23 agosto 2013 – Normale italiana al Monte Bianco di Francesco Sberna

P1040849Annuario 2013

Una telefonata, quel sabato 17 agosto, con Gigi Bardelli. “Gigi, che facciamo, andiamo alle 13 cime con Vittorio e Lorenzo?” “Beh… sì… altrimenti?”. Certo, il tempo è bello, finalmente l’anticiclone delle Azzorre si sta piazzando stabilmente e garantirà (!) tempo stabile per almeno 3-4 giorni a partire da martedì. Come non accadeva da diverso tempo. E come accade raramente, specie a fine agosto, una di quelle condizioni che chi va in montagna aspetta per realizzare il suo sogno nel cassetto.

Bisogna approfittare. Sicuramente dobbiamo andare da qualche parte. Si va alle 13 cime? Poi mi viene di farfugliare qualcosa. Mezze parole, accenni, frasi come “Ci sarebbe anche Lui...”. “ Chi?” dice Gigi “Mah, quello lassù...” non ho il coraggio di nominarlo. Finalmente Gigi, l’artefice della decisione, ha il coraggio di dirlo: “il Bianco!” Forse segue un po’ di silenzio, ma la decisione è già presa, l’intesa è nata. Io il promotore timido, un po’ incerto, come sempre per mia natura, Gigi il maieuta, quello che dà e tira fuori sicurezza anche da una rapa. Intesa perfetta. Da subito.

Quando si va? Allora, lunedì è brutto, poi migliora. Mercoledì sicuramente stupendo, ma anche fino a venerdì, se non con qualche nuvola nel pomeriggio. Qualche nuvola o possibili temporali? Sappiamo bene dove andiamo e anche una rara possibilità di beccarci un temporale, ma anche solo la nebbia, per noi è già troppo. Si va in montagna (quella vera) solo per divertirci, il temporale lo accetto solo nel bosco di casa mia. La soluzione: Alfio. “Pronto, Alfio? Senti, io e Gigi forse si vorrebbe… che ci dici di giovedì? Su qualche sito mettono nuvole a Chamonix...”. “ Bene, stasera ci guardo e poi ti dico”. Alfio conferma: il tempo regge, e bene, fino a venerdì. “Andate!” Anche lui, Alfio, una persona che ti sa aiutare, uno che sei fortunato se ce l’hai per amico. Una sicurezza. Un giorno di margine sul programma che stiamo delineando. Può bastare. Dunque potremmo partire mercoledì mattina alle cinque. Alle dodici si parte per il Gonella ( già, dimenticavo… altra intesa: la salita è quella, per tutti e due, la più ambita da alpinisti normali, che non cercano vie oltre i propri limiti, e comunque la più difficile delle normali al Bianco…). Ci vogliono 5-6 ore per il rifugio. Il giorno dopo, a differenza di quello che fanno tutti, non si fa la salita. No. Stiamo andando a fare il Bianco. Siamo allenatissimi a quote basse con le nostre “morellate”, a parte una puntata ai Domes de Miage con Alfio e Brenno una settimana prima, ma fino a 3.600. Non sono i 4.800! Ci manca l’acclimatamento, una delle tre condizioni che ritenevo indispensabili per andare al Bianco, oltre al tempo stabile e all’allenamento. Dunque si resta al rifugio un giorno in più, per tre motivi: ci riposiamo della salita del giorno prima, ci acclimatiamo un pò, e soprattutto andiamo a vedere le condizioni del ghiacciaio e individuare l’itinerario di salita, che dovremo fare al buio. Saggia scelta, strategia vincente. Nessuno fa così, ma non importa, a noi ci sembra meglio. Siamo determinati, ma consapevoli dei nostri limiti. E anche delle condizioni del ghiacciaio: su Gulliver una relazione di una settimana prima dice che il ghiacciaio è molto complicato e che “i ponti reggeranno per poco”. Il gestore, molto disponibile, conferma, tanto che è assolutamente sconsigliata la discesa per quella via. Si resta un giorno al Gonella, vogliamo giocarci tutte le carte, ridurre al massimo le possibilità, che riteniamo alte, di non farcela. Determinati ma consapevoli. E comunque anche su questo c’è intesa: se non ce la facciamo, per motivi vari o perché uno dei due cede, non importa, vorrà dire che abbiamo passato tre giorni all’aria aperta e in un bel posto. Lo sappiamo: il Bianco, come molte montagne, vuole il suo tributo, fatto anche di tentativi a vuoto. Lui va avvicinato con rispettosa modestia. E determinazione. Già, i tentativi a vuoto, come quello di Brenno e gli altri pochi mesi prima con gli sci. Siamo convinti che andrà come a loro. Che erano determinatissimi, e un gran bel gruppo!

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Ma intanto noi andiamo a vedere la salita al rifugio, così ci torniamo l’anno prossimo, a inizio stagione, quando il ghiacciaio è più tranquillo, e ci si torna con Brenno e Alfio, con cui ne parlavamo una settimana fa. Già, gran bella gita quella ai Domes de Miage. Riuscitissima. Stupendo itinerario. Magnifica compagnia. Gita premonitrice. Facevamo la cresta, ma guardavamo in su, a sinistra, verso il Bianco. “Come è alto!” “Impossibile arrivarci!”, poi “Quello è il Dome du Gouter” “Si vede la Vallot”, poi “quella è la cresta delle Bosses” , “ma il Gonella dove sarà? Deve essere là dietro, oltre l’Aiguille de Tré la Tete”… Era già una ricerca dell’itinerario!

Dunque si va. Programma fatto. Pochi dettagli sul materiale. Abbiamo fatto poche gite insieme, ma sappiamo già di poterci fidare reciprocamente. Intesa. Non parliamo della via di discesa. Sappiamo che la più bella, la più completa è quella che passa sotto il Maudit e il Tacul, ma si può anche tagliare prima verso il Gouter se non ce la facciamo… Non ne parliamo. Obiettivo scaramanticamente primario è il Gonella, poi vedremo. Manca un’ultima cosa. Una telefonata a Eriberto. Vado al Bianco e non glielo dico? Impossibile. Come andare a casa di un amico che lascia la porta sempre aperta anche quando non c’è. Almeno gli va detto. Una specie di viatico. Come sempre, basta dargli un accenno che subito si attiva e fornisce informazioni e consigli. Ora si può andare. Piccola modifica al programma. “E se invece che partire alle cinque si partisse la sera prima in camper?”. “Perfetto!” Un Gigi sempre entusiasta, positivo. Il compagno che ci vuole.

Martedì 20 agosto
Lo sai che la Marina ha fatto il Bianco l’anno scorso dal Gonella?“, “Sì, me lo ha detto, e secondo lei non è una via così impegnativa …”, “Già, ma lei va forte …”, “Va bene … e noi, allora? O che siamo da meno!?“. Fra questa e altre mille congetture, altalenanti fra la denigrazione delle nostre capacità e l’autoesaltazione, arriviamo a Courmayeur alle tre di notte, dopo un temporale benaugurante, con lampi che pareva giorno, nei pressi di Ivrea. Gran dormita alla partenza della funivia della Val Veny fino alle nove, poi ottima colazione, con calma, “tanto abbiamo tempo”… Invece, alle 10,10 chi passa sulla statale per il tunnel del M. Bianco vede due cretini che corrono con zaino in spalla e scarponi, come facessero footing, in direzione della Saxe, circa 1 km, dove passa la navetta per la Val Veny alle 10,21. Un fortunoso passaggio da una gentilissima signora filippina ci aiuta, e così ci imbarchiamo. La salita al Gonella è semplicemente lunghissima, su quella morena di 5 km, senza sentiero, scarsamente segnata da ometti effimeri e bolli gialli rarissimi, ma anche per questo entusiasmante: il percorso, meravigliosamente estenuante, ti aiuta a scrollarti di dosso, piano piano, tutti quei pensieri che non vuoi e non devi portarti su, al Bianco. E cominci a vedere le cose per cui sei lì e non alla televisione. I piccoli di stambecco, i cristalli del Miage, le incredibili macchie di colore dei fiori che fanno contrasto con il bianco, rosso e nero dei contrafforti del Bianco, le creste e i colli, lassù in alto dove ti sembra impossibile arrivare e che invece vedrai fra due giorni, da molto più in alto… Ottima accoglienza al rifugio, nuovo, bellissimo, stupefacente per la sua modernità.

Mercoled’ 21 agosto
Alle cinque sveglia. Alle sei siamo sul ghiacciaio, iniziano le prove generali, stavolta con la luce. E nonostante la luce, è da subito che non prendiamo la via più corta, allungando, sia pur di poco, il percorso. A quota 3.250 si arriva sul grande crepaccio largo una decina di metri, forse quello dove in tempi passati il gestore teneva una passerella di legno che doveva essere attraversata carponi con 20 metri di vuoto sotto… Ora quella (per fortuna) non c’è più, e noi seguiamo una flebile traccia a destra. Seguiamo sempre qualche traccia, ma a parte entrare in crepi grandi come cattedrali di ghiaccio (ci sembra di essere turisti a passeggio), non troviamo via di uscita. Per forza: naturalmente il crepaccione doveva essere aggirato a sinistra, in lieve discesa, su una traccia ancor più flebile. Eh sì, la via è percorsa, ma i ramponi su neve dura, di notte, non lasciano tracce tanto evidenti… Ritrovata la via di salita entriamo a 3.300 nel vero labirinto critico: una serie di crepi non troppo visibili, ma che ti fanno intuire tutto il loro vuoto, si passano su quei ponti di cui parlava la relazione di 10 giorni prima (“dureranno per poco…”). A 3.350 un altro crepaccio, da solo, ben visibile in tutta la sua sezione a campana, quasi volesse ostentare la sua perfidia ”o vieni qua, ora ti mangio!”. E si è lasciato, a dimostrazione del suo invito, un effimero passaggio, due labbra socchiuse, sottili, ironicamente sorridenti, da saltare pensando, ma soprattutto urlando, le peggiori parole offensive in tutte le lingue (non so chi me l’ha insegnato, ma almeno io credo si debba fare così). Passato. Ora, siamo a 3.500, c’è un risalto prima della zona pianeggiante. Gigi vede la traccia in alto sulla destra, deve essere là, si va a destra. Col cavolo! Un gran crepo, insuperabile, ci dice di no. In direzione frontale c’è un salto di pochi metri molto ripido di ghiaccio vetrato. Esito tanticchia (già, non so come mai, ma da due giorni parliamo in siciliano. Forse perché ci piace, o forse per crearci un alibi in caso d’insuccesso…). Poi provo a salire. Già, ma anche se fosse di qua poi tocca scendere. Nono, troppo ripido, per me, da fare in discesa. Forse il passaggio è a sinistra e poi in qualche modo si attraverserà per andare a destra dove Gigi ha visto la traccia. Sono le nove! Il sole sui crepi! La campana! Il labirinto! Con questi ameni pensieri ci accingiamo, come cenerentole a mezzanotte, a riguadagnare terra. Sempre bello tornare al rifugio, specie col pensiero che il tuo unico dovere è quello di sforzarsi di non fare assolutamente niente… Bello, sensazione inusuale, prospettiva accattivante, soprattutto perché priva di sensi di colpa, anzi supportata da una sensazione di gratitudine da parte dei muscoletti e polmoncini che ti dovranno portare su il giorno dopo… Quasi una missione umanitaria. Non solo. A peggiorare questa ribellione alla routine cittadina c’è anche l’idea che i muscoletti vanno nutriti. E giù carboidrati, pastasciutta, cioccolate a volontà. Altro che due chili di troppo, ne va della sopravvivenza! Gran bel pomeriggio. Ogni ora che passa sembra la migliore di tutta la vacanza. Così dovrebbe essere la vita. E anche per questo si va spesso (mai abbastanza) in montagna. Tanto per fare, senza pensare troppo a ponti effimeri o campane, prima di cena si ripassa un po’ di manovre di recupero “almeno il Mezzo Poldo facciamolo bene…”. E anche qui caro Brenno, l’Istruttore aggiornato, ti saranno fischiate le orecchie! “Brenno dice che si fa così… etc.. etc..”. Poi un ultimo sforzo: lo zaino deve essere perfetto, preparato a puntino (ma come mai tutte le cose dovrebbero stare in cima a portata di mano e bisticciano fra loro perché nessuna vuole andare in fondo?), perché dopo cena subito a nanna e alla partenza neanche un secondo di spreco. La sera il gestore conferma: la zona pianeggiante si raggiunge andando prima a sinistra e poi, camminando su un largo labbro fra due crepi, si raggiunge la traccia a destra. Bene, anche questo tassello è chiuso. Si comincia ad azzardare, l’obiettivo primario del Gonella si è spostato in avanti: sai che? Secondo me almeno al colle delle Aiguille Grises ci si arriva, poi di lì un pezzetto di cresta e siamo al Piton des Italiens. Via, almeno a 4.000 si arriva, poi male male si ringamba sul Gouter. Buonanotte.

Giovedì 22 agosto
Alle 00,00 il telefono espolde la sua carica di sveglia. Quattro ore di sonno perfetto, indimenticabili anche queste, confermate da quel tipo di risveglio in cui non sai dove sei né con chi sei. Ma è un attimo, subito è tutto chiaro, come un lampo. Sincroni e rapidi facciamo colazione, gran cammellata di acqua (saranno mica pochi due litri nello zaino?) e partenza. Con noi c’è solo un’altra cordata che sale, due ragazzi di Roma (bene, ci sentiamo più a nostro agio, con tutti questi nordici). Speravamo ci fosse qualche guida o alcune cordate in più (avranno letto la relazione di Gulliver? Si saranno lasciati intimidire? Forse hanno fatto bene a non venire…?), per avere un po’ di conforto, ma va bene lo stesso, meno male abbiamo visto la via il giorno prima! Alle una meno dieci lasciamo il rifugio. Due occhi gialli di stambecco – “che ci fai tu qui a quest’ora?” (ce lo diciamo reciprocamente) – ci salutano. Lo prendiamo come un augurio. Alle una e venti, legati, iniziamo la salita sul ghiacciaio. Saliamo rapidi sulla via trovata il giorno prima. Usiamo le frontali per vedere meglio i flebili dettagli della traccia, ma una luna piena alle nostre spalle sembra accompagnarci con una mano sulla spalla e dire”andate, che va bene così!”. Andiamo veloci, ma non ci manca il tempo per guardare l’incredibile scenario in cui siamo immersi. Stupiti, ammutoliti dalla bellezza. In poco arriviamo all’attacco dello scivolo che porta al colle delle Aiguille Grises (3.817 m). Una breve sosta (che avrò bevuto un po’ troppo a colazione?), lo si risale facilmente e l’arrivo al colle ci dà una sensazione indimenticabile. Alle quattro e venti, con mezz’ora di anticipo sui tempi previsti, siamo al nostro obiettivo, quello che comunque ci avrebbe permesso di tornare dalla Francia, di scavallare oltre i 4.002 metri del Piton des Italiens. Ora l’obiettivo si sposta, e col Suo permesso, diventa il Bianco. “Si va in cima!”

Ci soffermiamo un momento, vediamo le luci arancioni dei paesi nelle valli, i profili delle montagne, nitidissimi, la salita percorsa, con le sue insidie, la luce del rifugio, laggiù in fondo, l’affilata cresta est di Bionnassay e poi il Bianco, il più vicino alle stelle e alla luna. Non un alito di vento, temperatura perfetta, senza giacca a vento. Felicità. Andiamo. Con Gigi ci alterniamo, a turno, ad andare avanti. Intesa. I ragazzi romani, che fino ad allora ci avevano seguito, ora sono avanti, vanno più veloci, ma non ci dispiace rimanere soli. Soli per poco, perché superata la cresta aerea e sottile, ma in ottime condizioni, che porta al Dome de Gouter, incroceremo il pistone che viene dalla normale francese. Prima del Dome perdiamo un po’ la traccia, superiamo qualche facile crepaccio, e già che ci siamo andiamo in cima al Dome (lo si potrebbe evitare risparmiando un po’ di strada), mentre inizia ad albeggiare. Seconda sosta per un pò di zuccheri. Non c’è vento, ma fa freddo, ci mettiamo la giacca a vento. Ora si vede tutta la cresta che sale in cima, un nastro invitante. E’ punteggiata da una moltitudine di piccoli omini che salgono e scendono, come fosse il Rondinaio. Ma non lo è. Eppure stiamo bene, benissimo, a 4.300, senza neanche un filo di mal di testa. Mah… Andiamo. Si arriva alla Vallot, che scopriamo essere tre edifici – ma quale sarà il rifugio? Dai racconti che la descrivono come un immondezzaio non siamo incuriositi di andarla a vedere. E’ l’alba, la cresta delle Bosses si illumina. E ci risucchia in su. Andiamo. A 4.500, finalmente, arriva il fiatone, il passo rallenta, lento ma implacabile, le soste solo per le foto. Ma niente mal di testa, né io né Gigi. Uguali, intesa anche in questo. Un signore, solo, comincia a seguirci da vicino, forse vuole stare al nostro passo. Poi, quando la cresta si fa più affilata e ripida ci chiede di legarsi a noi. Volentieri! E’ un francese di 62 anni, che aveva fatto il Bianco da giovane, ma passando prima dall’Aiguille du Bionnassay e facendo poi Maudit e Tacul (!) e ora lo risaliva dal Gouter per vedere come si trovava…

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Ore 8,45. Vetta. Calpestiamo con un senso di doveroso rispetto i 4.810 metri. Stringo la mano al signore francese, ci abbracciamo con Gigi. Piango. Non credevo che mi sarei commosso, ma mi è successo. E non me ne vergogno. Stiamo mezz’ora in cima. Senza parole. Fa freddo, nonostante il sole.

Andiamo, la discesa non sarà breve. Dopo poco, verso il colle della Brenva, altra sosta, ci spogliamo, ora sì che fa caldo, beviamo e mangiamo, ce la prendiamo con calma, senza correre, con un senso di doloroso distacco dalla vetta. Incontriamo ancora diverse cordate che salgono dai Cosmiques. In una di loro un ragazzino. Gli chiedo quanti anni ha. Dodici. Complimenti e auguri. Arrivati al colle del Maudit, si presenta un bello scivolo ripido da fare in discesa, con neve che si alterna fra marcia e ghiaccio vetrato. Tocca fare due doppie su spuntoni già attrezzati con cordini e maglie rapide. Perdiamo un po’ di tempo. Finite le doppie c’è la crepaccia terminale, preceduta da un muro verticale di un paio di metri, che Gigi supera con disinvoltura. Banale, penso nel vederlo. Già, ma come è molle questa neve… dove diavolo la ficco la piccozza? E sotto c’è il buco. Gigi è passato, e senza tanti problemi. Quindi devo andare. Esito. Minchiabbottana, mi sento disinvolto come una foca. Ma Gigi è passato… Vado, rassicurato dai suoi consigli. Passo, bene o male, e poi si prosegue, ora spediti, verso il Tacul. Spediti un corno, anche qui una breve risalitina ci taglia un po’ (anzi parecchio) fiato e gambe. Il Tacul si scende velocemente, guardando stupiti i seracchi grandi come palazzine che incombono su di noi. “da lì si deve essere staccato quello di un mese fa…” Ci siamo proprio sotto. Non mi fa paura. Neanche un po’. Non è l’imponderabile che mi fa paura. Un grande seracco, che cade ogni tanti anni, se ti travolge vuol dire che era scritto così. Non è la stessa cosa del canale che scarica sempre quando è più caldo: quello sì, lo puoi, e devi, evitare. Sul canale parallelo alla via di salita al Tacul notiamo delle belle firme di sci – “che ci sia passato Carlo?”- Arriviamo in fondo alla discesa alle 14,30, dobbiamo attraversare il plateau e risalire alle Aiguille du Midi, fa un caldo cane, e sappiamo che questo sarà il momento più duro. Infatti. Più duro attraversare il plateau che risalire i 250 metri per la funivia… Ormai alla salita ci siamo abituati, ma la pianura no, quella non si sopporta!

Vediamo sopra di noi gli ovetti che portano verso Courmayeur, magari ce la facciamo, così si evita di andare a Chamonix. Alle 16,00 ci togliamo i ramponi, e apprendiamo che alle 15,50 c’era l’ultima corsa per Courmayeur. Pazienza, vorrà dire che prendiamo u’ ferryboat per Cham. Del resto si prova un sottile piacere a scendere su Cham, si ha quasi la sensazione che la traversata sia più completa… S’è fatto il girotondo! “Alle diciotto c’è l’ultima navetta che porta a Courmayeur e parte dalla stazione, pochi passi dall’arrivo della funivia”, aveva detto Eriberto. Infatti. Torna tutto, come sempre. Pochi passi una mazza! Questi sì che pesano, sull’asfalto! Una quarantina di minuti sulla panchina della stazione passano in un secondo, con un’ottima birra, e il panino che il grande Gigi ha portato per un bel po’ di metri di dislivello… Facciamo il conto: 1.370 per il rifugio, 500 il secondo giorno, 2.192 il terzo, dice l’altimetro di Gigi che calcola i saliscendi. Più tutte le scalette della funivia! Le più terribili.

Venerd’ 23 agosto
Con un litro di birra da smaltire e dieci ore di sonno, si torna a casa. Davvero riposati, soddisfatti è dire poco, felici. E il mal di testa? Mai! Strano, meglio così. Il viaggio vola in un attimo, mentre ripercorriamo i due giorni passati e, come due tossicodipendenti, facciamo programmi futuri. Non solo il viaggio, ma vola in un attimo anche il gasolio, che finisce puntualmente mentre imbocchiamo l’uscita per l’area di servizio. Arriviamo a motore spento, per inerzia, esattamente davanti alla pompa. No comment. Non me ne vanto, anzi mi sento un bischero, ma tant’è, prendiamola come una confessione. Cercherò di non farlo più. E comunque, quando deve andare bene, deve andare bene!

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