Esiste un’etica dell’alpinismo di Marco Orsenigo

Maggio 2013

Cultura, principi e riflessioni

Domandarsi, per chi scrive, se esiste un’etica dell’alpinismo, è retorico, dopo lunghi anni di militanza nel Sodalizio, dopo la formazione di istruttore nella Scuola Piaz, insomma dopo aver assimilato la cultura ed i principi etici che il CAI esprime. La risposta a quella domanda però è meno scontata, allargando lo sguardo oltre ciò che accade subito intorno a noi, sottointeso in montagna.

Questa riflessione mi è stata suggerita da un articolo di cronaca apparso su la Repubblica nel mese di febbraio appena trascorso. Riferisce il cronista di un incidente mortale accaduto l’anno scorso sul Gran Sasso e giusto in questi giorni il superstite vede celebrare in un’aula di tribunale il suo processo. Il caso è questo: due alpinisti decidono di salire alla vetta del Corno Grande, nonostante le previsioni meteorologiche molto sfavorevoli. Le previsioni meteo si confermano puntualmente, tuttavia la coppia decide di raggiungere comunque la vetta. Procedono slegati. Ad un certo punto uno dei due alpinisti (il superstite) imprime all’ascensione un ritmo che l’altro (la vittima) non riesce a sostenere. In breve i due si distanziano fino a perdere contatto; il primo sparisce alla vista del secondo. Orami nella tormenta anche il secondo arriva in vetta; del compagno non c’è traccia. Solo, in difficoltà, chiama i familiari per chiedere soccorso; poi si avvia per la discesa che si concluderà precipitando nel Vallone dell’Inferno, ove morirà dopo lunga agonia per le ferite riportate. Questa in sintesi la cronaca.

Gli aspetti giuridici di questa storia non interessano in questa sede; invece voglio concentrare l’attenzione sull’aspetto etico che fa da sfondo alla vicenda. Mentre leggevo l’articolo, mi chiedevo come possa un alpinista abbandonare il proprio compagno in difficoltà, specie in condizioni climatiche avverse. Quando due alpinisti procedono slegati di conserva, non è infrequente che il ritmo della progressione sia diverso tanto da creare fra loro una certa distanza; ma è pure vero che questa distanza non sarà mai tale da eliminare ogni contatto fra i due fino a pregiudicare la capacità di intervento in aiuto l’uno dell’altro in caso di necessità.

Andando a ripescare fra i ricordi della mia attività in montagna, in più di un’occasione è capitato di attendere anche a lungo l’uscita della cordata che seguiva e finalmente alla vista del caschetto bianco del primo di cordata gridare il classico “bravi, ma lenti” per liberarsi di una preoccupazione che iniziava a farsi strada. Allontanarsi perché minaccia il maltempo, anche fosse il consueto temporale estivo, giammai; anzi una ragione in più per restare in attesa. Di episodi uguali a quello riportato di recente da la Repubblica non ho trovato traccia negli annali dell’alpinismo, ma non perché si tratti di un episodio affatto isolato, forse perché alla cattiva condotta non è seguita la tragedia. Devo anche aggiungere che, oltre alle condotte riprovevoli, la storia dell’alpinismo ci narra di tanti episodi di eroico altruismo, a conforto ed a recupero di fiducia nell’uomo alpinista. Attingendo alla mia personale esperienza, voglio narrare tre episodi, nella loro modestia illuminanti ai fini del nostro discorso.
Molti anni fa col G.A.T.P. partecipai alla gita al Monte Bianco per tentare la salita dal Rif. Gonella. Fin dal pomeriggio precedente l’ascensione si vedeva avvicinarsi una perturbazione che non prometteva nulla di buono. Al rifugio giunsero in modo autonomo due alpinisti, che fatta conoscenza sul posto, decisero di fare cordata l’indomani. Uno di questi era un alpinista per così dire di pianura (abitava in provincia di Milano, per comodità A.), l’altro lavorava al Rif. Margherita alla Punta Gnifetti (almeno così fu riferito, per comodità B.). Noi fiorentini iniziammo la salita col ritmo lento e cauto di chi non ha acclimatazione, mentre la cordata estemporanea di A. e B. partì a ritmo sostenuto ed in breve frappose fra noi e loro parecchia distanza. Dopo un certo tempo trovammo lungo la traccia di salita A. seduto nella neve. Non stava bene, accusava mal di montagna. Era solo. La cordata col compagno improvvisato era stata sciolta e B. aveva proseguito solitario e spedito, forte di un’acclimatazione invidiabile.

Ricordo che ad A. offrimmo il nostro aiuto, che però declinò; ci rassicurò, affermando che si sarebbe riposato ancora un poco per poi discendere di nuovo al Rif. Gonella non molto lontano. Noi riprendemmo la salita. Intanto il tempo peggiorò. Non avevamo ancora raggiunto il Col de Bionnassay che iniziò a nevicare; la possibilità di raggiungere la vetta preclusa. Decidemmo di ripiegare verso il rifugio di partenza. Ritrovammo, là dove lo avevamo lasciato, A., incapace di muoversi sempre in preda al mal di montagna e forse anche al freddo dopo un’immobilità prolungata. Lo riportammo al Rif. Gonella, caricandocelo a turno sulle spalle; per fortuna il percorso non fu lungo e soprattutto si procedeva in discesa. Mi sono chiesto più volte cosa sarebbe accaduto, se fosse variata una sola delle circostanze narrate in questa vicenda. Non credo di essere lontano dal vero, se affermo che probabilmente il Monte Bianco avrebbe registrato una nuova vittima. E ciò mi porta ad riaffermare per inciso, quello che sono solito sostenere, ovvero – contrariamente alla comune opinione – la montagna è benevola.

Nella storia che ho narrato fra le molte circostanze variabili presenti si nota la mancanza di un elemento che invece dovrebbe essere una costante certa: la presenza del compagno di ascensione.

Di un altro caso di abbandono mi sono occupato in veste di consulente tecnico d’ufficio nominato dal tribunale per stabilire, se il percorso invernale dalla Via del Duca alla vetta del Monte Rondinaio è alpinistico, oppure escursionistico. Il fatto che dette luogo al processo è il seguente: tre amici decidono di percorrere quell’itinerario in un lontano febbraio. Uno dei tre, meno esperto nell’uso di ramponi e piccozza, manifesta durante l’escursione anche sintomi di affaticamento. Gli altri due insistono perché il loro compagno continui la salita, ma non adottano alcuna precauzione nei suoi confronti; anzi nel tratto finale di cresta più ripida, che si conclude con la cima del Rondinaio, lasciano il loro compagno indietro fino a perderlo di vista. Nemmeno si accorgono che il loro amico è scivolato lungo il pendio ovest, precipitando per un centinaio di metri. L’uomo muore per trauma cranico.
Dalla cronaca traggo un altro episodio di abbandono in montagna (o supposto tale) avvenuto sul Sorapiss, che è stato così raccontato al giornalista del Corriere della Sera da un escursionista, che faceva parte del gruppo: “La mattina di domenica eravamo al Rifugio Vandelli. Io dissi che tornavo indietro: il giorno prima avevo preso una botta al ginocchio. Stefano Prudenziato invece stava bene e scherzava, come sempre. In montagna, poi, era ancora piu’ euforico. Ai due amici, Roberto e Giorgio, pronti a partire, disse: “Non so se vengo oggi. Forse torno indietro. Comunque, se decido di proseguire, ci vediamo stasera alle otto al Rifugio San Marco”. Cosi’ loro sono andati via. E Stefano ha deciso, mezz’ora più tardi, di continuare l’escursione. Era esperto e prudente, conosceva la montagna. …”. L’appuntamento quindi non era al Bivacco Comici, ma al Rifugio San Marco. E invece quando Prudenziato arrivò al bivacco e non vide i due amici, già ripartiti, scrisse: “Mi sono perso. Quei due mo… non mi hanno aspettato”. Quel giorno Stefano Prudenziato perirà, cadendo in un dirupo del Sorapiss. Gli amici Roberto e Giorgio sostengono di non averlo abbandonato.

Un altro episodio mi sovviene, l’aiuto che prestai ad una coppia non più giovane che come me risaliva il pendio che mena al Rif. des Cosmiques (M. Bianco). La donna era in palese difficoltà, ancora una volta afflitta dal mal di montagna; il compagno da solo non riusciva ad aiutarla. Il rifugio non era lontano, ma neppure a portata di mano. Mi offrii di aiutarli. All’uomo passai il mio zaino, presi la donna sulla schiena e cominciai a salire. Il compagno mi aiutava, tirandomi con uno spezzone di corda legato all’imbracatura. Così raggiungemmo il rifugio. Riferisco questo episodio non per il suo significato intrinseco, irrilevante, quanto per riferire di un aspetto di contorno, che invece è significativo ai fini del nostro discorso. Giusto fuori dal rifugio un gruppo di alpinisti si stava preparando per affrontare il ghiacciaio; ci videro arrancare nella loro direzione, ma nessuno fece cenno di voler intervenire in aiuto; fummo platealmente ignorati. La cosa mi dette molto fastidio e non mancai di manifestare il mio disappunto.

Molti lettori conosceranno la storia di Joe Simpson autore del libro “La morte sospesa” (edito da Corbaccio, Milano), ove si narra della salita alla parete occidentale del Siula Grande (Ande Peruviane) insieme a Simon Yates. Durante la discesa dalla vetta Yates cala Simpson manovrando le due corde congiunte direttamente sull’imbracatura. Ad un certo momento Simpson scivola e dopo una rovinosa caduta si frattura il ginocchio. Simpson rimane appeso alla corda nel vuoto, con tutto il peso che grava su Yates, immobilizzandolo; il nodo di giunzione è bloccato al moschettone applicato all’imbracatura. Fallito ogni tentativo di allentare la tensione della corda, Yates decide di tagliarla. Diversamente sarebbero morti entrambi. Simpson precipitò per molte centinaia di metri fino a raggiungere il sottostante ghiacciaio; il volo si concluse dentro un crepaccio. Yates riuscì a terminare la discesa e raggiungere il ghiacciaio, però non cercò il compagno, che dette per morto. Joe Simpson invece non era deceduto e riuscì, nonostante le gravissime condizioni in cui versava, ad uscire dal crepaccio e poi strisciare prima sul ghiacciaio, poi sulla morena fino a raggiungere il campo base.

Volendo commentare questi episodi, non è difficile discernere i casi di abbandono vero e proprio, da quelli per i quali di abbandono non si può parlare. Certamente di abbandono si tratta nell’episodio accaduto sul Gran Sasso e nel caso che ho vissuto sul Monte Bianco, così come nel caso di morte dell’escursionista sulle pendici del Rondinaio.

Diversa la vicenda dell’alpinista perito sul Sorapiss. Non può essere considerato abbandono lasciare un compagno di escursione al rifugio di partenza, che prima dichiara di non voler proseguire, poi decide di partire da solo. Il gruppo ormai si è sciolto. L’alpinista solitario accetta di affrontare i pericoli della montagna senza poter contare sull’aiuto di un compagno. Ancora diverso il caso che riguarda Joe Simpson e Simon Yates. Nessun rimprovero può essere mosso a Yates per aver tagliato la corda; agì in stato di necessità. La sua condotta diventa invece moralmente riprovevole, quando decide di non cercare il compagno una volta raggiunto il ghiacciaio e di fatto lo abbandona nel crepaccio, senza aver verificato se fosse ancora in vita.

Gli psicologi sono in grado di dare una spiegazione a questa condotta; sul piano etico tuttavia il giudizio resta negativo. Lo spirito di solidarietà ed il mutuo soccorso sono principi che stanno alla base di tutte le attività umane che si svolgono in ambienti tendenzialmente ostili. Lo sa bene il montanaro, lo sa bene il marinaio. Tanto questi principi sono radicati nelle nostre coscienze, che sono recepiti in più disposizioni dell’ordinamento giuridico. Il dovere morale di prestare soccorso vige tanto nei confronti del proprio compagno, quanto nei confronti di altri frequentatori della montagna, nei quali è possibile imbattersi durante la gita.

Questi principi valgono sia per l’alpinista esperto, sia per il compagno che si affida al primo per frequentare la montagna in sicurezza. Alle guide alpine il dovere di soccorso è imposto espressamente nell’art. 11, L. 6/1989, tuttavia anche l’alpinista inesperto – sia pure nei limiti delle sue possibilità – ha il dovere di prestare aiuto al proprio compagno in difficoltà, anche se più esperto. Certo la soglia dello stato di necessità per il neofita è collocata molto più in basso rispetto a quella dell’alpinista di maggior esperienza, tanto più se questi ha assunto l’onere di garantire la sicurezza del primo. Lo stato di necessità di salvare la propria vita e dei compagni di cordata è l’elemento che almeno teoricamente divide con una netta cesura l’area, ove il dovere etico deve cedere il passo all’istinto di conservazione. Ne sono consapevoli gli alpinisti che affrontano le vette del Himalaya e del Karakorum. Oltre gli ottomila metri si entra in quella che è definita la “zona della morte”; lassù la capacità di resistenza alla fatica è così limitata che si può badare solo a se stessi. In quelle condizioni è impossibile prestare soccorso al compagno in difficoltà. L’abbandono è una scelta necessitata.

Le salite ai grandi ottomila sono state spesso funestate da questi episodi. Bisogna pure aggiungere che gli alpinisti conoscono questo rischio che accettano consapevolmente. Esclusi questi casi estremi, sul piano pratico stabilire fin dove debba spingersi il dovere di soccorso nei momenti di bisogno non è facile, perché molte sono le variabili indipendenti che condizionano le scelte e poi la loro valutazione. Valutazione che – è bene ricordare – dev’essere comunque effettuata tenendo presente la situazione per come si presentava e non a posteriori. Reputo tuttavia che almeno nei tre casi di abbandono che ho citato non vi siano dubbi circa la correttezza del giudizio.

La frequentazione della montagna, per limitare il discorso al nostro ambito, da molti decenni non è più un fenomeno elitario. Persone sempre in maggior numero si recano in montagna e si avventurano per le sue pareti, non tutte con la necessaria preparazione e non tutte dotate di quel bagaglio culturale e di principi dei quali il CAI è custode.

Nessuno stupore quindi, se dobbiamo assistere ad episodi di abbandono come quelli che ho narrato. D’altra parte in montagna non ci vanno soltanto cavalli di razza, purtroppo anche esseri assai meno nobili.

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