La parete dimenticata di Marco Passaleva

Annuario 2012

foto C. Barbolini

La Punta Gugliermina, o Pic Gugliermina, è una grande guglia che emerge, e quindi ne fa integralmente parte, dalla cresta di Peuterey. Si innalza sopra il tormentato Ghiacciaio del Freney raggiungendo la quota di 3.893 mt. E’ intitolata ai fratelli Giuseppe e Giovanni (Gian) Battista Gugliermina, nome che le venne dato da Francesco Ravelli dopo averne realizzata la prima ascensione. Nati a Borgosesia, ai piedi del Monte Rosa, i due fratelli aprirono un numero considerevole di importanti vie soprattutto sul Monte Rosa e nel Massiccio del Monte Bianco dove li ricordiamo per la prima ascensione del Col Emile Rey, del Pic Luigi Amedeo e quindi della Cresta del Brouillard, e per la seconda ascensione della Cresta dell’Innominata. Sono ambedue Soci Onorari del Club Alpino Italiano. Il racconto di Marco ripercorre le tappe dell’ascensione al Pilastro sud/sud-ovest del Pic Gugliermina lungo l’itinerario aperto, nell’agosto del 1938, da Giusto Gervasutti e Gabriele Boccalatte, un’itinerario a lungo considerato fra i più verticali e impegnativi dell’intero Gruppo del Bianco. In questo Suo, importante, contributo Marco non racconta solo la cronaca di un’ascensione, una bella pagina di alpinismo che già appaga il Lettore, ma riflette, con ampio respiro, sul modo di fare un certo tipo di alpinismo che si distingue nella ricerca dell’esaltante piacere dell’ignoto, prima, e nella profonda, intima soddisfazione del successo, dopo. Grazie Marco.

R.. M.

LA PARETE DIMENTICATA (di Marco Passaleva)

Ci sono montagne e pareti sulle quali sono state compiute imprese talmente rilevanti da entrare a far parte essenziale della storia dell’alpinismo, eppure, per uno strano meccanismo di obsolescenza dovuto principalmente alle mode del momento, hanno via via perduto l’originaria popolarità fino ad essere spesso “dimenticate“ dalla maggior parte degli alpinisti; come se la loro gloria non fosse riuscita a sopravvivere al progressivo sviluppo dei diversi modi di concepire la montagna ed alla pratica dell’alpinismo moderno per cui la loro bellezza, la loro storia, anche le vie più note tracciate in tempi passati da alpinisti famosi, sembrano  essere valori e qualità rimasti “congelati” nei ghiacci perenni per tornare, chissà, forse solo un giorno lontano, ai perduti splendori.

Il Pic Gugliermina può essere considerato senz’altro fra queste. Posto fra l’Aiguille Noire de Peuterey e l’Aiguille Blanche, vale a dire in mezzo alla chilometrica e famosissima cresta di Peuterey che dai prati della Val Veny corre fino in vetta al Monte Bianco, ha fisionomie completamente diverse secondo da dove lo si guarda: dal versante Brenva appare come un dente aguzzo, una delle tante guglie che si stagliano contro il cielo, che si differenzia solo Impercettibilmente dalla rimanente cresta rocciosa; dal versante opposto, ghiacciaio del Freney, o più semplicemente dal fondo della Val Veny si scopre invece che quel dente aguzzo della cresta altro non è che la vetta di una bellissima parete che spicca dal ghiacciaio del Freney assumendo la configurazione di una montagna autonoma, quasi come se la cresta di Peuterey non la toccasse  nemmeno.

Nel suo celebre volume “Monte Bianco, le 100 più belle salite” Gaston Rebuffat la descrive così: “Magnifica scalata su pura roccia; senza dubbio la più difficile del massiccio del Monte Bianco, tracciata prima della guerra”; naturalmente si era ancora negli anni ’70 e la misura delle difficoltà era quella di stampo classico anche se, non a caso, il mitico Gaston la pose nel suo volume al cronologico n. 87, come ordine di impegno e difficoltà .

1979 – Marco Passaleva all’attacco della via Gervasutti-Boccalatte (foto C. Barbolini)

 Una così importante e autorevole pubblicità non poteva non avere effetti, tanto che in quegli anni il pilastro sud-ovest del Pic Gugliermina era considerato davvero uno dei “problemi” del gruppo del Bianco, alla pari della via degli Scoiattoli alla Cima Scotoni per le Dolomiti, e come tale faceva parte dei sogni e dei desideri di ogni cordata di livello. Ancora negli anni ’70 il numero di ripetizioni risultava molto contenuto, tenuto conto della notorietà dovuta alla mitica cordata che l’aveva concepita nei giorni 17-18 Agosto 1938: Boccalatte-Gervasutti, un must! Fino al 1952 era stata fatta solo quattro volte, per mano di famosi alpinisti, mentre la prima invernale è addirittura del gennaio 1975! Le difficoltà globali, definite V+, sono quelle tipiche di una via di roccia anche se l’impegno complessivo della salita è ben diverso: c’e da arrivare all’attacco partendo dal rifugio Monzino, salendo prima il Colle dell’Innominata per poi scendere in doppia sul tormentatissimo ghiacciaio del Freney, che deve essere attraversato col migliore intuito, per poi raggiungere e risalire lo zoccolo di placche che porta alla base del pilastro.

E’ decisamente uno dei luoghi “perduti” del massiccio del Bianco, di fronte alla altrettanto mitica parete Ovest dell’Aiguille Noire e, soprattutto, molto lontano da ogni forma di civiltà. Anche la discesa non è nè breve, nè semplice: c’è da seguire parte della Cesta di Peuterey calandosi con doppie dalla vetta, poi arrampicando fin quasi alla due tipiche guglie, chiamate Dames Anglais, da cui si ritorna allo zoccolo di base del pilastro seguendo in discesa le cosiddette cenge Schneider. Non è finita, c’è da attraversare nuovamente il Freney per tornare a risalire il Colle dell’Innominata, dal medesimo canale che era stato disceso in doppie per andare verso l’attacco, e scendere finalmente al Monzino.

Quindi non solo difficoltà di roccia ma anche, e soprattutto, di ambiente di alta montagna in luogo particolarmente isolato; la vetta raggiunge quota 3893 mt. Negli anni ’70 l’attività di ogni alpinista veniva “influenzata” o, per meglio dire, “guidata” anche dai racconti di chi aveva già fatto le vie più interessanti o ritenute più difficili: in assenza del mondo del web, con la sua infinita possibilità d’informazione, si ricorreva al passa parola, anche e soprattutto per avere notizie fresche sulle varie condizioni, sullo stato della chiodatura, su come impostare la discesa ecc..ecc..

Così succedeva di sentire: “ sai, mi ha telefonato Tizio da Torino e mi ha detto che hanno fatto la Via XY: ha ancora poche ripetizioni e tutti la temono molto; mi ha detto che è molto dura per i primi 2/3 ma poi non ci sono molti problemi; mi ha anche detto di portarsi almeno una decina di chiodi, per lo più da fessura larga, tipo Cassin n. 6, perchè molte soste sono da attrezzare, poi servono anche per i tiri più duri dove mediamente ci sono 3 o 4 chiodi. Le doppie della discesa sono buone perchè hanno rinforzato tutti gli ancoraggi quando l’hanno fatta un mese fa”. Allora il tarlo iniziava il suo incessante lavoro nella parte cerebrale più attiva, giorno e notte, si tentava di immaginare le difficoltà, i passaggi, la chiodatura, si andava a rileggere le relazioni sulle diverse guide ed i racconti sui libri di storia dell’alpinismo, si incrementava l’allenamento giornaliero ormai con un solo obbiettivo: andare a ripetere la mitica via di cui aveva parlato il Tizio di Torino!

Così, con analoghi stimoli, ebbe inizio la stagione estiva del 1979, stazionando come ormai di consuetudine al Campeggio “La Sorgente” in Val Veny. E proprio in quel luglio ebbi la fortuna di andare al Pic Gugliermina: compagni di cordata Carlo Barbolini e Mario Verin. Due giorni prima avevo fatto la Cresta Sud dell’Aiguille Noire di Peuterey con Carlo e Umberto Ghiandi, circa 2.000 mt. di sviluppo, ma il recupero fisico dei ventiquattro anni poteva consentire questo … e altro! Decidemmo di bivaccare all’attacco, sopra lo zoccolo, in compagnia degli schianti e dei boati che ogni tanto rompono il silenzio assoluto dell’alta quota per il crollo di un seracco o la caduta di sassi. Ancora nessuno aveva fatto la via in giornata dal Monzino al Monzino, quindi la scelta era fra bivaccare all’attacco oppure in discesa: l’era delle grandi performance in velocità sarebbe nata solo qualche anno dopo. La roccia del Pic Gugliermina non è il protogino rosso tipico dei piloni del Freney o dei pilastri del Mont Blanc du Tacul, formato da enormi monoliti solcati da nette fessure e strapiombi. E’ invece un granito grigio compatto ma articolato che, per la sua verticalità ed esposizione ricorda molto le vie di calcare. L’arrampicata è sempre molto sostenuta, “esterna” ed esposta, mai dentro couloir o fessure, com’è da attendersi percorrendo un vero e proprio pilastro. Lo scenario da lode!

Il Pic Gugliermina dalla Guida dei Monti CAI TCI
La via Gervasutti-Boccalatte è l’itinerario 80d

 Giungemmo in vetta in circa sette ore, senza incontrare particolari problemi e godendo di un ambiente praticamente unico arrampicando al cospetto della Noire e dominando dall’alto il caotico Freney e, molto più in basso, la Val Veny. Forte fu la sorpresa allorchè il burlone di Carlo tirò fuori dal sacco una lattina di birra! Mai come in quel momento fu gradita, anche per brindare alla realizzazione di una grande via. Dalla vetta, capienza massima due persone, si scende con alcune doppie lungo la Cresta di Peuterey della quale, fino a quel momento, avevo in mente solo l’immagine mitica che a venti anni avevo sviluppato attraverso le letture delle grandi imprese dell’alpinismo classico. Percorrerla anche solo parzialmente fu una vera emozione. Giunti sopra le Dames Anglais deviammo, versante Freney, sulle cenge Schneider che tagliano in diagonale verso la base del pilastro, cosicchè raggiungemmo, sempre arrampicando in discesa, il ghiacciaio del Freney. Ricordo che non fu affatto semplice trovare, scendendo, il corretto percorso in un labirinto di crepacci e salti di ghiaccio; cercammo di seguire la linea che avevamo cercato di memorizzare dall’alto della parete, ma ciò non ci evitò qualche numero da circo, con salti di crepaccio “al limite” ed equilibrismi su ponti di neve veramente esigui. Giunti in prossimità del colle dell’Innominata verso il tardo pomeriggio, valutammo il da farsi per scongiurare un secondo bivacco: risalire il canale repulsivo fino al colle per poi riscendere verso il Monzino oppure “tagliare” traversando in basso il Freney nella parte ancor più tormentata per uscirne attraverso il cosiddetto passaggio della Brogliatta. Malgrado tutto in quel momento, e per quanto avevamo già fatto, la seconda soluzione parve essere percorribile e senz’altro la più breve: avemmo ragione, non senza incontrare difficoltà, dal momento che verso le 22 fummo accolti al Monzino dal mitico Franco Garda (gestore, ma prima ancora ottima Guida e Presidente del Soccorso Alpino Valdostano) che si complimentò con noi per la salita appena conclusa e ci servì con entusiasmo un graditissimo minestrone!

Esiste oggi un termine, abusato e spesso inadeguato, che molti cronisti volentieri userebbero per qualificare una salita di questo tipo: avventura! Oggi non è più di moda, non è ricercata, ormai c’è per la maggior parte la tendenza, anzi la volontà, di vivere l’attività alpinistica senza incognite, senza particolare impegno, in modo più “soft”: ecco perchè le pareti come il Pic Gugliermina sono “dimenticate” .

E’ vero, fanno parte di un alpinismo passato, non pongono problemi e difficoltà tecniche di stampo moderno, non fanno più notizia, sono tuttavia gli angoli della montagna rimasti ancora autentici dove ancora oggi per chi lo vuole, è possibile vivere momenti particolarmente intensi di contatto vero con l’ambiente di alta quota attraverso la soluzione dei problemi che pone, la ricerca e l’improvvisazione, e perchè no, la percezione di sensazioni pressochè dimenticate che possiamo vivere sempre più raramente.

Sui primi tiri della via (foto C. Barbolini)

L’assenza d’interesse per tutto ciò sembra contrastare con l’esigenza di “evasione” da un modello di vita quotidiana che apparentemente tutti esprimono, pur tuttavia ormai l’assuefazione al “tutto preordinato” e al “tutto semplice e immediato” ha preso il sopravvento: le eccezioni sono sporadiche. Anche la montagna e l’alpinismo non si sono sottratte a questo tipo di mentalità, che spinge sempre più all’esigenza di massima semplificazione nello svolgimento di qualunque attività  ed alla volontà di ridurre al massimo l’impegno.Anche in montagna prolificano le vie “plaisir”, cioè quelle dove l’attacco è breve, si arrampica da uno spit all’altro senza dover pensare a nient’altro che al movimento, lunghezza media senza esagerare, rientro con doppie da una catena all’altra: è vera soddisfazione? Oppure è solo un modo per “consumare” l’arrampicata e la montagna come si “consuma” una vela a noleggio, la mattina di una domenica qualunque, o una moto per provare l’ebbrezza della velocità su una pista, o qualsiasi altra attività ci venga indotta dal bombardamento quotidiano dei media e del web ?

Per questo,  forse, il Pic Gugliermina rimarrà ancora per qualche tempo in un angolo, terreno per pochi eletti, in attesa che torni di moda almeno lo “spirito” dell’alpinismo classico.

 

 

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