Una normale poco normale di Roberto Masoni

(www.chamonixtopo.com) Foto aerea del Monte Bianco
(www.chamonixtopo.com) Foto aerea del Monte Bianco

Annuario 2013 – Storia di un tentativo fallito al Monte Bianco

La bravura quando non si fonda sulla base della prudenza, si chiama temerarietà, e le prodezze del temerario più si attribuiscono alla buona fortuna che al suo coraggio. (Miguel de Cervantes (Don Chisciotte)

Il mio incontro con Cristophe Profit risale alla fine degli anni ’80. Anni per me meravigliosi, straordinari, sparsi di ricordi che si accavallano, di immagini che si sovrappongono. Anni contrassegnati dal trionfo della Montagna senza calcolo e, purtroppo, anche dal trionfo di una stupida esaltazione del pericolo nata dall’insulsa convinzione di essere baciati dall’audacia dei forti pur non essendolo. Anni minati, peraltro, da un tarlo che logorava l’energie delle nostre teste. Teste matte alle quali la presenza di quel tarlo non faceva certo bene. Tant’è che senza pietà e senza alcuna umanità scavava, giorno dopo giorno, alla radice dell’inconfessabile sogno di raggiungere la cima del Bianco.

Perché il Bianco?
Che domanda, come perché … perché era, ed è ancora, un simbolo perdiana. Personalmente non m’importava molto aver già raggiunto altre cime per me impegnative e che solo il caso, se solo lo avessi capito, me lo avesse permesso, ma perché era la montagna più alta d’Europa (così almeno ci era dato sapere), perché qualunque alpinista, o tale fosse convinto di essere, non poteva non aver calpestato la cima del Bianco. In buona sostanza perché il Bianco era il Bianco, inutile farla lunga, bastava e avanzava. Un sogno che aveva assunto un sapore dal gusto darwiniano peraltro sapientemente mascherato: “ragazzi, chi ce la fa bene, chi non ce la fa cavoli sua”. Non importava come, non importava perché, né da dove, importava solo il Bianco, era diventato l’unico obiettivo che contava. Un sogno infantile, certo, ma in quel particolare momento significava molto. Avevo già girato il Massiccio in lungo e in largo con gli sci ai piedi, un paio di Vittor Tua Excalibur ai quali aggiungere gli scarponi San Marco forniti di ghetta incorporata, praticamente il meglio in circolazione. Tante avventure autentiche ma il Bianco no, quello ancora no.

Capirò in seguito che l’intima soddisfazione di raggiungere una cima non è legata alla quota o alla sua notorietà ma soprattutto al suo valore storico, tecnico e in subordine, ma sì … anche alla sua bellezza. Non abitava ancora in me quel sapiente, impalpabile compagno di avventura, arrivato con gli anni della maturità, la cui flebile voce avrebbe potuto suggerirmi in quegli anni: “pedala ragazzo, pedala … ma ricordati che la superbia non basta, più che l’audacia conta la testa”. Eccome se aveva ragione e non è nemmeno tutto, la misura non era ancora colma. Il tarlo di cui parlavo non era solitario, infatti non era un verme. Non era l’unico a girare nei sensi unici del nostro cervello, purtroppo ve n’era un altro ben più astuto e, cosa di per se pericolosissima, era di natura congenita. Fu questo secondo tarlo a far cadere la scelta sul versante francese che si affaccia a Saint Gervais les Bains, il versante più pericoloso. Ovvio.

Ripensandoci credo che avessimo il peggior atteggiamento possibile, salire il Bianco era diventata una sorta di guerra e noi, poveri illusi, eravamo così convinti di vincerla la nostra guerra! Non fu così ma non tornai sconfitto, imparai la lezione, la Montagna non fu più una rivale, non fu più strumento del mio protagonismo. Divenne più semplicemente lo specchio dove conoscermi, conoscere e riconoscersi, dove entusiasmarsi dalla grazia e dall’armonia delle forme, dove concedersi con animo sereno alle difficoltà della parete affondando per sempre le proprie smanie e le proprie inquietudini. Forse anche le proprie debolezze? Mah, forse sì ma chi se ne frega. Tanto più che non esiste caso migliore per affermare che l’eccezione non conferma la regola … ma questo è un altro discorso, un discorso che probabilmente riguarda tutta l’allegra combriccola degli alpinisti e che magari possiamo riprendere in un’altra occasione.

ll Bianco mi respinse con eleganza, quasi non avesse voluto spingere più di tanto sull’accelleratore per non demolire le mie primitive sicurezze. Fu magnanimo, non mi fece salire sulla sua cima ma mi permise di conoscere Cristophe Profit. La cima sarebbe arrivata poco tempo dopo e il mio tarlo ebbe finalmente pace. L’altro no, quello congenito, quello della grullaia, è ancora lì. Ogni tanto fa ancora capolino a dispetto dell’età, degli acciacchi e delle ormai radicate convinzioni.

Roberto (il primo a destra) all'Ancien Refuge de la Tete Rousse
Roberto (il primo a destra) all’Ancien Refuge de la Tete Rousse (foto archivio R. Masoni)

La via del versante in questione è più comunemente chiamata la via del “Grand Couloir”. Un couloir maledetto che scarica continuamente sassi, maledetto perché ogni anno si prende qualcuno. Partimmo in quattro, molto prima dell’alba come manuale richiede. Sbarcammo a Les Houches dalla mitica Opel Kadett, marrone scuro metallizzato, per prendere, di corsa, la funivia di Bellevue e quindi il trenino a gremagliera fino a Nid d’Agle, ultima, gratificante tappa per i turisti. Al massimo qualcuno rientra a piedi attraverso il Ghiacciaio di Bionassay. C’era tanta gente, chi andava, chi veniva. Da questo minuscolo avamposto, che comunque vale la pena di vedere, termina il mondo visto attraverso il mirino di una macchina fotografica e comincia quello del sogno. Il tempo non era granchè, andava lentamente cambiando, il sole stava velocemente lasciando spazio alle nuvole. Alla vecchia Cabanne du Rognes già nevicava, a quello della Tete Rousse, 800 mt. di dislivello sopra il Nid d’Aigle, arrivammo nelle prime ore del pomeriggio. Il vecchio Tete Rousse per intendersi, quello in legno, quello vero. Quello nuovo é, piú o meno, un sudicio labirinto celebrato per la spazialità delle forme, trovare la tua branda è peggio di una caccia al tesoro. Mangiammo qualcosa, una brodaglia qualsiasi, poi di nuovo in marcia verso il Grand Couloir. Ci arrivammo che nevicava forte, c’erano sei, sette alpinisti in fila indiana, mi chiesi perché mai. Ci misi poco a comprenderne le ragioni, aspettavano il momento propizio per spiccare il volo e attraversare i cinquanta metri del canale. Quando fu il mio turno così feci anch’io, mi fermai al di là del canale, in territorio sicuro, col fiatone, con l’odore di zolfo nelle narici, con un rampone sganciato. Ma era andata e questo contava!

Da qui uno sperone di roccia attrezzato con qualche corda fissa (Andrè Contamine, Pierre Labrunie, Michel Vaucher il 7 giugno 1957) ci portò fino al Refuge du Gouter. L’ancien refuge del Dome, per intendersi, quello vero, altri 700 mt di dislivello. A metà pilastro trovammo un ragazzo spagnolo in difficoltà:
“Como estas?”
“No bien”
“Quieres que te traemos abajo?”
“No gracias …”
”Bon, adios”.
Non insistemmo più di tanto, Darwin danzava voluttuosamente nella nostra materia grigia. La voce del Bianco portata dal vento era troppo forte per lasciare spazio a quella della solidarietà, vinse la voce dell’egoismo, ancora oggi me ne vergogno. Era buio pesto quando arrivammo al Rifugio, nevicava come Dio la mandava, porca put … Entrammo dentro, a sinistra un locale con cuccette riservate alle sole Guide e ai loro clienti, a destra un ampio spazio con tavoli, in fondo a sinistra un locale per i fornelletti a gas. Tutto qui. Un bicchiere di the, grazie, 20 franchi, alla faccia … porca put … 2.

Mangiammo qualcosa tirato fuori dai nostri zaini. Poi, verso le otto, come un ordine dato da una invisibile plancia di comando, scoppiò … il finimondo. Gente che correva in ogni direzione, chi metteva la propria roba sui tavoli liberati da piatti e bicchieri. Trenta secondi. Trenta lunghi secondi mi ci vollero per capire cosa stava succedendo. Pagammo l’inesperienza, ci rimase solo un piccolo spazio accanto alla porta del rifugio. Tirammo fuori i nostri tecnici sacchi a pelo (quelli usati la settimana prima a Baratti) e ci mettemmo lì, per terra, sperando di prendere sonno, aspettando con l’ansia che ci scorreva nelle vene il momento fatidico della partenza. Ovviamente non dormii, la testa faceva troppo male ed era notte quando qualcuno entrò nel rifugio, un uomo e una donna, dei quali vedevo solo la luce delle frontali. Si sedettero a terra accanto a me, parlavano francese, alzavo ogni tanto gli occhi, la ragazza era giovane, mi parve bella, molto bella. Ma poiché ognuno ha i suoi difetti, il suo era quello di non smettere un attimo di parlare. Passarono lunghi minuti, quasi un giro completo del quadrante, alla fine mi tirai su e mi rivolsi loro stizzito con un improbabile “Monsieur, s’il Vous plait, potete fare en pè de silans?”. “Qui, je suis désolé” mi disse l’uomo, si alzarono e si misero qualche metro più avanti vicino alla porta del rifugio.

Ma ormai era andata. Mi alzai e “andai in bagno” per quello che può essere un bagno a 4.000 metri di quota. Due cabine all’esterno del rifugio, stile Lido di Camaiore, messe sull’orlo del Gran Couloir. Nel mezzo del pavimento un buco esasperatamente circolare nel legno di dimensioni nemmeno contenute. Mi venne in mente l’attraversamento del Grand Couloir, pensai se negli anni qualcuno avesse mai preso in testa … ehm … qualcosa di organico, comunque duro. Rientrando mi fermai sull’uscio del rifugio pregando i due francesi di scusarmi per i bruschi modi dovuti alla tensione. Ma, ma … tu sei Cristophe n’est pas?. “Qui, je suis Cristophe”. “Non è possibile …“. Ci mettemmo a parlare, Cristophe non aveva ancora trent’anni ma era già considerato un mostro sacro dell’alpinismo. Già nel 1982 aveva stupito il mondo salendo la Diretta Americana al Dru in poco più di tre ore, free solo. Solo qualche anno dopo, nel 1985, aveva realizzato qualcosa di straordinario per i tempi, il concatenamento delle tre grandi pareti nord delle Alpi: Cervino, Eiger e Grandes Jorasses. In solitaria naturalmente e in sole 24 ore. Non aveva niente di esagerato, forse questa era la sua dote più grande perché i “grandi”, quelli veri, sono così.

Arrivarono le due di mattina, mettemmo fuori il naso. Niente da fare, forse solo un paio di metri di visibilità. Aspettammo fino alle tre parlando del più e del meno poi Cristophe ebbe un gesto improvviso, si alzò e cominciò a prepararsi, aveva deciso che le ore passate a chiacchierare erano troppe e si mise in moto. Disse: “Aspettatemi qua vado a vedere se è il caso …”.
Posso venire anch’io?“. Mi guardò con meraviglia, sicuramente non se l’aspettava, avrà pensato “Questo è scemo, dove vuole andare …”. Tuttavia rispose educatamente: “Qui, bien sure” allargando occhi e braccia come a dire “si però ognuno fa da balia a se stesso …”. Capirò in seguito il perché di quella sua espressione meravigliata. Certo devo essergli sembrato un misto fra il tipo da spiaggia e l’idiota di turno che prima o poi si fa male. Il bello è che aveva anche ragione ma io non lo sapevo. Anche l’attrezzatura non era granchè. Un piumino (tale sembrava) blu notte, mi pare marca Gigi Rizzi, vinto l’inverno prima a Livigno in occasione di una buffonata che avevano chiamato “gara master di slalom gigante”. Sovrapantaloni Anorak viola, buoni forse in primavera per andare al lavoro in motorino, piccozza e ramponi rossi (!) di marca sconosciuta, zaino di cui non ricordo la marca ma con la particolarità del Thermorest incorporato (mai tirato fuori altrimenti era impossibile rimetterlo dentro la propria custodia), scarpone Koflak in plastica giallo/verde fosforescente. Completava il tutto una papalina bianca con ricamo del tricolore sul retro.

La via al Bianco iniziava proprio dietro al rifugio (oggi c’è quello nuovo). Pochi passi e fummo sul ghiacciaio dove appoggiava letteralmente la parete posteriore del rifugio. Salimmo un pò, c’è subito un tratto non molto lungo abbastanza agevole, senza molta pendenza. Al termine di questo tratto inizia la salita al Dome che dopo lo scollino scende alla Vallot, una sorta di gigantesco “ribei” per raggiungere la cima del Bianco. Non c’era traccia, alcuna pedata, la neve aveva ricoperto tutto. Dopo dieci minuti già m’aveva perso, nel senso che lui andava ai suoi ritmi (cioè come l‘Italo), io ai miei (cioè come l’accellerato Arezzo-Firenze). Andai avanti ancora un po’, alla fine mi inginocchiai, per un attimo pensai che il mondo finisse lì, pensai che forse era giunto il momento di dire una preghiera. Vedevo solo il fascio di luce della frontale che tentava di perforare un parete grigia, che fosse la porta del Paradiso? No … era l’anticamera dell’Inferno. Per un attimo mi balenò l’idea di morire lì. In fin dei conti sarei morto dove volevo, senza soffrire granchè, sul groppone del Bianco senza neppure solleticargli le spalle. Sarebbe stata una buona morte. Non si vedeva niente, il vento soffiava senza interruzioni, ero una maschera di neve tremante. Passarono lunghi minuti poi finalmente un fantasma uscì dalla nebbia come uno che passeggia lungo il Viale dei Colli in una tiepida serata primaverile: “C’est pas possible, il faut descendre”. Finalmente un po’ di sollievo, finalmente si tornava indietro, finalmente l’incubo era finito.

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Quella mattina scendendo dal Refuge del Gouter (foto R. Masoni)

Rientrammo al Refuge du Gouter, erano tutti ancora lì. Cristophe concluse che era giunto il momento di scendere, curò l’attrezzatura della sua amica e scese dopo avermi salutato con un sorriso di compassione: “Bonne chance mon amis”, “bonne chance a toi Cristophe, merçi”. Lo vidi sparire velocemente sotto il ballatoio di ferro. Per qualche minuto sentii solo la voce della sua amica. La sensazione si era trasformata in certezza, era stato veramente un piacere osservarne la bellezza, purtroppo però il motore si era rimesso in moto. Aspettammo fino alle sette di mattina, bevemmo un caffè gigante annacquato con il Pastis prima di decidere, a nostra volta, di scendere. Al Nid d’Aigle venne fuori uno splendido sole, la delusione bruciava nelle vene ma il tempo era scaduto, il Bianco doveva aspettare. Scendemmo a Chamonix, mangiammo qualcosa di decente. Facemmo visita alla palazzina che al centro di Chamonix vendeva Anorak, un magazzino più che un negozio, oggi non c’è più. Entrammo in un bar e bevemmo una pinta di birra ciascuno. Quando fu il momento di pagare sbagliammo qualcosa. Anziché pagare ci portarono una nuova pinta di birra ciascuno. “Meno male c’è chi parla bene il francese …”, “Roberto che facciamo?”, “Che facciamo … che vuoi fare cogl…, ce le beviamo, forza …”

Uscimmo fuori con due birre giganti sul groppone. Una coppia camminava lenta davanti a noi. Lei pareva bella, alta, snella, una bella silouette, capelli lunghi, biondi.
Bella eh?”
“Guarda Roberto che è un uomo”
“Non ci posso credere … ”
“Te l’assicuro”
“Meglio se guidi te … “.
Salimmo sulla Kadett destinazione Firenze dove arrivammo a notte fonda.

Passai quell’agosto sul Brenta, qualche via di roccia, tante ferrate, tante camminate. Un paio di mesi dopo raggiunsi la cima del Bianco. Mi misi a sedere, guardai il panorama che era di una bellezza straordinaria, guardai la luce del sole attraverso gli occhiali, lì sì che sarebbe stato bello morire. A sedere su quella cima, che poteva benissimo essere anonima se non fosse stata quella del Bianco, ripensai al mio incontro con Profit, per il resto non provai niente. Mi sarei aspettato qualcosa di più ma forse l’attesa aveva consumato il piacere. Dopo una diecina di minuti mi avviai solitario sulla via del ritorno in direzione di Cham, cominciai a scendere velocemente e, come un drogato, cominciai a pensare ad altre cime, ad altre avventure.

Tornando indietro e ripensando volutamente, a questo episodio non posso fare meno, al di là delle considerazioni, di riflettere su ciò che può insegnare soprattutto alle nuove generazioni. Certo un aspetto negativo riguarda l’attrezzatura ma non è questo l’aspetto più importante perché riflette in subordine l’altro ben più rilevante e cioè quello psicologico. Quell’esperienza mi insegnò che non era poi così difficile trovare la giusta dimensione di se stessi e, soprattutto, mi aiutò a non imbarcarmi, in futuro, in situazioni improvvisate e, il più delle volte, affidate al caso. Mi insegnò che in alpinismo occorre preparazione, conoscenza tecnica e, soprattutto, il rispetto delle difficoltà, di qualunque tipo. Mi fece capire quanto fosse sbagliato ascoltare il richiamo della Montagna solo per combattere la noia della routine quotidiana, come se il tempo non bastasse mai, come se ogni volta fosse l’ultima, come se la smania di conquista fosse al centro di ogni pensiero. Ancora oggi mi è rimasta la voglia di avventura, non si è sopita, ma vedo la Montagna in modo diverso. Certo è rimasta la passione allo stato puro, identica a quella di allora, ma è diventata nell’arco degli anni uno splendido terreno d’avventura dove andare alla ricerca del nuovo purchè consapevolmente. Questo mi permette di vivere ancora oggi forti sensazioni, soprattutto quelle provenienti dall’azione ma anche quelle che lasciano assaporare, nella consapevolezza di me stesso, quella libertà, a lungo cercata, che cancella tutte le inquietudini e aiuta a godere maggiormente le meraviglie che la Montagna ci offre. Grazie Montagna.

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