Torno un attimo su Hemming.

Sul Colle di Peuterey, oltre ai nostri, c’erano anche due americani che si preparavano a bivaccare: John Harlin e Gary Hemming. Erano venuti chissà da dove ma uno dei due era in brutte condizioni. Salendo al Peuterey gli erano venuti giù dei sassi e – era Harlin mi pare – aveva una ferita in testa: era mal messo” (N. Zeper – o.c.). Piussi si sbaglia, in realtà era Hemming quello che aveva preso una bella scarica di sassi. “Durante uno dei primi tiri di corda, una scarica di sassi ha colpito Gary alla testa ed hanno dovuto rinunciare” (Mirella Tenderini – “Gary Hemming, una storia degli anni ‘60” – Vivalda Editore, Collana I Licheni 1992). Anche Desmaison ricorda bene quell’evento: “A mezzogiorno siamo al colle. Due americani, che hanno bivaccato nella Combe Maudite e ci precedevano di poche ore vi sono appena giunti a loro volta. Uno dei due è stato colpito al capo, per fortuna non gravemente, da un sasso ed è ferito. E’ ancora un pò stordito. Il loro tentativo finisce li” (R. Desmaison – o.c.).

Quel giorno, nel Gruppo del Bianco, accade un nuovo evento tragico. Un aereo militare francese trincia il cavo della funivia che collega Punta Helbronner all’Aiguille du Midi. Desmaison e compagni l’hanno usata solo la sera prima! Cadono molte cabine, è una tragedia, ci sono morti e molti feriti che hanno bisogno d’aiuto. Hemming sta male, da qualche ora è bloccato al Colle di Peuterey. Decide di rinunciare, non se la sente di proseguire, il dolore è troppo incessante. Decidono di scendere lungo i Rochers Gruber (anche loro!), lo stesso itinerario seguito da Bonatti e compagni. All’improvviso parte una valanga, Piussi ricorda: “Erano sulle Rochers Gruber che scendevano sul ghiacciaio quando si è staccata una seraccata enorme. Io stavo salendo: mi giro e vedo sta’ massa venir giù con un fracasso…! Era crollato tutto il fronte del Frèney superiore. Se loro fossero stati già giù nel Frèney sarebbero stati portati via in un lampo.

“Sono morti,” abbiamo detto. E invece, dopo un bei pò, quando il polverone di neve si è diradato abbiamo visto che erano ancora fuori portata, sulle Rochers Gruber. Dovevano aver preso un bello spavento” (N. Zeper – o.c.). Anche in questa circostanza Hemming si comporta semplicemente da Hemming: una volta a valle, nonostante i dolori alla testa, lui e John saliranno alla Vallée Blanche per dare una mano ai soccorsi.

Fine della corsa

Come andò veramente? “Il tempo è magnifico e non c’è un alito di vento. Riesce difficile immaginare la tragedia, quelle due terribili giornate in cui […] solo la tempesta e l’inferno di ghiaccio sono stati l’universo dei nostri amici scomparsi. Sì, riesce difficile immaginare la tempesta, oggi che fa quasi caldo” (R. Desmaison – o.c.). Da più di un giorno gli inglesi hanno attaccato il Pilone. Non sono particolarmente veloci, raggiungono la Chandelle. La cordata franco-italiana, forse anche per una maggior conoscenza della via, sale rapida. “Verso l’una siamo arrivati a ridosso degli inglesi. Eravamo partiti veloci e gli avevamo presi” (N. Zeper – o.c.). Ignazio, dopo una manciata di tiri, prenderà il comando della cordata che terrà praticamente per tutta la via “anche se poi lascerà a Desmaison l’onore di arrivare per primo in vetta” (N. Zeper – o.c.).

la Chandelle (da www.gulliver.it)

Da qui in poi le versioni divergono. I fatti, quelli certi, raccontano come gli inglesi fossero fermi da ore (da una giornata!) poco sopra l’attacco della Chandelle. Ciò merita una riflessione.

Fermi, certo, per problemi relativi alla mancanza di materiale, ma fermi anche per problemi tecnici dovuti alle sostenute difficoltà della parete. Nessuno, io credo, vorrà porre in discussione le capacità di Bonington e Whillans, resta tuttavia il fatto che in una giornata intera non avevano progredito poi così molto. Ciò ci autorizza a dire che italiani e francesi in quel periodo, in quell’ambiente e con quelle difficoltà, fossero più a loro agio. Resta il fatto che, praticamente, avevano ormai utilizzato tutto il materiale a loro disposizione ed in attesa, quindi, di un aiuto che poteva provenire loro solo dai francesi, una volta riunite le cordate.

C’è anche un ulteriore risvolto della questione. Dov’era finito il materiale di Mazeaud? Lui stesso dichiarerà: “Com’è possibile che questo materiale, rimasto sul posto, non fosse stato scorto da chi sarebbe poi venuto a prendersi la nostra vittoria?” (P. Mazeaud – o. c.). Rimarrà sempre un punto interrogativo. Ma andiamo avanti.

Ricorda Piussi: “Duglosz e Clough erano ancora sul posto dove avevano passato la notte, mentre Bonington era quaranta metri più sopra, seduto in staffa, che faceva sicurezza a Whillans. Avevano passato su quei tiri tutta la mattina” (N. Zeper – o.c.). Piussi e i francesi sono quindi bloccati lì, in attesa che gli inglesi procedano. Julien dice a Desmaison: “Loro sono lì ancora per qualche ora prima di andar fuori. Tu e Ignazio, che siete buoni artificialisti, andate su per quest’altra fessura più diretta – saranno una ventina di metri da chiodare – arrivate su prima e mandiamo in mona les anglais” (c.s.). Desmaison non accetta, sostiene non essere corretto nei confronti degli inglesi. E’ vero tuttavia come, in un primo momento, fosse loro “intenzione scalare una fessura a strapiombo che si innalza direttamente al di sopra del terrazzino sul quale ci troviamo, il che dovrebbe evitarci di compiere una traversata a destra e di risalire il difficile diedro nel quale sono impegnati Williams e Bonnington”. Piccolo particolare, Desmaison confonde sistematicamente, nel suo libro, i cognomi degli inglesi: Whillans diventa “Williams” e Bonington diventa “Bonnington”.

Don Whillans durante l’ascensione del Pilone (foto di C. Bonington)

Duglosz grida qualcosa ai suoi, poi chiede qualcosa, in francese, a Desmaison che Piussi non capisce. Gli fa capire che “gli inglesi erano rimasti senza materiale e ci chiedevano il nostro per proseguire: cunei soprattutto, ma anche chiodi. Io naturalmente non volevo, perché i chiodi mi servivano per quella fessura che io comunque volevo fare al posto del diedro. E lì è cominciata tutta una discussione che io non capivo naturalmente: c’era Duglosz che urlava in inglese con i suoi; poi parlava in francese con Desmaison; Desmaison mi traduceva qualcosa… era tutto un casino! Insomma si sono messi d’accordo per non fare una gara ma per andare su tutti insieme come fossimo una cordata unica: inglesi, francesi, polacchi e italiani. Io ho detto di sì, anche ingenuamente e poi invece… […] E allora niente: gli abbiamo dato chiodi e cunei, e noi ci siamo fermati là. Loro invece sono andati fuori dal diedro col nostro materiale e hanno bivaccato poco sopra” (N. Zeper – o.c.).

La biografia di Desmaison conferma a grandi linee il racconto di Piussi. Desmaison risponde a Duglosz di non avere chiodi perché “non ne abbiamo molti neppure noi e dal momento che saliamo direttamente, lungo un’altra via, non ne possiamo cedere nemmeno uno. Impaziente, Piussi mi dice: “René, dobbiamo salire nella fessura”. Per un momento immagino le due cordate che si arrampicano parallele. Il primo che arriva in cima: è un concetto che qui non significa nulla. Dopo il dramma che si è svolto su questa via, equivarrebbe soltanto a profanare l’idea stessa di alpinismo. Dico quel che penso ai miei compagni che condividono il mio punto di vista: resteremo dietro e recupereremo il materiale. Do i chiodi a Duglosz. Williams esce dal diedro. Bonnington e Clough lo seguono e si sistemano con lui sulla cengia rovesciata. Ormai la giornata sta per finire e Duglosz rimane con noi: sarà il suo secondo bivacco in quel posto” (R. Desmaison – o.c.).

Whillans, più in alto, non ricorda molto di quella discussione: “Chiamai Jan e lo pregai di domandare ai francesi se ci potevano imprestare dei cunei di legno piccoli, che loro probabilmente avevano. Ci risposero che ce li avrebbero dati, ma dovevamo aspettare, perché erano nello zaino dell’ultimo. […] Passò un’ora e chiesi a Jan se i cunei stessero arrivando.

“Non ce li vogliono dare”, rispose. – “Perché no?”, protestai. – “Dicono che stiamo salendo dalla parte sbagliata. Loro proveranno sulla sinistra e avranno bisogno di tutto il materiale”, disse Jan – “Allora mandami almeno qualcosa da bere”, dissi” (D. Whillans – o.c.).

Anche Bonington pare essere sulla stessa lunghezza d’onda: “Ormai era pomeriggio avanzato. “Porca miseria, quand’è che si danno una mossa, quelli lì?” chiesi con impazienza. “Hanno detto che abbiamo sbagliato via, che si sale dall’altra parte. I chiodi servono a loro”

“Beh, allora che vadano a farsi fottere, andremo su coi mezzi nostri. Avete fettucce?” – “Sì, cosa vuoi farne?” – “Cerco di incastrare un sasso nella fessura. Gliela facciamo vedere noi ai frogs, un po’ di tecnica gallese!» risposi” (C. Bonington – o.c.). Frog (rana) è un termine dispregiativo con il quale gli inglesi identificano, ancora oggi, i francesi. Resta il fatto che qualcuno mente sicuramente.

Ignazio Piussi riconosce Don Whillans che è a portata di voce:

Don!” – “La voce arrivava da sotto e, guardando giù, vidi Ignazio Piussi, una mia vecchia conoscenza dei tempi delle Dolomiti. Allora era lui il quarto del gruppo di Julien! Ci salutammo e ci scambiammo informazioni sulla scalata, poi scomparve. A quanto pare, non avevano avuto fortuna sul lato sinistro del pilone” (D. Whillans – o.c.).

l’ingresso nel camino della Chandelle (foto di C. Bonington)

Cosa dire. La sensazione è che Piussi e compagni, visti fermi gli inglesi, abbiano voluto “forzare” l’uscita e batterli sul tempo. La “via” corretta di salita è, tuttavia, ancora oggi, quella utilizzata dagli inglesi. Resta il fatto che l’ultimo della cordata inglese, Jan Duglosz, si legò in vita una delle corde francesi per “bloccarla” poi più in alto. “Quando Jan stava per seguirlo, arrivò Desmaison che gli offrì dei chiodi e gli chiese di portare su la loro corda, di modo che potessero salire anche loro coi prusik, la mattina dopo. Jan prese la corda e ci raggiunse” (C. Bonington – o.c.).

Evidentemente qualche chiodo fu dato …

Fu un gesto nobile e altruista? Oppure fu un gesto scontato? Scontato soprattutto dopo aver constatato che la partita ormai era incanalata su altri binari? Sicuramente, perlomeno stando a quanto dichiarato da Piussi a posteriori, gli inglesi trovarono già molti chiodi in loco, erano quelli messi da Piussi stesso nel tentativo dei primi di agosto. Un ultimo bivacco, qualcuno più in alto, qualcun altro più in basso, poi finalmente la cima.

Bye, bye

La mattina seguente salimmo gli ultimi due tiri. […] Eravamo storditi da un senso di esaltazione e trionfo, ingigantito dalla lotta del giorno precedente. Scalammo una torre snella – la parte finale del Pilone – e poi scendemmo con una breve corda doppia sul pendio nevoso che porta sulla cresta di Brouillard e

Renè Desmaison (foto www.jm-choffat.com)

sul Monte Bianco di Courmayeur. Ancora un’ora di marcia, ed arrivammo in cima al Monte Bianco. Ad aspettarci c’era un giornalista francese, che si era fatto portare da un elicottero. Più che le sue congratulazioni, apprezzammo il fiasco di vino rosso che ci porse. […]Poi ci dirigemmo un pò barcollanti – leggermente sbronzi – verso la capanna Vallot, e da lì scendemmo a Chamonix” (C. Bonington – o.c.).

Provai l’entusiasmo che si prova sempre dopo un’importante salita. Stavamo per risolvere “l’ultimo grosso problema” delle Alpi. Spuntò un’altra splendida giornata e, nel primo tiepido sole, superammo le poche decine di metri che ci separavano dalla punta del Fréney. […] Sembrava proprio che avremmo fatto notizia. Due ore dopo, Chris e io eravamo in punta al Bianco. […] era la prima volta che mi trovavo sul tetto d’Europa. […] Bevemmo una bottiglia di vino che era stata sepolta nella neve ed eravamo piuttosto allegri … durante la discesa alla Capanna Vallot “(D. Whillans – o.c.).

Da queste dichiarazioni capiamo bene come gli inglesi, una volta in cima alla Chandelle, non si fermarono certo ad aspettare gli altri. Si calarono con una doppia ad un colletto nevoso e da lì salirono la cima del Bianco dove trovarono alcuni giornalisti ad intervistarli. Quando anche gli altri furono in cima al Pilone del Freney non trovarono nessuno ad attenderli. Come scrive Piussi: “Pensavo di trovare gli inglesi in cima al Pilone. Mi guardo intorno non c’era nessuno […] mentre andavamo verso la vetta del Bianco abbiamo sentito un elicottero […] quando poi siamo arrivati noi, degli inglesi neanche l’ombra naturalmente […] c’era solo nella neve una bottiglia, una magnum di champagne vuota” (N. Zeper – o.c.). Era una bottiglia di vino non champagne ma abbastanza grande per suscitare il commento di Julien rivolto a Desmaison: “Hai visto bene che te l’hanno messo in cul..?” (c.s.).

Clough e Duglosz sulla cima del Monte Bianco. Ai loro piedi la bottiglia di vino
(foto di Chris Bonington)

Qualche tempo dopo Piussi dirà a Desmaison: “Vedi, René, avresti dovuto ascoltare me…” Si, forse aveva ragione, ma quel che è fatto è fatto e io non rimpiango nulla, perché sono convinto che, da parte degli alpinisti inglesi non c’era cattiva volontà. Ci sono stati momenti di tensione fra noi, ma è stato soltanto perché qualcuno aveva interesse a provocarli” (R. Desmaison – o.c.). Momenti di tensione posso capirli. Escluderei vi sia stato interesse a provocare gli inglesi.

L’ultima osservazione di Piussi è: “Gli inglesi nel momento del bisogno avevano detto sì, e poi invece, si erano presi tutto il merito della salita. Che lì, se c’era un merito, era tutto prima di Bonatti, e poi mio. Loro ci avevano messo una giornata per fare quel diedro e manco lo avrebbero fatto se non gli davamo la roba! E poi, se io attaccavo quella fessura li avremmo altro che fregati!” (N. Zeper – o.c.).

Conclusione

La sera successiva alla salita si ritrovano tutti a Chamonix. Ricorda ancora Piussi che hanno “lo stesso bevuto una birra insieme. Hanno confabulato tra loro, si sono un po’ incazzati in francese, in inglese con sto’ Duglosz che faceva sempre da tramite e poi Whillans, che aveva perso il portafoglio, mi ha chiesto se potevo prestargli dei soldi per tornare a casa. Io che ero sempre all’asciutto gli ho prestato diecimila lire. Erano tante diecimila lire!” – “Forse te le torno,” mi ha detto “may be… se posso.” – L’ho rivisto un paio di volte, ma le diecimila lire…“ (N. Zeper – o.c.).

L’ultimo bivacco prima dell’uscita dalla Chandelle. Nella foto: Don Whillans (con il cappello) e Chris Bonington (in primo piano)
(foto di Chris Bonington)

Cercando fra i miei archivi ho recuperato una “Rivista della Montagna” del novembre 1986, la n° 80, dove c’è una bella intervista a Piussi realizzata da Roberto Mantovani, intitolata “Il gigante delle Giulie”. Ne trascrivo, a conclusione, qualche brano:

Era normale che se qualcuno poteva soffiarti una via nuova lo facesse senza tanti complimenti. […] l’incontro con l’alpinismo dei professionisti mi ha lasciato un po’ sconcertato. […] Io il Bianco lo conoscevo già un po’ […] nell’estate del ’61 sono stato invitato come ospite all’ENSA a Chamonix […[ ho conosciuto Pierre Julien che allora faceva l’istruttore alla scuola e ci siamo accordati per il Pilone

Quindi hai tentato una prima volta il Pilone con Julien …

Sì è stato quindici giorni dopo la famosa tragedia. […] in posto c’erano ancora le corde usate per la calata dalle due squadre di alpinisti […] c’era brutto tempo […] alla fine siamo ben scesi ma è stata un’avventura rocambolesca […] torno a casa e qualche giorno dopo ricevo un telegramma di Julien. Dice “vieni c’è bel tempo”. […] Lui mi aspettava al Torino […] abbiamo bivaccato al Col di Peuterey. Davanti a noi più su, c’erano Bonington, Whillans, Clough e Jan Dlugosz: l’indomani gli abbiamo subito presi. Io ero ben deciso a passarli e anche Julien era di questo avviso […] Dico a Desmaison “René sulla Chandelle c’è una fessurina che taglia a destra. La conosco, la passiamo in artificiale e arriviamo prima noi” E lui “ no, dai Ignazio, non sta bene è meglio si faccia cordata unica” […] E l’accordo s’è fatto. Prima tutti erano d’accordo, poi Bonington ha pensato di aggiustare un tantino le cose e ha fatto un’inglesata […] Mi dice “Senti Ignazio vado un po’ avanti perché qui non ci stiamo tutti. Ci troviamo sopra”. E io tranquillo a dar loro il mio materiale perché erano rimasti senza. Qualche metro sopra la mia testa hanno preso il volo. […] sono andati avanti sui miei chiodi, quelli che avevo piazzato la volta precedente con Julien. A quel punto hanno tirato un’altra lunghezza … poi hanno cominciato a correre […] Quando siamo arrivati in punta al Bianco abbiamo trovato solo una bottiglia di champagne vuota. L’aveva portata per loro un giornalista francese. Allora ho capito. Che avevano fatto la corsa per una questione di quattrini […] erano d’accordo con i giornali francesi per un servizio”.

Concludo con l’amara riflessione di René Desmaison: “Abbiamo vinto il pilastro, sì, ma è stata una scalata che non mi soddisfa. Non mi soddisfa proprio. […] Qualcuno arriverà fino a dire che, senza gli inglesi, la nostra impresa sarebbe fallita, come se da tempo non avessimo dimostrato di essere capaci di imprese anche più difficili. Walter Bonatti […] lamenta i torti che qualcuno ha voluto arrecargli. Si consoli, non è il solo. […] Ritornerò ancora sul Pilastro Centrale, ma per una “prima” invernale: sarà la mia risposta ai miei detrattori” (R. Desmaison – o.c.).

Un’ultima breve annotazione. Si è detto come Pierre Mazead non avesse mai accettato completamente il comportamento degli alpinisti coinvolti nella conquista del Pilone Centrale. Lo avrebbe anche scritto, affermando spesso la sua “… incomprensione nei riguardi delle cordate che, qualche giorno dopo la tragedia, avevano rubato a Bonatti e a me la prima salita al Pilone Centrale” (P. Mazeaud – o. c.). “Rubato”, scrive Mazeaud, un termine che serve a comprendere il suo stato d’animo.

La sorte vorrà che, qualche anno dopo, l’amico Roberto Sorgato, con il quale aveva girato il film “Una cordata europea” con la regia di Lothar Brandler, lo invitasse ad aprire una via alla parete nord-ovest del Civetta in compagnia di Ignazio Piussi. Mazeaud accettò pur chiedendosi “come sarà quest’incontro?”. Tutti i dubbi saranno superati con “semplicità, franchezza: Ignazio mi abbracciò e diventammo subito amici” (P. Mazeaud – o. c.). Parlarono a lungo del Pilone Centrale. Aprirono una straordinaria via che esce alla Punta Tissi, fu un’avventura esaltante e drammatica.

Don Wihllans in uno dei primi tiri del Pilone Centrale (foto C. Bonington)

Post scriptum

Colgo l’occasione per riepilogare e per evidenziare due piccoli refusi presenti sulla Guida CAI-TCI – Monte Bianco – volume 1 – redatta da Gino Buscaini. Lo scrivo per dovere di cronaca ma con imbarazzo visto il grande rispetto che ho della persona e dell’alpinista.

Dunque, la prima salita del Pilone Centrale è di:

Chris Bonington, Don Whillans, Jan Clough, Ian Duglosz, René Desmaison, Ignazio Piussi, Yves Pollet-Villard e Pierre Julien. Nell’ordine con cui sono usciti dal Pilone. – 27-29 agosto 1961 (è doveroso ricordare che Piussi e i francesi impiegarono un giorno in meno degli inglesi. Attaccarono infatti il 28 agosto)

Sulla Guida CAI-TCI è errato il mese, Buscaini indica infatti il mese di luglio.

1a ripetizione

M. Gryczynski e J. Micholski – 1-3 settembre 1961 (solo tre giorni di distanza dalla prima salita, quindi)

2a ripetizione e 1a prima salita invernale

Renè Desmaison e Robert Flematti – 9-13 febbraio 1967 (Sulla Guida CAI-TCI sono errati i giorni, viene infatti indicato 1-6 febbraio. Le date sono riscontrabili dal libro di Renè Desmaison, protagonista di questa ripetizione).

3° ripetizione

Peter Habeler e Michael Meier – 12-13 luglio 1967

4° ripetizione e 1a solitaria

Georges Nominè – 7-8 settembre 1971

 

 

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