La tradizione del canto popolare in Toscana di Stefano Saccardi

Annuario 2012

Il Coro La Martinella

Canti popolari? Appartengono e provengono dal passato, da un patrimonio culturale povero, generalmente di contadini, di artigiani, di operai, ma anche di bambini. La sera, dopo la cena e una faticosa giornata di lavoro, le famiglie si riunivano intorno al canto del fuoco e parlavano raccontando del più e del meno, talvolta cantando.

Come pure durante il lavoro cantare era un momento di pausa dalla fatica, un motivo per non pensare momentaneamente ai problemi, alla durezza della vita di allora. Canzoni semplici, sia nella forma, sia nella musicalità, sia nei testi; senza autore, spontanee, tramandate oralmente. E proprio nel passaggio da una persona a un’altra potevano avvenire elaborazioni e trasformazioni; da qui la nascita di varie versioni e varianti del medesimo canto. Questo nell’epoca più recente.

L’origine del canto popolare può essere ricercata ancor prima sin dal trecento, dal cinquecento e dal seicento. Non vi è origine certa propria perché tramandati chissà da quando e chissà da chi. I canti popolari sono arrivati così ai giorni nostri, e per fortuna aggiungo io, perché danno modo di diffondere e far conoscere, sia a chi canta, sia al pubblico che ascolta, questi vari momenti di un mondo che fu. Un tempo erano diffusissimi, anche come forma di divertimento (cantare, ballare ecc.) oggi non, più grazie alla generalizzazione della cultura scritta e dei mass media che li ha fatti dimenticare e soppiantare da altre forme musicali più moderne e più remunerative. Oggi il canto tradizionale è ricordato solo da poche persone anziane e in aree geografiche limitate, contadine e montane.

Lo studio di questo genere di canti (etnomusicologia) mediante la ricerca, la registrazione, la trascrizione dei canti è il tramite per lo studio delle tradizioni, della cultura, della storia e del carattere di un popolo, di una regione. Ed è grazie ad illustri studiosi che nell’800 si hanno le prime raccolte classiche, e penso ai principali Niccolò Tommaseo e Giuseppe Tigri; poi nei primi anni del ‘900 Giovanni Giannini, Raffaello Cioni, Luigi Neretti, Vincenzo Billi, fino ai più recenti Gilberto Cocci, Valeriano Cecconi, Alessandro Fornari, Riccardo Marasco, Claudio Malcapi e altri. Anche molti cantanti hanno contribuito alla diffusione del canto tradizionale adattandolo a forme compatibili con le esigenze del pubblico uditore come Caterina Bueno, Daisy Lumini, Riccardo Marasco. Oggi i canti tradizionali sono eseguiti in varie forme, talune semplici come un singolo cantante o un duo di voci anche con l’accompagnamento di uno strumento musicale in genere la fisarmonica, il mandolino, l’organino o la chitarra; talune più complesse come piccoli gruppi con l’accompagnamento di strumenti popolari oppure veri e propri cori composti fino a un massimo di una quarantina di elementi, a tre o quattro voci senza l’accompagnamento di strumenti, e cioè i cosiddetti “cori alpini” come La Martinella.

Gruppo folkroristico “I sonatori della boscaglia”
(da www.isonatordellaboscaglia.it)

Talvolta nelle feste e sagre popolari, soprattutto primaverili ed estive, alle esecuzioni sono associate danze e coreografie popolari. La bellezza del canto tradizionale resta comunque nella semplicità, nella naturalezza e nella freschezza del canto stesso. Cantare alleviava le fatiche delle laboriose faccende, siano esse di casa che dei campi; le massaie cantavano mentre tessevano le tele, o stavano intorno al fuoco e così erano trasmesse ai figli, ai nipoti. Credo, dal mio punto di vista, che uno dei modi più validi di proporre i canti popolari sia l’esecuzione in forma corale.

I canti di montagna si prestano particolarmente a questo tipo di esposizione, basti pensare alle esecuzioni dei cori toscani come “La Martinella” di Firenze, “La Genzianella” di Pistoia, il “Cantori dell’Appennino Toscano” di Cutigliano, l’ “Alpi Apuane” di Pievefosciana, il “la Grolla” di Livorno, il “Monte Sagro” di Carrara e tanti altri; tutte compagini che ormai da anni ricercano, adattano e diffondono le note dei canti tradizionali toscani. Ma fortunatamente anche nuove e giovani compagini si affacciano alla ribalta del folk popolare toscano. E’ il caso del Coro dei Minatori di Santa Fiora, che, riprendendo il nome da un gruppo di musica popolare preesistente negli anni ’70, è stato formato nel 2006 con l’obiettivo di recuperare e reinterpretare il vasto e originale repertorio di musica popolare di Santa Fiora e delle località minerarie del Monte Amiata, avvalendosi nelle esibizioni dell’apporto di chitarra e fisarmonica.

Tutti comunque hanno il merito di mantenere viva la tradizione popolare, ricercando e valorizzando i canti di “una volta”, ambasciatori delle nostre tradizioni, veicoli di cultura, messaggeri di modi di vita semplice che purtroppo abbiamo perso di vista. Traendo spunti e origine dalla vita comune di tutti i giorni i canti tradizionali possono avere molteplici soggetti: da quelli che possono avere come tema il lavoro: per esempio l’artigiano, l’arrotino, il pastore, oppure originati dai richiami dei medesimi per attirare l’attenzione (“arrotino!”…arroto a tutti quanti coltelli e temperini…); a quelli dell’infanzia e del gioco dei ragazzi (”verrà quel di lune…); dalle ninne nanne spesso tristi perché cantate dalle mamme che avevano questo come mezzo per piangere la loro condizione di essere donna (“fate la nanna coscine di pollo”…fate la nanna coscine di pollo, la vostra mamma v’ha fatto i’ gonnello…); ai canti da ballo accompagnati da strumenti poveri ma non di meno musicali (“il trescone”…levatevi da i’ sonno briaconi…).

una tipica bicicletta dell’arrotino
(da www.wikipedia.it)

Anche la guerra ahimè fornisce spunti per canti popolari, come il risorgimentale “addio mia bella, addio” che celebra la partenza dei volontari toscani nel 1848 per Curtatone e Montanara, durante la Prima Guerra d’indipendenza contro l’Austria. E poi le pene d’amore, anche queste spesso cantate con semplicità e serenità come la perdita dell’amata o dell’amato bene ( “mamma fammi la pappa …mamma fammi la pappa che son malato che son malato d’amor…).

Come si vedono tutte le situazioni della vita quotidiana. I canti toscani in particolare ebbero diffusione in altre regioni italiane trasportate per esempio dalle relazioni commerciali. In Liguria per via mare da Livorno o per via terra con l’attraversamento del Magra. A Venezia mediante il commercio della seta, da Lucca e Firenze per l’oriente. Nelle province della Romagna, del Piceno e dell’Umbria, per lo spostamento di colonie toscane nelle terre di Roma ad aiutare per la realizzazione di opere rurali. Storie e leggende cantate in ottava rima nelle feste e nei mercati, nelle città e nei borghi dai cosiddetti cantastorie e giullari; pure i ciechi mendicanti al suono del mandolino cantavano storie per le vie e talvolta le vendevano.

I “rispetti” sono brevi poesie amorose, quasi rispettosi saluti che si facevano fra loro gli innamorati. Gli “stornelli” canti brevi di non più di tre versi che racchiudono un concetto compiuto, spesso cantati a “storno” quasi a rimbalzo di voce o a ricambio da un colle all’altro, fra un pastore e un altro. Gli “strambotti”, derivati da stran motti, cioè strani motti, un genere di poesia amorosa. Le “serenate” antichissima usanza che consisteva nel cantare e suonare come fanno gli amanti davanti alla casa delle loro donne; anche “notturno” se cantata a quell’ora che “…volge il desio, ai naviganti e intenerisce il core” alla luce brillante delle stelle e al chiaro di luna. Il “maggio” con il quale si festeggiava a Firenze e nei dintorni, contado, con suoni canti balli e conviti, il “calen di maggio” cioè il ritorno della primavera.

Un esempio di canto “di lavoro” è Arrotino!:

Arroto tutti quanti
Coltelli e temperini,
chi ha forbici fini
le porti tutte a me!
E gira la cariòla,
larà, larà, larà,
‘l’è un’arte che consola
L’è un bel mestier che va!…
La lingua delle donne vorrei un po’ arrotare
Per farle un po’ chetare
Dal troppo chiacchierar,
e gira la cariola,
larà, larà, larà,
‘l’è un’arte che consola
L’è un bel mestier che va!…
 

Questa è la versione fiorentina della canzone dell’arrotino. Essa fungeva sia da richiamo delle possibili clienti, sia da accompagnamento al ritmo del pedale che gira la mola.

Il quadretto è assai gustoso, e par proprio di vederlo, il simpatico giovanotto, sistemare il suo trabiccolo in un cortile e incominciare a lavorare intercalando al canto il grido di “arrotino!”, un occhio alla mola che gira, l’altro ai balconi dove si affacciano le donne di casa con forbici e coltelli in mano.

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