Pilone Centrale del Freney – luglio 1961 di Roberto Masoni

“Epoca” del 23 luglio 1961
(collezione Roberto Masoni)

Annuario 2012 –  Nove alpinisti cercano la salvezza attraverso il Ghiacciaio del Freney. Quattro francesi, tre italiani, uno svizzero e un tedesco. Al centro della scena c’è il Pilone Centrale e il Pic Gugliermina. Una chiave di lettura diversa che non guarda dentro la tragedia ma al di fuori. Ma anche il racconto di una storia meno conosciuta, quella dello svizzero Henri Briquet e del tedesco Konrad Kirch, anch’essi bloccati nella bufera e anch’essi disperatamente aggrappati al desiderio di raggiungere la salvezza attraverso il Colle dell’Innominata. Questa è anche la loro storia

Tra il mormorio sommesso del gruppetto poco discosto riconosco la voce del dottor Bassi: “Incredibile, almeno da ventiquattro ore ha in corso un’azotemia al di là dei limiti di sopravvivenza”. La notizia mi lascia indifferente, e neppure mi preoccupa lo stato delle mie mani, rosicchiate dalla roccia e dal gelo, né quello degli occhi ancora gonfi e bruciati dalla bufera”. (Walter Bonatti – I giorni grandi – Zanichelli 1978).

Walter Bonatti inizia così il drammatico diario degli avvenimenti che portarono alla dolorosa conclusione della tragedia del Pilone Centrale. Non meravigli il fatto che Walter parli con indifferenza di se stesso, ciò che faceva più male non erano gli occhi, le mani, ma la consapevolezza che, nonostante gli sforzi fatti, alcuni suoi compagni non ce l’avessero fatta. Nemmeno suoni strano che cominci dall’epilogo. E’ probabilmente un riflesso pensato a freddo, quasi fosse l’amara e finale difesa alle sue sofferenze, una confessione, l’urlo straziante di un uomo che cerca parole e forza per gridare al mondo che lo circonda, quel mondo che in buona parte è anche il “suo” mondo: “Perdonate se sono vivo …”.

“Epoca” del 23 luglio 1961
(collezione Roberto Masoni)

 Furono in molti a scorgere nel comportamento di Bonatti, o quanto meno tentarono di farlo, colpe che non aveva. Volarono accuse. Qualcuna proveniente da chi poco ne sapeva di alpinismo e quindi gratuita, qualcun’altra, invece, da chi era ben in grado di valutarne il comportamento ma per i quali Walter era un personaggio scomodo, ingombrante. Fa male dirlo ma è così. In quell’occasione Walter fu un combattente, chi rimase in vita lo deve a Lui. Certo possiamo discutere all’infinito le sue scelte, se furono quelle giuste oppure no, ma nessuno può e potrà mai mettere in discussione la tenacia, l’abilità, l’amicizia che dimostrò, in quelle drammatiche circostanze, nei confronti dei propri compagni. Le prime parole che Pierre Mazeaud gli rivolse, appena raggiunta la Capanna Gamba, furono “Walter, senza di te nessuno di noi sarebbe qui” (Montagne pour un homme nu (1971 – Ed. Arthaud), ristampato da Alpine Studio nell’ottobre 2011). Di questo parlerò, del tentativo al Pilone Centrale del 1961. Ma a modo mio. Tralasciando cioè il diario degli avvenimenti, che credo ormai conosciuto da tutti, e cercando invece di mettere a fuoco alcune circostanze, secondo me fondamentali, per comprendere meglio le ragioni che cambiarono il corso di quella vicenda. Particolari che riguardano eventi meno conosciuti come quelli relativi ad un’altra cordata, quella composta dallo svizzero Henri Briquet e dal tedesco Konrad Kirch che avevano come obiettivo il Pic Gugliermina e che, inghiottiti anch’essi nella bufera di quei giorni, cercarono, fortunatamente riuscendovi, una via d’uscita per raggiungere la Capanna Gamba. A poche ore di distanza da Bonatti e lungo parte dello stesso itinerario.

Particolari fondamentali, dicevo. Scelte discutibili ed episodi che, talvolta, niente hanno a che fare con l’aspetto alpinistico eppure importanti, ammirevoli o condannabili che siano. Cercherò di entrare nelle logiche e nella mente degli alpinisti, perlomeno di quelli che compongono questo mosaico. Cercherò di raccontare circostanze spesso trascurate, cercherò di raccontare fatti e figure che meritano di essere raccontati, che meritano una propria collocazione in questo dramma, figure che hanno avuto un ruolo importante nello svolgimento dei fatti.

Ecco allora che prende forma un primo elemento che merita considerazione per l’influenza che avrà negli sviluppi di certe dinamiche: la figura di Roberto Gallieni. Una figura che ha una sua tipicità, non sempre messa in evidenza: Gallieni è, infatti, il cliente di Bonatti. E’ anche un amico certo, ma in primo luogo un cliente. Vale la pena ricordare, infatti, che, nel 1961, Walter è una Guida Alpina che risiede a Courmayeur. E’ un fattore importante se vogliamo vedere gli eventi dalla giusta angolazione. Nella storia alpinistica di Bonatti troviamo spesso prime ascensioni realizzate con clienti. Gallieni non è un principiante inesperto, come scrive Andrè Roch nel suo “Exploit sur le Mont Blanc” è un cliente “sperimentato”, è uomo che mastica montagna da anni, risiede a Milano e arrampica spesso con Oggioni, Mauri, Bonatti stesso, con qualche Ragno di Lecco. E’ conosciuto nell’ambiente e ha già un buon curriculum alpinistico anche se … sempre nel ruolo del cliente.

Sia Bonatti che Oggioni erano membri del Club Alpino Accademico Italiano. Entrano a farne parte nel 1952, più precisamente nella riunione del Consiglio Generale del dicembre 1952. Risulta che Bonatti, nello specifico, gestisse, ancora nel 1954, un rifugio nelle Grigne e su tutti i testi dell’epoca non viene ancora definito Guida Alpina. Tutto lascia pensare che divenne Guida Alpina a cavallo fra il 1954 e il 1955 tant’è che, sempre nel 1954, quando partecipa alla spedizione di Desio al K2, dovrebbe già aver conseguito il titolo di Guida, quantomeno essere “portatore”, ruolo che, all’epoca, anticipava la qualifica di Guida Alpina.

Ma altre due vite, le vite di altri due alpinisti, incrociavano quella di Bonatti e soprattutto quella di Briquet e Kirch, in quei lontani giorni del luglio 1961. Erano quelle di Gary Hemming, “le beatnik” come lo chiamavano a Chamonix, e quella di John Harlin. Due vite che non ebbero mai modo di incontrarsi con quella di Bonatti, alpinisticamente parlando, ma unite da due grandi montagne: il Pilone Centrale, di cui ora parlerò, e il Petit Dru.

Una breve premessa

Faccio velocemente un passo indietro, alla spedizione italiana al K2 del 1954, perché necessita una premessa. Scrissi un dossier, nel 1990, che chiamai “Dossier K2”, anche se le mie ricerche partirono ben prima del 1990. Non saprei, ancora oggi, perché avviai una ricerca di quel tipo. Certo Bonatti era l’emblema dei miei sogni alpinistici, era il simbolo dell’impossibile, un cavaliere dell’anima che abitava un mondo sconosciuto, quello dell’alta quota, dove Lui sembrava dominare con naturalezza le difficoltà della roccia e del momento, riuscendo a fermare il tempo su ogni obiettivo raggiunto. Per tutti questi motivi si fece strada, dentro di me, la convinzione che quell’uomo non poteva aver tradito i propri compagni. Certo non è mai stato un buontempone ma non poteva aver ambiguamente succhiato aria da quelle bombole che, il giorno successivo, sarebbero servite a Lino Lacedelli e a quel buon uomo, comunque ambizioso, di Achille Compagnoni per raggiungere la cima del K2. Così come, a mio giudizio, non poteva, nonostante tutto, aver tradito gli ordinamenti del capo, quell’Ardito che, ancora in quegli anni, dominava con astuto contegno e scaltra personalità gli ambienti del CAI che contavano.

Scoprii, in quell’occasione, una certa propensione che, da allora, mi avrebbe portato, pur senza alcun acuto, ad una lenta ma costante trasformazione: quella dello studio fine a se stesso. Grazie al caro amico Renato, responsabile della nostra biblioteca del CAI Firenze, riuscii a ricostruire, tengo a dire dai documenti ufficiali, tutte le fasi della spedizione a cominciare dagli anni della progettazione. Con un briciolo di presunzione, lo feci con largo anticipo sui tempi. Una ricerca che inviai a tutti gli organi di competenza del Club Alpino Italiano ma che non vide, purtroppo, la soddisfazione di ricevere risposta alcuna. D’altra parte … chi credevo di essere? Fatto sta che il mio dossier si concludeva con le stesse motivazioni alle quali, anni dopo, giunse la Presidenza del CAI grazie a quel comitato di “saggi”, composto dalle autorevoli figure di Fosco Maraini, Alberto Monticone e Luigi Zanzi, che premieranno gli sforzi di Bonatti e ne riconosceranno la bontà e la lealtà dei comportamenti dando così ragione, nel mio piccolo, anche a me (ma solo per la parte tecnica mentre io affrontai anche l’aspetto economico della spedizione) e ristabilendo la dignità di un uomo ferito. Fu un simbolico ceffone a chi raggiunse la cima del K2 e a chi dirigeva la spedizione, anche se, in questo caso, non fu traumatico visto che l’Ardito volava ormai alto, su pascoli oltre le nuvole.

Perché questa premessa?

Andrea Oggioni
(dal sito caivillasanta.it)

Perché assomiglia molto a un clichè. Anche nell’occasione del Pilone, commenti negativi e accuse nei confronti di Bonatti non mancarono. Un uomo scomodo, certo particolare, magari antipatico a causa di una bravura insopportabile e un talento impareggiabile che riusciva ad esprimere nei modi e nella testa. Sicuramente un uomo che non faceva, e non ha mai fatto, niente per farsi amare. C’è un vecchio ritornello che fra gli alpinisti, almeno fra quelli di una certa età come me, suona così: i gradi contano poco, anzi non esistono (lasciamoli ai patiti), più semplicemente “c’è dove si passa e dove non si passa”. Ecco, diciamo che Bonatti era uno che “passava”, ovunque, non importa come. Per un alpinista è un requisito importante, molto importante. Un requisito che fa la differenza fra l’essere un onesto alpinista o essere invece un fuoriclasse, un talento naturale. Doti che creano spesso invidia, talvolta rancore, ecco il perché di questa premessa.

Ed è stata questa antipatia nei confronti del più forte che ha mosso le accuse a Bonatti. Qualcuna è ignobilmente finita in tribunale, qualche altra è stata solo ventilata come l’ipotesi che Walter volesse raggiungere la cima del K2. Io ho una mia opinione: certo che voleva raggiungerla, perché mai non avrebbe dovuto. Era l’uomo più allenato, forse anche il più determinato e l’età era dalla sua parte mentre Compagnoni era ormai quarantenne e il K2 era per lui l’ultima frontiera. Se davvero Walter pensò di poter raggiungere la cima, ma non l’ha mai ammesso, non tradì i sentimenti di nessuno e tanto meno gli animi meschini di chi, fin dall’inizio, gli aveva ritagliato un ruolo senza fama né popolarità sul quale giocare, come di fatto accaduto, perfino con la vita delle persone purchè fosse utile alla causa e alle smanie egemoniche di chi intendeva scalare la piramide del successo. Ma non è della spedizione al K2 che voglio parlare, ne ho già scritto abbastanza.

Parlare del Pilone Centrale non significa farlo in modo oscuro. Per questo motivo farlo “a modo mio” non vuol dire nascondere, non vuol dire tacere su un’altra grande tragedia del Monte Bianco della quale Bonatti è protagonista. La tragedia di Jean Vincendon e François Henri così ben descritta nel libro di Yves Ballu, “Naufragio sul Monte Bianco”, nel quale l’Autore non fa mancare critiche alla figura di Bonatti e nel quale le conclusioni sono un’accusa al suo comportamento. Inutile negare che in quell’occasione Bonatti poteva forse agire diversamente, poteva in qualche modo dirigere i propri sforzi, più di quanto forse non abbia fatto, verso una via d’uscita comune. In cordata con lui, ecco un altro particolare in comune con il Pilone Centrale, è legato un cliente, Silvano Gheser. Siamo nel dicembre 1956. Escono in quattro dallo Sperone della Brenva, la bufera sta lentamente fiaccando le forze di ognuno, sta consumando, passo dopo passo, le ultime energie. Bonatti e Gheser doppieranno la cima del Bianco per rifugiarsi alla Vallot e da qui la salvezza. Per Vincedon e Henri non vi sarà ritorno, si dirigono verso il Grand Plateau dove lentamente si spegneranno le loro ultime forze residue, gli ultimi segnali di vita, dopo una serie di eventi assurdi.

E’ un precedente discutibile, certo. Eppure, io credo, nessuno può affermare, con leggerezza d’animo, se fosse stato possibile fare qualcosa di più per salvare la vita di quei due ragazzi. Nelle situazioni bisogna trovarcisi, ed in modo particolare in quelle alpinistiche, e questo vale anche per il Pilone Centrale. Seduti in poltrona è facile dare sentenze.

Il sereno inizio della fine

Domenica 9 luglio 1961.

Due cordate, una francese ed una italiana, si ritrovano al Bivacco della Fourche. Pierre Mazeaud è l’alpinista di maggior rilievo della compagine francese, già l’anno prima, nel 1960, ha fatto un tentativo al Pilone Centrale con compagni d’eccezione: Desmaison, Payot, Audibert, Lagesse e Lafont. Purtroppo il loro

dal basso verso sinistra:
Pierre Mazeaud, Robert Guillaume, Pierre Kohlmann e Antoine Vieille
la celebre foto scattata al Bivacco della Fourche
(da desnivel.com)

tentativo è bloccato per due giorni dalla tempesta sui Rochers Gruber e torneranno indietro senza neppure aver toccato il pilastro. L’altra cordata, quella italiana, è composta da Bonatti, Oggioni e Gallieni. Anche Bonatti e Oggioni hanno già fatto un tentativo al Pilone, il 18 luglio del 1959. Superano i primi 200 metri della via incontrando notevoli difficoltà e solo il tempo impedirà loro di proseguire. Francesi e italiani hanno un obiettivo comune, il Pilone Centrale. Non è necessario spiegarsi, si conoscono di fama, basta un’occhiata. Capiscono di doversi giocare la partita a carte scoperte. “Attaccammo subito la questione che ci stava più a cuore. Bonatti, uomo meraviglioso, dalla personalità affascinante, ci lasciò la precedenza” (P. Mazeaud – o. c.). In alpinismo c’è una regola: chi arriva prima ha un diritto di precedenza. Bonatti, e non saprei con quale stato d’animo, è intenzionato a rispettare quella regola, a rinunciare. Ma non andrà così, decideranno infatti di unire gli sforzi, saliranno il Pilone alternandosi al comando. Forse fu il primo errore. “Da quel momento in poi, ci saremmo fatti guidare solamente dalla nostra amicizia, che sarebbe per sempre stata tanto forte da illuminare i volti dei nostri quattro compagni, rimasti lassù” (P. Mazeaud – o. c.). Gigi Panei troverà, qualche giorno dopo, un’annotazione di Bonatti sul libro del bivacco: “discussione cordiale e costruttiva, decidiamo di collaborare”. Senza saperlo, senza sospettarlo, i sette alpinisti sono saliti dentro una spirale di morte. E’ il sereno inizio della fine.

Discutono di materiali, a cordate unite non è né utile né ragionevole portare peso in eccesso. Si sceglie l’attrezzatura con raziocinio, ciò che avanza finirà sotto le brande della Fourche. “Abbandonammo il materiale […] un centinaio di chiodi, cinquanta moschettoni e trenta cunei di legno” (P. Mazeaud – o. c.). Questo materiale non sarà più ritrovato, l’autore dello scippo non sarà mai identificato. Partono nella notte, arrivati al piede del Pilone, Bonatti invita i francesi ad attaccare, lui e Oggioni li raggiungeranno in parete dopo aver recuperato uno zaino lasciato tempo prima presso le Rochers Gruber, al riparo. E’ la mattina di lunedì 10 luglio 1961. Sulla presenza e sul recupero di questo zaino sono state avanzate molte ipotesi. In effetti, apparentemente non doveva servire, i materiali erano stati scelti con cura tanto da abbandonarne una buona quantità alla Fourche. Più semplicemente, io credo, non si debba pensare a niente di particolare. Mazeaud stesso dichiara che “Walter aveva tutto il materiale necessario al Col de Peuterey quindi saremmo andati più velocemente fino al colle, con gli zaini più leggeri“. Tutto qui.

Il resto della storia è noto. Tutto sta andando bene, Pierre Kohiman “tira” una lunghezza in artificiale e arriva alla base di un pilastro che lui e Mazeaud battezzano “Chandelle”, le ultime difficoltà prima di uscire dal Pilone Centrale. Ma ormai non c’è più tempo, si sta facendo buio, decidono di prepararsi al bivacco mentre Kohlmann e Mazeaud attrezzano un nuovo tratto di parete. All’improvviso “il temporale ci coglie in pieno […] sull’ultimo tratto dove già abbiamo guadagnato una quarantina di metri strapiombanti. Ci caliamo rapidamente lungo le corde lasciando in parete chiodi, corde, moschettoni e staffe” (W. Bonatti – o.c.). Il tempo è cambiato, la spirale si sta drammaticamente chiudendo. “Seduto su una staffa, stavo piantando un chiodo […] improvvisamente provai un acuto dolore alle mani, mentre delle fiammelle correvano lungo il martello, i moschettoni che portavo a tracolla si attaccarono alla pelle delle dita” (P. Mazeaud – o. c.). E’ martedì 11 luglio. Per tre notti bivaccheranno. Venerdì 14 luglio cominceranno a scendere.

Il ricordo e l’attualità di due autorevoli opinioni

In un’afosa giornata d’estate dei primi anni ’90, mi ritrovo con Andrea Bafile nello studiolo di casa sua. Andrea sa quanto ami Bonatti, anche in modo esageratamente passionale, sa quanto alcune mie esperienze abbiano influito molto nella conoscenza e nell’ammirazione di questo alpinista. Un’ammirazione iniziata nel 1967, a 17 anni, lavorando per un’estate al Grand Hotel Cervinia, come cameriere, per pagarmi l’irrefrenabile voglia di “fare montagna”. Si andava a bere, la sera, al “Copa pan”, due passi dall’Albergo Compagnoni, e nelle parole, negli occhi, nei giudizi di quella comunità, di quell’ambiente paesano ma di grande spessore alpinistico, avevo percepito e respirato una forte ammirazione nei confronti di Bonatti, sentimento che non poteva non contagiarmi. Bonatti aveva aperto la via alla nord del Cervino da meno di due anni e a Cervinia se ne parlava abbastanza.

In quell’occasione Andrea mi regalò un pieghevole, fatto in casa, che riguardava l’elenco delle vie normali al Bianco illustrato con Suoi dipinti. Un tesoro che custodisco ancora. Parlando del Pilone Centrale mi disse, nel Suo originale accento: “A Robè (così mi chiamava) sei troppo ingenuo, quando imparerai. Certo che avrebbero dovuto scendere prima. Ma Bonatti aspettava che i francesi se ne andassero, che scendessero. E così la pensavano anche i francesi. Amici sì, ma nemmeno più di tanto. Se il tempo si fosse ristabilito sia Bonatti che Mazeaud avrebbero avuto tutte le carte in regola per uscire dal Pilastro. Aspettavano solo che qualcuno mollasse per prendersi il merito, questo fu il motivo della loro tragedia”. Cominciai a riflettere sulle parole di Andrea. Mi convinsi che, da buon saggio e da buon padre-alpinista, avesse ragione e sono ancora di quest’avviso.

Non contento, qualche settimana fa, buttando giù queste righe, ho pensato bene di chiedere ulteriori lumi ad un altro autorevole punto di riferimento: Paolo Melucci, al quale sono legato da sincera amicizia. Mi ha risposto, in breve: “Caro Rob, penso che sulla tragedia del Pilone Centrale sia già stato scritto tutto, forse anche troppo, quindi mi sfugge il motivo della tua pulsione a buttar via tempo, carta e inchiostro per tornare sull’argomento…! […] Mi chiedi: ci furono errori? Certo che ce ne furono […] e senza la pretesa di emettere sentenze […] penso che gli errori – certo involontari – furono in buona sostanza due: il primo quello di unire i due gruppi, cosa che rallentò enormemente la discesa, effettuata dopo la nota serie di bivacchi e in condizioni della montagna tremende; e  secondo il non aver deciso tempestivamente la ritirata. Su quest’ultimo punto Bonatti dice che nessuno avrebbe potuto prevedere che in luglio il maltempo sarebbe durato con quella violenza per più giorni; io sospetto anche che né gli italiani né i francesi volessero proporre per primi l’abbandono del tentativo. […] Errori nei soccorsi non ve ne furono, per il semplice motivo che… non vi furono soccorsi: quando Bonatti arrivò alla Capanna Gamba trovò le guide salite da Courmayeur bellamente addormentate (cfr. “Le mie Montagne”)”.

Walter Bonatti e Pierre Mazeaud
poche settimane dopo la tragedia
(da http://robertdubrou.blogspot.it)

Tutto torna quindi salvo un’unica eccezione, la versione di Mazeaud: “Perchè avevamo tanto atteso? Per orgoglio, per volere ad ogni costo conquistare questa meta invincibile? No, per amore della montagna che non doveva (e non poteva) farci ancora soffrire […] per una segreta speranza nei nostri cuori: uscire in vetta” (P. Mazeaud – o. c.).

La ritirata 1

Tre notti, tre bivacchi drammatici. L’archivio dei dati meteo della Val d’Aosta è chiaro riguardo alle condizioni che i sette trovarono. Dal mercoledì al sabato scesero su Courmayeur 42 mm. di pioggia. In quei giorni la temperatura che era rimasta fino al martedì fra i 19 e i 28 gradi di massima scese drasticamente fino a raggiungere 8/11 gradi. Lo zero termico si attestò fra i 2.700 e i 2.800 metri. Il freddo, nella zona dei 4.000 metri, la quota dove si trovavano Bonatti e compagni, divenne insopportabile. (fonte: G. Staiano da meteogiornale.it).

Il giovedì mattina una breve schiarita. Scrive Andrè Roch nel suo “Grandi imprese sul Monte Bianco” (Dall’Oglio Editore, 1983): “Nel gruppo torna la fiducia e l’iniziativa, preparano una colazione calda e spazzano via l’enorme quantità di neve che è caduta durante la notte. Poi si preparano per riprendere la scalata e Bonatti con Mazeaud passano in testa. Non sanno che tutta la Francia è sconvolta dal maltempo […] hanno appena arrotolato la tenda che la tormenta riprende. Un vento fortissimo solleva la neve che li acceca …”. Ancora un bivacco, poi, venerdì 14 luglio, inizia la ritirata. A sera del primo giorno sono alla base del Pilone.

la Cresta di Peuterey ed il Ghiacciaio del Freney
(da “Exploit sur le Mont Blanc” di Andrè Roche)

Ecco allora una prima domanda: perché anziché scegliere l’itinerario del Freney non si diressero verso il Pic Eccles? Ho chiesto notizia all’amico Carlo Barbolini che, al contrario di me, conosce l’ambiente, ha salito il Pilone Centrale (e non solo quello …), è a conoscenza del luogo. Mi ha risposto: “E’ una cosa che mi sono sempre chiesto anch’io e posso solo supporre che nessuno di loro conoscesse quell’approccio ritenendo più sicura la discesa evidentemente conosciuta delle Rochers Gruber. Tra l’altro, nell’altra soluzione, quella del Colle Eccles,  avrebbero potuto rintanarsi nel bivacco Lampugnani che era già esistente dal 1939. La discesa dal Brouillard, poi, è meno complicata rispetto a quella del Freney. Ho fatto entrambe le discese, a parte il tratto delle Rochers Gruber, e non ho dubbi che a mio modesto parere è nettamente più semplice la discesa dall’Eccles, c’è solo da traversare sotto ai piloni ma se si sta bassi il pericolo è relativo. Gervasutti quando ha fatto il Pilone di destra è passato dall’’Eccles anche se si è trovato in difficoltà perchè ha traversato troppo alto. Per scendere dal lato Eccles c’è solo da risalire al colle omonimo, poi sei al bivacco con le coperte e al chiuso, ma credo, ed io l’ho sceso, sia più facile che risalire il Colle dell’Innominata che ho sceso due volte ma è molto in piedi.” (ndr.: “in piedi”, nel nostro gergo significa vicino alla verticale).

Resta quindi la sensazione che tutto fosse già stato deciso. Lo stesso Dino Piazza, di cui parleremo in seguito, dirà come, tempo prima, esaminando l’eventualità di un tentativo al Pilone Centrale, al quale anch’egli avrebbe partecipato come componente della cordata di Bonatti e Oggioni, sarebbe stato programmato che un’eventuale ritirata non avrebbe potuto avvenire che per i Rochers Gruber. Lo stesso Bonatti scrive: “Dire Pilone Centrale è come dire che in caso di maltempo ci si calerà sull’unica via che offre un minimo di sicurezza, ossia lungo i Rochers Gruber che calano direttamente sul sottostante Ghiacciaio Freney. Questo è ben noto nel mondo delle guide del Monte Bianco” (W. Bonatti – o. c.).

Questo è ben noto nel mondo delle Guide del Monte Bianco. Questo afferma Bonatti.

Perchè allora i soccorsi, lo vedremo più avanti, andarono a colpo sicuro verso il Lampugnani convinti di trovare Bonatti nel bivacco? Anche i componenti della squadra di soccorso erano Guide del Monte Bianco. Resta un grosso punto interrogativo.

Il ricordo di Walter Bonatti

Diversi anni fa Alfio Ciabatti organizzò una serata per la Sottosezione di Scandicci (allora in verità Gruppo Scandicci) nell’ambito della Festa dello Sport del Comune di Scandicci. Invitò Walter Bonatti per una serata che resterà unica. Fu, per me, una grande opportunità, finalmente potevo incontrare l’alpinista dei miei sogni. Premendo energicamente, ma pur sempre in modo garbato, sulla schiena degli altri pretendenti, riuscii a sedere, a cena, accanto a Lui. Seduta davanti a Walter, ancora bellissima e donna di squisita intelligenza, Rossana Podestà. Credo che mai e poi mai Walter potesse immaginare di doversi sottoporre ad un interrogatorio.

Fu curioso scoprire la falsità di un aneddoto sul K2, quello riguardante la famosa “fessura Bonatti” che, al campo base, si diceva avesse salito solo lui nonostante i tentativi di molti. Mi confessò candidamente che non esisteva alcuna “fessura Bonatti”, che non l’aveva mai salita e nemmeno mai vista, che erano solo leggende dei portatori. Gli chiesi anche del Pilone Centrale. Sostanzialmente non mi dette risposte, confermò quanto già scritto, accennò al dolore per la morte di Oggioni, mi sembrò provato dal ricordo dell’amico. Nei suoi occhi lessi l’accettazione delle regole della Montagna, lessi la crudeltà di un mondo che non è a misura d’uomo, un mondo che gioca a piacimento fra il piacere e la sofferenza della sfida. Parlò della necessaria consapevolezza che certi obiettivi richiedono e di quella miscela di qualità inevitabilmente essenziali ogni qual volta il desiderio d’avventura prevale sui rischi che ciò comporta. Bevemmo abbastanza per ridere felicemente tutti insieme, per parlare dell’aspetto migliore della Montagna e delle soddisfazioni che ci procura, del piacere di frequentarla. Avevo accanto a me “il più grande” eppure nella Sua voce e nel Suo comportamento non c’era alcuna superbia, nessuna superiorità. Non fu umile, certo, ma nemmeno vanitoso, fu semplicemente Bonatti. Poi mi disse: “Grazie, è stata una bella cena davvero. Ma smettila di versarmi vino, si da il caso che debba ancora fare una serata … magari un’altra volta …”. Purtroppo non ci saranno altre volte.

La ritirata 2

I sette naufraghi si dirigono verso i Rochers Gruber. Da qui scendono lungo il Ghiacciaio del Freney.

Arrivano ai piedi del Colle dell’Innominata, sono quasi le 8 di sera di sabato 15 luglio. Solo la mattina prima erano ancora sotto la Chandelle, a 80 metri dall’uscita del Pilone. Circa un’ora dopo, verso le 9 di sera, Bonatti raggiunge il Colle dell’Innominata. Passeranno tre ore prima che dal bordo escano Gallieni e Kohlmann. Alle 1 di mattina di domenica 16 luglio i tre cominciano a scendere lasciando Mazeaud e Oggioni, bloccati, metri sotto, sul lato opposto. “Alla fine metto in atto l’estrema e unica soluzione: dividerci dai compagni, io e Gallieni , per poterci calare rapidamente là dove con certezza stanno i soccorritori, ossia nella vicina Capanna Gamba. Sicuramente avrei dovuto prendere prima questa risoluzione guadagnando così molto tempo prezioso, ancora oggi mi dolgo di non averlo fatto fin dall’inizio” (W. Bonatti – o.c.). La Capanna Gamba oggi non c’è più. Nelle sue prossimità sorge il Rifugio Monzino costruito nel 1965, solo una manciata di anni dopo la tragedia del Freney.

Rochers Gruber
in alto, a sinistra: i Pilastrri del Freney – a destra in alto: l’Aiguille Blanche di Peuterey
(da: http://www.pasonet.it)

Scendendo trovano una corda, semisepolta dalla neve, ne parleremo fra poco. All’incirca alle 3 della domenica, Bonatti e Gallieni, raggiungono la Capanna Gamba. “Fuori non c’è neanche una minima luce a segnalarne la posizione. Il suo profilo, scuro e incerto non ha nulla di differente da un qualsiasi masso granitico di cui è costellata la dorsale morenica” (W. Bonatti – o.c.). Nemmeno una luce mostra la presenza del rifugio, Bonatti e Gallieni sono due fantasmi nel buio. Scriverà ironicamente Bonatti che “i dispersi avevano finalmente trovato gli uomini che erano andati a cercarli”. Si salveranno solo Bonatti, Gallieni e Mazeaud, gli altri quattro compagni moriranno.

Henri Briquet e Konrad Kirch

In quei drammatici giorni del luglio 1961, mentre Bonatti portava in salvo i suoi compagni, un’altra cordata di due alpinisti rientrava alla Capanna Gamba, erano lo svizzero Henri Briquet e il tedesco Konrad Kirch. Sono anch’essi in difficoltà, stanno tornando dal Pic Gugliermina. Si rifugiano al Bivacco Craveri, situato sulla “breche” delle Dames des Anglais, si calano sul Ghiacciaio del Freney e da qui iniziano la loro marcia di avvicinamento alla Capanna Gamba.

Gary Hemming e John Harlin sono accampati in Val Veny. Sarà una brutta estate per loro, intendo per i loro rapporti, continuamente influenzati da ripetute e furiose litigate. Il meteo è un disastro, decidono di cambiare aria, magari tornare in Germania dove Harlin risiede in quanto pilota in una base militare NATO vicino alla Mosella. Ma “al momento di smontare la tenda, però, apprendono che due ragazzi che campeggiavano vicino a loro e che erano partiti per scalare la Punta Gugliermina, mancano da qualche giorno. Sono uno svizzero, Henri Briquet, e un tedesco, Konrad Kirch. La ragazza di uno di loro ha dato l’allarme e sono arrivate due guide da Courmayeur”. (da Gary Hemming di Mirella Tenderini – Vivalda Editore, Collana I Licheni).

Racconta John Harlin Jr. (“L’ossessione dell’Eiger” – Vivalda Editore, Collana I Licheni) che i due amici erano di ritorno dalla “cresta della Brenva fino al Colle di Peuterey”. E’ un errore, in realtà Hemming e Harlin tornavano da un tentativo all’Aiguille Noire di Peuterey. “Bagnati fino alle ossa, stavano aspettando in valle che smettesse di venire giù una pioggia che sembrava interminabile. In una tenda vicino alla loro c’era, in preda alla disperazione, la fidanzata di un alpinista svizzero che non era rientrato da un’ascensione a una cima secondaria della Cresta di Peuterey. Erano giorni che mancavano, Henri Briquet, lo svizzero, e il suo compagno tedesco Konrad Kirch. Nonostante le suppliche della ragazza, nessuno aveva cercato di soccorrerli, anche perché la loro meta, la Punta Gugliermina, quasi tremila metri sopra il campeggio, è già piuttosto complicata da raggiungere con il bei tempo, figurarsi nella bufera”.

Hemming e Harlin salgono quindi alla Capanna Gamba e da qui al Colle dell’Innominata con l’intento di soccorrere la cordata svizzero-tedesca. Conoscono l’ambiente, sanno che la via del Colle è la più diretta ma, ancora in quegl’anni, molti preferivano ricorrere ad un itinerario considerato meno complicato (oggi non è più così), quello che si snoda attraverso La Brogliatta, nei pressi dell’Aiguille del Croux.

la Capanna Gamba
da una vecchia cartolina

 Alla Capanna Gamba, Gary e John, trovano altre Guide, qualcuno scrive francesi. Sono lì per dare una mano, per cercare una via comune di soccorso, in fondo siamo in territorio italiano ma ci sono anche quattro francesi fra i dispersi. Al Gamba piove, le condizioni sono oggettivamente critiche. Non si può azzardare niente, almeno per il momento, decidono tutti di recarsi la mattina dopo in direzione del Colle Eccles. Altri andranno alla Punta Croux con un binocolo, un buon punto di osservazione del Freney e del Pic Gugliermina: “Chissà se i due ragazzi sono ancora vivi? Tre delle guide andranno a cercarli domani” (M. Tenderini – o.c.).

La mattina dopo nevica ancora. Tutti escono dal rifugio per vedere che aria tira ma, ben presto, tornano a riposare, niente da fare, non ci sono le condizioni per uscire. Finalmente, alcune ore dopo, qualcosa si muove, si decide di andare verso il Colle Eccles. Gli americani vedono “tre figure che scendono il pendio nevoso. Sono le tre guide che avrebbero dovuto soccorrere i due dispersi. Rinunciano? Gary e John decidono di andare loro, allora, a soccorrere gli svizzeri. Dopo tutto, pensano, i francesi sul Pilone, se sono con un alpinista come Bonatti, che è oltretutto il maggior conoscitore del massiccio del Monte Bianco, hanno poco da temere. Forse sono già riusciti a scendere. Rientrano al rifugio, annunciano al guardiano la loro decisione e gli dicono che tenteranno di raggiungere il bivacco Craveri, un minuscolo riparo di lamiera dove è possibile che i due dispersi si siano rifugiati. Il guardiano consiglia di passare dal Colle dell’Innominata. Gli americani sono sorpresi, perché le tre guide stavano scendendo un bel pezzo più in basso. “Non è meglio passare di là?” -“Oh, no. il ghiacciaio è troppo crepacciato in quel punto. Sono andati là solo per guardare con il binocolo. Ritorneranno subito” (M. Tenderini – o.c.).

Gary e John, partono per il Colle dell’Innominata. E’ difficile procedere, la neve è alta e seguita a nevicare incessantemente. E’ John ad arrivare per primo al Colle, grida qualcosa a Gary ma non è lui a rispondergli, è una voce lontana che proviene dal versante del Freney. Chiunque abbia risposto è vivo ma gli americani non possono fare niente. Si calano lungo il versante Freney del Colle e risalgono dopo aver attrezzato gli ultimi cinquanta metri, quelli più “in piedi”. Decidono di tornare al Gamba e convincere qualcuno a tornare con loro al Colle, la neve è alta, due persone non possono farcela da sole ma se a battere la pista sono almeno una manciata di soccorritori qualcosa si può fare. Nessuno si muove, Briquet e Kirch torneranno da soli. Sono deboli, infreddoliti, presentano sintomi di congelamento, sono esausti ma possono muoversi. La corda lasciata da Gary è stata provvidenziale, una corda che lo svizzero e il tedesco useranno volentieri per poi recuperarla e utilizzarla anche per calarsi dal versante opposto, quello più facile. Sbaglia Roch quando scrive: “Trova una corda (Bonatti ndr), lasciata da John Harlin, sembra per degli svizzeri in difficoltà sulla Punta Gugliermina, ma in realtà è là per loro. La corda pende dalla parte sbagliata sospinta là dal vento” (o.c.). Non fu sospinta dal vento.

John Harlin e Konrad Kircher (a destra) dopo la loro salita della nord dell’Eiger (1962)

Sono ora tutti riuniti alla Gamba, ma qualcosa sta muovendosi nei destini di tutti … Brunod e le sue Guide irrompono nella capanna. Il rifugio è pieno, non c’è posto per tutti, l’atmosfera è tesa. In quel momento Bonatti sta lottando per raggiungere il Colle dell’Innominata, solo un paio d’ore dalla Gamba.

Quando lo raggiungerà e calerà il suo cliente lungo il versante più facile troverà la corda abbandonata da Briquet e Kirch. Non può far altro che infuriarsi con i soccorsi che accusa di aver lasciato una corda sul versante facile del Colle. Non immagina che i soccorsi non sono mai arrivati al Colle dell’Innominata. A posteriori, se quella corda fosse ancora protesa sul versante del Freney sarebbe stato probabile salvare Oggioni. In quei giorni, oltre agli uomini del Soccorso Alpino comandati da Ulisse Brunod, erano stati allertati anche altre squadre di soccorso. Il padre di Gallieni, il giorno in cui Bonatti e compagni iniziano la discesa dal Pilone, chiama i Ragni di Lecco che sono amici del figlio, gente conosciuta. Brunod parte per la Capanna Gamba nel pomeriggio del venerdì, i Ragni di Lecco e gli americano sono già su. Brunod pensa che Bonatti si diriga verso il Bivacco Lampugnani, il sabato risale il Ghiacciaio del Brouillard fino al Col Freney, sente delle grida, torna indietro. Col Freney è un colle fra Punta Innominata ed la dorsale che sale al Col Eccles.

Cosa successe alla Capanna Gamba?

I soccorsi non amano avere gente tra i piedi per quanto brava e competente sia e Brunod non era un’eccezione. Oltretutto una delle prime regole di qualunque soccorritore, ed a maggior ragione di chi ha la responsabilità di una squadra di soccorso, è quella di pensare, prima di tutto, all’incolumità dei suoi componenti. La Capanna Gamba era insolitamente affollata quel sabato sera. C’erano i Ragni di Lecco, fra cui Dino Piazza e Emilio Ratti (uno dei fondatori dei Ragni di Lecco), c’erano gli alpinisti tedeschi e americani, c’erano anche alcuni alpini ai quali, anche a loro sembra fosse stato chiesto aiuto, c’erano alcune Guide francesi. La prima reazione di Brunod è quella di invitare tutti a scendere e lasciare loro spazio, dovevano fare un salvataggio faticoso la mattina seguente e dovevano poter riposare qualche ora con un minimo di comodità.

Hemming è seduto accanto a Harlin. Briquet e Kirch si tengono la testa fra le mani, appoggiata sul tavolo. Gary e Harlin sono alpinisti formatisi sulle pareti californiane dello Yosemite e sui Teton, ancora sconosciuti nell’ambiente del Monte Bianco. Alpinisti che hanno vissuto buona parte di quella magica stagione che ha visto fiorire, in California, un talento dietro l’altro. Hemming, in particolare, è anche uomo dalle grandi doti umane. Sa piegare le difficoltà della roccia, ha ottimo intuito ma soprattutto ha un grande pregio: corre sempre in soccorso di alpinisti in difficoltà, senza valutarne i rischi, con audacia e coraggio. Il grande pubblico lo conoscerà meglio nel 1966 durante un’operazione di soccorso al Petit Dru nella quale salvò una cordata di tedeschi. A quell’operazione, tanto per fare dei nomi, parteciperanno anche René Desmaison (che ritroveremo nell’epilogo successivo) e Mike Burke (morto nel 1975 nel corso della spedizione alla parete sud ovest dell’Everest della quale Chris Bonington, di cui parleremo nel prossimo capitolo, sarà capo spedizione). Hemming morirà nel 1969 in circostanze misteriose, tutto lascia pensare che si sia sparato un colpo di rivoltella alla testa. Nel momento in cui discute con Ulisse Brunod gli restano solo 8 anni di vita. Harlin ne ha ancora meno da vivere, morirà nel 1966 durante l’apertura della “direttissima” alla nord dell’Eiger chiamata, appunto, “via Harlin”.

All’interno della Capanna, Gary interviene, la sua pronuncia è orrenda, un francese che sa molto di slang, ma è capace di farsi capire. Dice di non essere d’accordo con Brunod, sostiene che il soccorso debba partire subito, ci si deve recare al Colle dell’Innominata senza perdere ulteriormente tempo. Brunod non la prende bene, gli chiede di non interferire con i soccorsi. Ma Gary non si arrende, continua a sostenere che il soccorso deve partire subito, sul Colle dell’Innominata ha sentito delle voci provenienti dal Ghiacciaio del Freney, non bisogna perdere tempo. “Al Colle dell’Innominata siamo saliti ieri, quando abbiamo steso una corda, e ci siamo tornati oggi. Abbiamo sentito voci che chiedevano aiuto. Il tedesco e lo svizzero sono qui, ce l’hanno fatta, ma lassù ci sono ancora sette uomini che chiedono solo di essere soccorsi. Dobbiamo salvarli. In due non ce la facciamo ad andare su con tutta la neve che c’è, occorre qualcun altro”.

Chi le ha detto di venire fino a qui, noi sappiamo come muoverci e abbiamo la situazione sotto controllo. La prego di lasciare spazio e scendere a valle” risponde Brunod. (I dialoghi sono di fantasia ma rispecchiano in sostanza quanto di storico è avvenuto).

C’è un altro uomo, fra i presenti alla Gamba, che la pensa come Hemming e che è sostanzialmente d’accordo con lui: quell’uomo è Dino Piazza, Guida Alpina di Lecco. Come Hemming vuole partire subito per il Colle dove intende bivaccare e poi verificare, alle prime luci dell’alba, qual è la situazione. Brunod glielo vieta: “già dobbiamo salvare sette alpinisti, non vorrei doverne salvare altri …”. In quel momento Bonatti sta lottando con se stesso, nella bufera, al culmine del Colle dell’Innominata. In quel momento Oggioni sta ancora lottando con la vita anche se solo per poco, in quel momento Brunod cambia probabilmente le sorti della storia. Sappiamo per certo che volarono parole grosse. Hemming si alza, raccoglie il suo zaino, se lo mette in spalla, si avvicina con il suo procedere yankee alla porta del rifugio e grida ai suoi compagni: “OK, fuck off, let’s go”. Continua ad imprecare contro Brunod mentre si avvia verso valle.

Brunod, appunto. Anche il suo comportamento sarà in seguito criticato. Decide di fermarsi per la notte al rifugio, prega gli americani e gli altri di andarsene. Aveva ragione Brunod? Seguendo il corso degli avvenimenti verrebbe da dire di no ma, io credo, sarebbe ingeneroso. Fece ciò che riteneva opportuno, difese il suo ruolo. Nel suo collegamento radio con Courmayeur, la sera stessa del sabato quando raggiunge la Capanna Gamba, dichiara di essere giunto fino al Col Freney e di aver udito delle voci provenienti con ogni probabilità dal Colle di Peuterey. Ma Brunod si sbagliava. Quando Bonatti raggiungerà la Capanna Gamba, Dino Piazza sarà il primo a partire. Brunod lo seguirà a diversi metri di distanza. Al Colle dell’Innominata Andrea Oggioni era ancora caldo, ma ormai morto. Piangendo, Piazza si rivolse alla squadra di soccorso: “Andrea lo porto giù io. Guai a voi se lo toccate anche solo con un dito”. Era l’epilogo della tragedia, era un’istintiva accusa.

Ricciotti Lazzero scrisse sul numero di Epoca del 23 luglio 1961: “Courmayeur – Alle 5 e tre quarti […] spuntò nel cielo un elicottero della Gendarmerie Française di Chamonix: era l’Alouette numero 1117 pilotato dal tenente Potelle e dal maresciallo Ladhuif […] Con rapidi voli l’elicottero francese trasportò i superstiti e le vittime nella piazza di Courmayeur che s’affaccia sul piccolo cimitero. […] L’autista di un garage li caricò (ndr: i morti) uno ad uno sulla sua 1400 gialla e li trasportò all’obitorio. Oggioni aveva gli occhi aperti e il volto sereno, il viso degli altri era coperto dal cappuccio”.

Tutti quindi rientrano a valle. Bonatti viene subito aggredito dalle domande di Emilio Fede, allora corrispondente della RAI, che già denota una forte smania per gli scoop. Anche le domande di Fede possono considerarsi storiche, nel senso che ben capite. Le rivolge a un uomo che sta rientrando da una settimana di inferno, ha perso dei compagni fra i quali anche uno dei suoi amici migliori e più amati. “Scusi Bonatti, come mai vi siete salvati solo Voi?” … “Dica ai telespettatori com’è andata”. Come mai vi siete salvati solo voi … (sic).

Domenica 16 luglio 1961 – Emilio Fede intervista Walter Bonatti appena giunto a Courmayeur
(da Freney 61 – archivio “Gente”)

Concludendo

Ciò che ho scritto è semplicemente un tentativo. Il tentativo di dare una chiave di lettura diversa alla tragedia del Pilone Centrale. Lo faccio senza presunzione con l’unica intenzione di guardare dentro questa tragedia, un tentativo per mettere insieme pezzi talvolta trascurati. Le mie conclusioni, quindi, vogliono solo essere un incentivo a riflettere.

Nei confronti di Bonatti, l’avrete capito, ho una devozione che definirei patologica. Bonatti per me è “l’Alpinismo”, almeno per come lo intendo io. Evito, di solito, di prestarmi al gioco dei paragoni visto che ogni alpinista è figlio del proprio tempo. Non per questo, tuttavia, mi sento di condividere ogni sua azione. Bonatti è, a mio giudizio, un personaggio estraneo a qualunque forma di confronto, diverso soprattutto per le doti di fondo e l’abilità di cui era dotato rispetto alla media della comunità alpinistica che lo circondava. Sicuramente aveva una marcia in più, probabilmente aveva una resistenza maggiore di altri e dava verosimilmente per scontato che anche gli altri fossero suo pari. Non era così, erano gli altri probabilmente che erano nella media, Walter era qualcosa in più. Per questo, in certi frangenti, qualcuno si è salvato, qualcun altro no.

Walter Bonatti subito dopo la tragedia
(da ilsole24ore.com)

Sottolineo di nuovo una coincidenza. Sia nel dramma del Pilone Centrale che in quello di Vincendon e Henri, Bonatti era legato con un cliente. Non fu certo responsabilità dei clienti se le cose si misero al peggio, questo no, e nemmeno si può ipotizzare che le cose avrebbero avuto un epilogo diverso e più benevolo se Bonatti, in quelle due occasioni, non avesse avuto clienti. Eppure resta un fatto, in ambedue i casi curò l’incolumità del cliente, fu una buona Guida. Difficile dire se ciò nocque all’andamento degli eventi. Sul Colle dell’Innominata, per restare al Pilone, fece ciò che secondo me doveva fare. Da una parte un amico agonizzante, dall’altra il cliente. Scelse di essere Guida e credo che la realtà alla fine sia questa, anche se non lo sapremo mai. Così come curò la discesa di Gheser fino alla Vallot trascurando, probabilmente, Vincendon e Henri.

Gary Hemming, del quale parleremo più avanti sulle pagine di questo Annuario, è un uomo che somiglia molto a quel personaggio di Bruce Chatwin che parlando della fine del mondo dice: “che ci faccio io qui!”. Lui e Harlin, per ciò che è il mio giudizio, agirono consapevoli di ciò che era loro possibile e che era nelle loro corde, proposero ciò che era più logico senza trovare alcun sostegno da parte delle Guide valdostane.

Su Kirch e Briquet il mio giudizio è più severo anche se riconosco essere basato solo su delle ipotesi. Vale la pena comunque approfondire il discorso. Hanno udito molte voci nella bufera e certo era difficile individuare da dove provenissero: urlava Brunod dal Col Freney, urlavano gli americani dal Colle dell’Innominata, urlavano loro stessi scendendo dalla cresta di Peuterey, urlava Bonatti dal Ghiacciaio del Freney. Il tutto, e tutti, avvolti nella nebbia, nella bufera che flagellava e fiaccava la mente e i corpi ormai stanchi, debilitati. Ma ritengo sia possibile affermare che non potevano non aver udito le urla di Bonatti. Non a caso tutti, dico tutti, una volta riuniti al Gamba, si convinsero che Bonatti e compagni stessero scendendo attraverso il Freney (e non dal Col Eccles) e quindi là ci si doveva recare, al Colle dell’Innominata. Subito.

Qualunque teoria sulla corda abbandonata sul lato facile del Colle è azzardata. E’ tuttavia impensabile che Kirch e Briquet non avessero con se una corda, risalire il Colle dal lato del Freney senza corda e con quelle condizioni, una risalita che Bonatti stesso dichiara “impossibile” in quelle condizioni, sarebbe stato probabilmente un suicidio. Perché non lasciarono la corda di Hemming stesa sul lato del Freney? La discesa al Gamba è possibile anche senza corda per chiunque abbia un briciolo di esperienza e i due ne avevano a sufficienza. Kirch in particolare, che negli anni seguenti diverrà uno dei più assidui compagni di Harlin tanto che insieme realizzeranno anche la nord dell’Eiger. Ma ammesso non se la sentissero di scendere senza corda (il che è plausibile: erano stanchi, sfibrati, fuori da giorni nella bufera), perché non usarono la loro? Quando raggiungono il Colle hanno solo qualche ora di vantaggio su Bonatti. Tre ore? Quattro ore? Davvero non ne avevano sentito le urla? La testa degli alpinisti, specialmente nei momenti di tensione, è una strana bestia che continua, tuttavia, a ragionare con raziocinio e giudizio. Kirch e Briquet non ebbero né l’uno, né l’altro. Bonatti scrive in un passaggio del suo libro, a proposito della corda, che: “… fu stesa dagli americani proprio per rendere accessibile la risalita dell’impossibile canalino! Ma qualcuno prima di noi se ne era servito e in modo egoistico e irresponsabile. L’aveva utilizzata sicuramente sul cananlino nord, e poi recuperata per essere riusata sul facile versante sud. Ebbene sì, soltanto là sul lato nord questa corda poteva cambiare le sorti di quella che per noi, ora, si trasformava in tragedia. Penso che i responsabili, da quel giorno, non faranno sonni tranquilli”.

Cosa dire di Ulisse Brunod. Si diresse senza dubbi verso il Col Freney. Aveva davanti a se due soluzioni: cercare Bonatti al Colle Eccles o cercarlo sul Freney. Scelse la soluzione a lui più logica, criticarlo sarebbe ingeneroso, l’ho già detto, eppure sapeva che scendendo dal Freney si perde quota molto più velocemente anche se la discesa è più complicata. Bonatti e Oggioni avevano seguito lo stesso itinerario nel loro tentativo del 1959, anche Harlin e Hemming erano scesi lungo lo stesso itinerario nel corso dei loro falliti tentativi ed anche Piussi e Julien scesero dal Freney nel loro mancato tentativo del 7 agosto 1961. Ciò a conferma che l’itinerario dal Colle Eccles non era così scontato. Scrive Gino Buscaini sulla guida CAI-TCI (Monte Bianco 1): “La via migliore è di solito quella per i Rochers Gruber e il Colle dell’Innominata. Ha il vantaggio che si perde quota rapidamente, ma alcuni svantaggi: le corde doppie, l’esposizione alla caduta di ghiaccio, i crepacci del ghiacciaio di Freney, con scarsa visibilità l’individuazione del canale per risalire al Colle dell’Innominata. […] È vantaggiosa anche la via per il Col Eccles grazie ai due vicini bivacchi, benché richieda la risalita al colle stesso. Gli svantaggi sono le valanghe dai canali fra i piloni, la permanenza in quota e una certa difficoltà a reperire i bivacchi col maltempo”. Resto tuttavia dell’opinione che Carlo abbia ragione, Bonatti non prese nemmeno in considerazione l’itinerario del Brouillard.

Ma il nodo del mancato soccorso non sta in questi termini. Fu critica, a mio parere, la decisione di non muoversi subito dal Gamba verso il Colle dell’Innominata. Per una Guida esperta di Courmayeur, anche nelle peggiori condizioni, la salita fino al Col Freney, circa tre, quattro ore, non può essere, suvvia, così faticosa in termini fisici. Poteva ripartire subito in direzione del Colle dell’Innominata. Brunod, a mio parere, poteva quindi muoversi subito e bene anziché ordinare lo sgombro del Gamba. In fin dei conti Piazza e gli altri erano Guide come lui, erano membri del Soccorso come lui, quindi poteva fidarsi.

Ma qui, concludo e ripeto, abbiamo a che fare con un personaggio scomodo per la sua bravura, scomodo per i suoi modi vincenti. Scrisse Bonatti: “Alla Gamba il caro Mazeaud, l’unico che le guide hanno trovato ancora vivo, mi abbraccia e piangiamo insieme”.

Amen.

una foto, meno conosciuta, dei quattro francesi anch’essa scattata al Bivacco della Fourche (da article.wn.com)

 

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