Burraia Ninetta – Alla ricerca del territorio

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di Giovanni Modderno, Aldo Pentericci, Luciana Bigliazzi

Qualche tempo fa, e precisamente il 25 gennaio 2009, tramite l‘amico Giorgio Meacci, amante della natura e dei cavalli, venimmo a conoscenza della presenza sulle colline di Pontassieve di un rudere di una antica burraia.

La curiosità e la passione per il nostro territorio ci portarono immediatamente a muovere i nostri passi in direzione della località Cascina delle Colline dove la burraia (denominata anche “la fonte” per la ricchezza delle acque presenti) era situata. Giunti sul luogo, ciò che apparve ai nostri occhi non fu certo entusiasmante: i resti della burraia erano praticamente sommersi da rovi e grovigli di piante che di fatto ne impedivano la visione e la possibilità di accesso.

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La burraia Ninetta

Consapevoli che la storia di un luogo, di un paese, di una comunità, passa anche (e forse, soprattutto) attraverso le testimonianze del lavoro dell’uomo, della sua vita, della sua quotidianità così intimamente connessi, tutti, fino a qualche decennio fa alla terra, sorse in noi immediato l’ardente desiderio di riportare la burraia a nuova vita, nella consapevolezza che il suo recupero avrebbe significato riappropriarsi di un tassello della nostra storia. Nove mesi dopo, il 25 settembre, previo consenso della fattoria di Grignano proprietaria della zona, prese avvio l’opera di recupero dell’antica burraia ad iniziare da una ripulitura generale per poter garantire l’accesso a ciò che restava della piccola costruzione. Molti i volontari che si dettero da fare, chi a liberarla dai rovi e dalle piante, chi a risistemarne con diluenti, sverniciatori ed impregnanti la vecchia porta di accesso; chi infine attese alla ripulitura dei sentieri e alla segnaletica. Tante le ore di lavoro di Giovanni, Aldo, Paolo, Giorgio, Mauro, Tommaso, Johanna, Stefano e molti altri ancora, i quali, nel corso di due anni, oltre a porre in essere i primi indispensabili interventi, si dettero da fare per ricercare le vecchie condutture dell’acqua, ripulire le vasche, costruire una staccionata per sicurezza dei futuri visitatori.

Oggi l’antica burraia si mostra rimessa a nuovo, e con orgoglio si presenta ai suoi visitatori riportandoli indietro in un tempo in cui essa costituiva parte attiva della vita della gente dei campi la quale, fra le sue fresche ed umide mura, lavorava il burro, elemento di commercio e indispensabile sostentamento di una cucina che solo con parsimonia ricorreva al prezioso olio d’oliva limitandone solitamente l’uso ad un misurato “c”.

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Ad ingentilire l’immagine della vecchia struttura, sulla pietra che protettrice l’avvolge, una mano di tempo fa, ha lasciato una traccia gentile, incidendovi un affettuoso vezzeggiativo di nome femminile, “Ninetta”, ed una data, 1868.

Anna Maria Cavicchi racconta

Un interessantissimo incontro è avvenuto in questo aprile 2013 con Anna Maria Cavicchi, una garbata signora di Molin del Piano che fino a qualche decennio fa ha abitato nel podere sede della nostra burraia. A questo appuntamento mi sono recato con Luciana ed insieme ci siamo lasciati trasportare dal racconto di Anna Maria che parlandoci della sua vita di bambina, ci ha descritto un territorio ricco di boschi, prati, campi di grano, rettangoli di terra dedicati a patate e fagioli; e se pochi erano gli alberi da frutto, non mancavano bovini, pecore e maiali, alloggiati questi ultimi, ci dice Anna Maria, in una struttura oggi recuperata ad abitazione civile. Luciana ha preso nota di tutto, mentre il ricordo di Anna Maria percorreva i terribili anni della guerra che in queste campagne furono duri e difficili per il passaggio delle truppe tedesche in ritirata. Ricordi legati al nonno (Anna Maria era molto piccola all’epoca, ma tutto è vivo nella sua memoria) morto sotto un bombardamento; sfollati, donne, bambini, anziani, con gli uomini nei boschi per paura dei rastrellamenti. Le donne, quelle grandi donne della sua casa, la mamma e la nonna, che di notte facevano il pane per i partigiani che bussavano affamati alla loro porta; e l’acqua per dissetarsi, innegabile a nessuno, costretti ad attingerla sotto la violenza delle cannonate. Una vita difficile, anche da dimenticare, per una bambina di pochi anni; una vita però che Anna Maria ci ha ricordato anche serena nella sua famiglia contadina, dedita con fatica, ma anche con passione al lavoro dei campi.

La famiglia di Anna Maria era infatti una famiglia mezzadrile dei Gondi che nella zona possedevano gran numero di poderi con relative vaste abitazioni ed annessi, le prime atte ad accogliere i numerosi membri delle famiglie di allora, i secondi per dar riparo a fieno ed animali, cuocere il pane, conservare il vino, lavorare il latte e fare il burro. Conosciamo tutti quanto fossero organizzate, nel contesto del sistema mezzadrile le famiglie coloniche, impegnate a trar frutto da ogni attività che la terra e gli animali potevano offrire. I contadini toscani, uomini, donne e persino fanciulli, non rimanevano mai inoperosi, ben consapevoli che dal lavoro delle loro braccia ne derivava anche per essi, oltre che per il padrone, beneficio. Anche Anna Maria ci ha raccontato delle tante ore trascorse durante la sua fanciullezza a custodire i maiali.

Il suo ricordo si spinge al tempo di quando bimbetta di soli cinque anni assisteva a ciò che avveniva in una stanza al piano terreno della sua casa, ben pulita ed imbiancata, nella quale i suoi familiari, dopo la mungitura, lavoravano il latte e lo trasformavano in profumate forme di formaggio, oppure scremendolo ponevano la panna ricavata in lindi catini. Questa panna, ha proseguito Anna Maria, facendoci quasi assaporare la benevolenza di un odore antico, era poi posta nelle zangole, dove grazie al freddo dell’acqua essa si coagulava in candide palle che venivano poi condotte, una volta alla settimana, alla nostra burraia. Qui, ripassando dalla gelida acqua della prima vasca a quella altrettanto fredda della seconda, la bianca sostanza veniva facilmente lavorata (“non si attaccava più alle mani”, ci ha detto Anna Maria) e ridotta in panetti; ad uno ad uno questi venivano pesati su una apposita stadera di cui la burraia era dotata e posti successivamente in formine di legno recanti il simbolo della fattoria.

I panetti di burro, solitamente di un etto ciascuno, prima di essere estratti dalle formine per essere posti in una piccola vasca di acqua pulita, erano livellati in modo da renderne la superficie pareggiata ed uniforme. Lasciati così in ammollo per un intero giorno, i panetti, ritirati poi dalla vaschetta, mostrando il loro marchio ben impresso, venivano incartati in carta apposita e condotti sui carretti in fattoria, protetti dalle foglie dei castagni. Anna Maria ci ha poi detto che dall’inizio degli anni ’50, il burro non è stato più fatto nella vecchia burraia: questa ha finito così per perdere progressivamente la sua funzione, limitandosi a fornire soltanto acqua fresca di sorgente alla gente del posto.

Questa è la storia del burro che ci ha raccontato Anna Maria che non potremo mai ringraziare abbastanza per i suoi ricordi e la sua testimonianza di vita. Una vita vissuta sulle nostre colline attorno a Pontassieve; vita di lavoro, di fatica, di rinunce; ma una vita senza dubbio ricca per quella simbiosi, ormai persa, fra l’uomo e la terra, fatta di rispetto, d’amore, di sudore; vita ricca però, raccontata ai più piccoli nel “canto del fuoco” durante le lunghe sere dell’inverno al lume di candela. Anna Maria e la sua famiglia se ne sono venuti via dal podere delle Colline nel 1958: nella vecchia casa colonica che a lungo li aveva accolti, mancava la luce elettrica.

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Anna Maria Cavicchi

UNA PAGINA DI STORIA

Del formaggio e del burro Dalla “Coltivazione toscana” di Vitale Magazzini, Monaco Vallombrosano, sec. XVI-XVII

… Si fa cacio e ricotte di tutte le sorti. Auuertendo il cacio di Vald’elsa, e Val di Pesa, che si chiama Marzolino, che la donna, che lo preme sia fresca di mani, e non faccia erba, e si rappigli co’l fiore di Cardo, e non con caglio, ò ventrucci. E sono alcune erbe come i Curiandoli Saluatichi, l’aristolocchia che chiamano starloggio, e gicheri, e aglietti Saluatichi, che lo fanno gonfiare, e’nforzare. Così anco le pasture siano di buon’erbe fresche, e odrifere. Come palei, gramigne, lupini salutatichi, Sermollini, e Citiso; non di fiori di ginestra, o mastreselue, e titimali, che fann gonfiare, e guastare il cacio.

Se tenghino tutti i caci in una stanza asciutta, e fresca, oue non sia puzzore, o odore troppo acuto, in pezze line pulite: i marzolini riuoltandoli spesso, e le forme in su l’asse riuoltandole, e fregandole con le mani unte di buon’olio, le caiuole, & cacetti in su la pagli sfienata, e grossa.

Et come tutti li caci cominciano à fare la pelle, e scorza di fuori alquanto sodetta, s’unga con mano (com’è detto) di buon’olio, e riuoltandolo insino à che sia assodato alquanto. All’ora si metta in orci, ò dogli fatti perciò à posta con olio, à sufficienza, & ogni giorno, o due al pìù si ruotoli, e riuolti. Et oue sia abbondanza di ricotte, si seccano anche’elleno, e son buone. Ma meglio fare un ottimo e dleicato burro, se bene fussero forti. Si mettino dunque le ricotte in un mortaio, & si pestino bene, e lungamente, che la ricotta diuenga come unguento finissimo. E così diuenuta, vi si docci su acqua fresca à poco, à poco, rimenandola pure, che la parte più leggieri e sottile, facendo separazione dalla grossa, e dal siero, verrà a galla, & quella si ricolga con una mestola, che sarà una cosa bianchissima spumosa, & gittato via il siero, e acqua, che serue per il porco si ritorni nel mortaio la meteria raccolta, & si meni benissimo co’l pestello, e rinfrescandola d’acqua, dimano in mano mutandola tanto, che s’assodi, haurete un butiro bianchissimo, e delicato, eccelente …

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