Che bello il mio Casentino di Adolfo Ciucchi

Montemignaio - Secchieta 061Annuario 2013

Fino a pochi anni fa io conoscevo del Casentino solo quello che si può vedere dalle strade percorse in auto. Se si tolgono, in età adolescenziale, un paio di battute di pesca alla trota nello Staggia, con poco risultato e preso in giro dai pescatori del luogo, e una splendida alba vista dal Monte Falco, oltre alle visite canoniche alla Verna e a Camaldoli, si può dire che fossi completamente ignorante per quello che riguardava il Casentino.

Ora che faccio parte da diversi anni del Gruppo Trekking Namasté di Montemignaio, posso dire che ho incominciato a conoscere un altro Casentino, ma di fatto è sempre l’unico, fatto di boschi, di monti e soprattutto di acque. Senza nulla togliere alla storia che questa valle racchiude, ai suoi monumenti, le sue cittadine, ai suoi fari della cristianità, io sono convinto che la sua vera bellezza sia da ricercarsi nella sua natura. Una natura, la storia anche recente ci insegna, che non ha mai concesso nulla gratuitamente ma che ha richiesto sacrifici per ottenere quel poco che una volta bastava per sopravvivere e ora, giustamente o meno, non basta più. Una natura, a volte crudele, che ha saputo però forgiare gente dura e tenace che pure in mezzo a molti bisogni ha saputo creare cose mirabili. Mi riferisco al convento della Verna che con la sua fede porta avanti la lezione di Francesco o a Camaldoli che col suo Eremo ha saputo coniugare il misticismo di una vita vissuta quasi da eremiti con la cura e la valorizzazione delle potenzialità boschive creando col tempo quello che è il fulcro delle Foreste Casentinesi. E poi come non parlare di Bibbiena e Poppi, intrise di storia, posti in cui sembra ancora di rivivere l’antica rivalità tra Guelfi e Ghibellini. Ora le macchine sfrecciano forte sulla piana di Campaldino, ma il cozzare delle spade, il galoppo dei cavalli, il lamento dei feriti in quel giorno afoso del giugno del 1289, ancora colpisce l’immaginario, anche questo è il Casentino.

Ma io, camminando con il mio Gruppo, ho scoperto il Casentino nei suoi boschi, nei suoi silenzi, nelle sue acque. Abbiamo camminato su un bel po’ di sentieri e visto diversi monti e sono sempre diversi e affascinanti a secondo delle varie stagioni. La tavolozza della primavera si riempie di mille toni di verde e i fiori che ingentiliscono le radure e i prati sembrano gocce di colore lasciati cadere da un pittore maldestro. Intorno a noi, se sei nel bosco a primavera, gli alberi fanno a gara a crescere per conquistare un posto al sole che è la loro e la nostra vita, quante cose ci uniscono. Tutto è in movimento, foglie, erba, fiori, animali e tutti si danno da fare.

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E noi, io, che camminiamo in mezzo a tanta bellezza, a volte attenti e partecipi, il più delle volte disattenti tanto che diamo tutto ciò per scontato.

Con l’estate, ancora più bello, le cose sono più mature. Le foglie, brillanti nella loro veste nuova e tutte spalancate verso i raggi del sole fanno ombra alle piante rimaste giù ma senza malizia. Il sentiero è asciutto, non ci sono le acquaie primaverili, il passo è leggero e senza che ci se ne renda conto tutto dentro di noi si apre a questa natura e ne trae beneficio.

Poi viene l’autunno, che splendida stagione, allora veramente sono stati chiamati i pittori più bravi perché i colori che formano il bosco sono tanti e tutti belli. Il verde, che resiste per onor di firma, lascia il posto ai rossi, ai gialli squillanti e ai marroni, che come un’orchestra ben diretta fanno del bosco una sinfonia che allietala vista e l’animo. E il bosco prima di addormentarsi nelle braccia dell’inverno ci dona i suoi frutti più prelibati. Camminare nell’autunno inoltrato in una faggeta, i boschi del Casentino ne sono pieni, è una esperienza trascendentale. Forse ci si accorge che è bello ma non si capisce fino in fondo il significato di quello che stiamo vedendo. Per me il tappeto rosso sotto gli alberi spogli assomiglia al sangue versato in un sacrificio cruento allo scopo di propiziare la prossima e certa rinascita che avverrà a primavera.

E che dire dell’inverno, quando il Casentino si tinge di bianco come le vesti dei suoi frati camaldolesi, e tutto sembra addormentarsi ma a ben guardare non lo sono le creature del bosco che lasciano le loro impronte sul tappeto bianco. Da ciò si può comprendere il loro andare alla ricerca di cibo, il capriolo leggero quasi timido, il cervo più pesante che non disdegna una morsicatura a qualche alberello giovane, il cinghiale grufolante e l’elusivo lupo che gira spinto da atavica fame. Questa, per me, è la bellezza.

Poi c’è l’acqua di cui il Casentino è ricco a cominciare dall’Arno che ne ha modellato la valle. Ma quelli che si incontrano nelle nostre escursioni sono solo i “nipotini” ma per questo non meno belli. Anche l’acqua ha le sue stagioni, è ovvio. In primavera tutti i fossi portano acqua, alcuni per tutto l’anno, ma questa acqua è diversa da quella dell’estate o dell’autunno, è più viva, frizzante con una gran voglia di fare e di correre. Vedo con quanta impertinenza letica con i sassi per scendere più in fretta, non conosce ostacoli, se può li evita altrimenti li investe e allora mille gocce splendenti schizzano nel sole. Mi torna in mente quando, da bambino, facevo delle dighe per fermarla e non sempre ci riuscivo. Mi piacciono questi ruscelli che su in alto si sono scavate gole ombrose e hanno creato buche più profonde dove la fantasia vede pesci al posto dei sassi, dove l’acqua è così limpida che a volte la bevi. D’estate e più in autunno l’acqua si calma, non è più irruenta ma posata ed ha il dono di dare pace e serenità a chi la guarda.

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Ma la bellezza per essere completa ha bisogno anche di un contraltare e questo noi lo vediamo durante le nostre escursioni quando si incontra la fatica antica dell’uomo. Fatica che è rimasta impressa nelle pietre dei muri a secco, ora ricoperti di licheni e divenuti case di serpi, nelle case abbandonate e dirupate che tanto avrebbero da raccontare solo se noi, uomini moderni ed indaffarati, sapessimo ancora ascoltare. Ma ecco che ancora la bellezza fa la sua apparizione in piccoli particolari come stipiti di pietra serena ben fatti o finestre ben rifinite o in tabernacoli dove ancora in un barattolo arrugginito c’è lo spettro di quell’ultimo fiore messo, mi piace pensare, dalla massaia prima di partire per altre fortune. E lo stesso stradello che stiamo percorrendo ancora porta le tracce di una strada medievale, ma il discorso ci porterebbe molto, troppo lontano.

Questo è il mio bel Casentino, quello che ho imparato ad amare grazie al Gruppo Namasté a cui va tutto il mio ringraziamento.

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