Dentro e fuori il Marguareis di Micaela Beatini

Verso la vetta Marguareis foto A.Mazzanti
Verso la vetta Marguareis – foto A.Mazzanti

Annuario 2013 ihr_qr_code_ohne_logo

Devi decidere come affrontarlo. Se percorrerlo attraverso le sue rocce e i suoi canali o esplorarlo calandoti nelle sue viscere. Il massiccio del Marguareis è incastonato nelle Alpi Liguri,

al confine tra Francia, Liguria e Piemonte, e rappresenta l’estremità orientale della catena montuosa Argentera – Mercantour.Questa montagna è una delle zone più importanti e più frequentate dagli speleologi italiani e internazionali.

Maraguaréz o Maravarez è il nome con cui i pastori brigaschi lo chiamavano, adesso diventato Marguareis porta con sé qualcosa della vicina Vallée des Merveilles, ha in sé ancora il sapore della meraviglia.

…Che il mare abbia lasciato la roccia per farne emergere le cime è un’altra possibilità, che il mare abbia chiesto scusa alla terra per ritirarsi e lasciare posto alla neve una delle trasformazioni. E nonostante il mare sia visibile ma lontano, ti sentirai sprofondare. Che sia un mare di neve, roccia, erba o fiori: fa quest’effetto senza troppi giochi di parole. Per questo partiamo con tutto ciò che serve: ramponi, picca, casco, imbracatura, set ferrata, cordini e moschettoni. Raggiungere la punta Marguarèis – la cima più alta del Monte delle Carsene, montagna delle Alpi alta 2.651 mt. nonché la cima più elevata delle Alpi Liguri, punto nodale tra la Valle Pesio, la Val Tanaro e la Val Roia; non sarà il punto focale della quattro giorni ma lo snodo per entrare dentro questa storia. Il confine tra l’incanto e la natura selvaggia, il discrimine tra dentro e fuori. Non a caso la cima si trova sulla linea di frontiera italo-francese, tra la provincia di Cuneo e il dipartimento delle Alpi Marittime. E’ uno spartiacque tra due paesi che qui si toccano. Siamo in sette e ci sentiamo a meraviglia: uno Stambecco, uno Scrittore, un Bibliotecario che ne sa più di un botanico ma prende le distanze dai botanici, una Cantante, un Professore innamorato, Ferrari e Shottino.

Nei pressi del colle del Pas foto A. Mazzanti

E’ giovedì … “E fu sera e fu mattina, primo giorno”

Il viaggio in macchina corre veloce, l’autostrada sembra un salotto a più corsie. Per chi parte all’alba la distanza tra te e la montagna è solo un tratto che metti in ponte, per quanto lungo possa essere lo affronti con tutta la calma necessaria e nessuno di solito, pur dichiarandosi stanco a causa di qualsiasi imprevisto del giorno precedente, dorme. Ci teniamo compagnia e in tempo reale parliamo, condividiamo, lanciamo idee usando le nuvole come mezzo di trasporto, per raggiungere anche chi abbiamo lasciato a Firenze. Per le gambe che ogni tanto escono dall’abitacolo non c’è mai niente di più rigenerante del profumo del pane, del caffè o dei biscotti, le soste fanno parte del viaggio e sono ben assortite. La nostra destinazione è il rifugio Pian delle Gorre in località Certosa (Pian delle Gorre) nella Valle Pesio, Comune di Chiusa di Pesio. Il rifugio si trova proprio lì, sul pianoro delle Gorre, ombreggiato da abeti e latifoglie, al termine del tratto agibile della carrozzabile che costeggia il fiume Pesio, non lontano dal Pis del Pesio. Il posto sembra estratto da una cartolina: il prato di fronte al rifugio è l’ideale per trascorrere una giornata all’aperto, vuoi perché non chiede altro, vuoi perché facilmente raggiungibile con ogni mezzo. Da qui partono numerosi itinerari sui sentieri del parco di varia difficoltà, tra cui il percorso del giro del Marguareis. In inverno, la struttura si trova sul circuito della pista di sci nordico della valle Pesio.

Pian delle Gorre è il vero punto di partenza, è sul piazzale adiacente al rifugio che molliamo la macchina, il cambio di scorta, l’aria di città e quel che ne resta. Si parte da 1.032 mt. di quota sapendo che oggi sarà una passeggiata, ma la affrontiamo con tutto l’entusiasmo che merita e che meritano le nostre gambe. Imbocchiamo la strada sterrata sulla sinistra del rifugio, facendo l’elenco di tutto ciò che è stato lasciato a casa: c’è chi si sente stranamente più leggero degli altri … e che per questo la pagherà in termini di auto o inflitta ironia.

Dopo un chilometro e mezzo giungiamo al bivio in località Saut nei pressi delle belle cascate e svoltiamo ancora a sinistra. Un ripido sentiero nella suggestiva abetina del Buscaiè ci permette di arrivare al Gias Sottano di Sestrera, primo tramuto di alpeggio del vallone. Non puoi sbagliarti, tra destra e sinistra, non puoi avere un dubbio e qualora anche la coscienza politica dovesse portarti da un’altra parte, le gambe e la mappa non hanno alcuna esitazione. Eccola, la svolta. Sempre a sinistra e si sale ripidi nel bosco per circa un’ora fino a quando gli abeti lasciano il posto alla boscaglia di sorbo, ontano e rododendro.

al termine del sentiero attrezzato sordella foto A.Mazzanti

Eccola, la prima meraviglia. E qui rimani, (altro che svolta!) senza fiato. Macchie di rododendro ricoprono le pendici, l’effetto è doppio. Da lontano, sembra un mare color rosa e il profumo ti annienta. Da vicino, hai la sensazione di camminare su un tappeto di fiori, di affondare gli occhi nel verde e di non sapere più da che parte puntare l’obiettivo. Ogni scatto è riduttivo perché lo sguardo abbraccia molto di più. E se per un attimo riesci a distoglierlo dal mare, sopra le tue spalle, appare imponente il Marguareis. Rimani di sasso. Dentro di te non sapendo più da che parte guardare, se ai tuoi piedi o verso il cielo, decidi che è saggio proseguire. Fuori di te mentre il cammino prosegue, senza perdere quota, il mare di fiori e la roccia continua a scortarti e dominarti. Raggiungiamo il Gias Soprano di Sestrera (h.2) da dove scorgiamo poco più in alto la sagoma del Rifugio Garelli (1.970 mt.). Il colmo è che ci spiace pure vederlo lì. Siamo partiti e già arrivati.

La prima meraviglia ci ha entusiasmato, il profumo aperto i polmoni, ormai siamo in botta e andare avanti per mangiarci la vetta del massiccio sarebbe la naturale continuazione, se non fosse perché al Garelli ad accoglierci ci sono due paia di calzini bianchi che ti corrono incontro scodinzolando. Dal terrazzo del rifugio, la vista sul massiccio si specchia sui pannelli che lo rivestono, come in un lago. Il Rifugio Piero Garelli si trova su un poggio in zona Pian del Lupo, a cavallo tra il vallone del Marguareis e la valletta di Sestrera, nel cuore del Parco Naturale Alta Valle Pesio. E’ stato inaugurato il 13 ottobre 1991 e l’attuale sostituisce il precedente rifugio andato distrutto nel novembre 1987 a causa di un incendio. Di proprietà del CAI di Mondovì (CN), vale la pena fare un passo indietro nel tempo per conoscere chi sono gli uomini che hanno fatto il Marguareis o che la montagna ha forgiato.

…era stato inaugurato il 18 giugno 1950 grazie all’idea di Sandro Comino, alpinista e realizzatore del progetto che considerava il Marguareis come la sua montagna. Sandro, non solo decise che era necessario avere una base d’appoggio per portarsi all’attacco di una qualsiasi via del Marguareis, ma volle dedicare il rifugio alla memoria dell’avvocato Piero Garelli, suo compagno di cordata morto in prigionia a Mauthausen (Presidente del CAI di Mondovì quando fu arrestato e deportato). Aveva una caratteristica forma a mezza botte e poteva ospitare diciotto persone. Le pareti nord del massiccio erano capitolate, dieci anni prima, per merito loro: Sandro Comino, Armando Biancardi, Primo Mattalia, Arnaldo Colombatto, Bartolomeo Marenco. Adesso si trattava ‘solo’ di creare la possibilità di accedervi abbreviando i tempi perché all’epoca la base più prossima era il Rifugio Mondovì alle sorgenti dell’Ellero. Sapevano bene cosa significava: un avvicinamento con salite e discese, ancora risalite, oltre alla prospettiva di un interminabile ritorno.

Sono le 14.30 quando arriviamo al Garelli, ai piedi del massiccio del Marguareis la storia è appena iniziata, ma sul da farsi non ci sono dubbi: birra. La beviamo lentamente, mangiamo il formaggio e i grissini acquistati a valle da una signora che ci ha fatto assaggiare tutti i biscotti del suo negozio di alimentari. Sul tavolo di legno all’aperto di fronte al massiccio si condivide tutto compresi i tafani che si nutrono di noi. Il sole affonda sull’alpeggio, alcuni di noi sul letto, altri sull’erba con le gambe stese, la testa felicemente tra le nuvole e i ricordi che arrivano e scompaiono nel cielo azzurro. Così si sta fino al tramonto, mentre dentro il rifugio c’è un gran bel movimento. La cena è quasi pronta e la puntualità è un punto d’onore.

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I camosci si avvicinano, possiamo vederli dalle finestre mentre siamo intenti a spolverare i piatti e distrattamente alziamo la testa. Sanno quando scendere, sanno quando è il loro momento, sanno quando l’uomo si ritira e l’avvicinamento diventa possibile. Dopo cena, tra risate, una tisana, una campomilla e altrettante risate ognuno ha guadagnato la via dei sogni. Ne approfitto per prendere una boccata d’aria. Esco dal rifugio e vado a sistemarmi sul retro, appollaiata sulla punta della roccia che guarda il massiccio e la valle. Un manto di stelle ricopre il cielo nero e la montagna.

Eccola, la seconda meraviglia. Ecco il mare nero e le sue galassie, costellazioni luminose, rotta per i suoi naviganti. E chi si smuove di lì? Rimango incollata a un tappeto di gentile splendore con il naso insù, fino a che non riesco a vedere le stelle anche a occhi chiusi. Adesso posso andare, sono dentro di me. E lascio il posto alla notte portando via Shottino, la sua ombra, il primo giorno e le sue meraviglie.

E’ venerdì … “E fu sera e fu mattina, secondo giorno”

Sono le 7.00 spaccate quando partiamo dal Rifugio Garelli per conquistare la Regina delle Alpi Liguri, Punta Marguareis. E’ splendida la vista sull’immensa bastionata calcarea – una verticale di circa 600 mt. – che costituisce la parete Nord del massiccio. Al mattino con lo zaino in spalla abbiamo chiare poche cose, ma rappresentano quanto basta per fare di noi sette animali da guerra e la giornata appena iniziata, soltanto alla fine, ci darà ragione per esserci creduti tali, o per esserlo diventati davvero. Intendiamo salire la cima Marguareis attraverso il sentiero attrezzato Flavio Sordella – inaugurato il 9 settembre 2012 – e mentre lasciamo il Garelli l’idea, passo dopo passo, diventa sempre più concreta.

Sul momento non ci accorgiamo di alcunché, concentrati sui passi e sulla roccia, eppure avvertiamo la sensazione di essere circondati. Zanzare a frotte bevono il nostro sangue, brindano senza tregua e perforano qualsiasi fibra tecnica. Non è un’immagine biblica e nemmeno una metafora con cui narrare lo spirito di sacrificio, ma la realtà, più prosaica, causata dall’alta temperatura. Trascuriamo la traccia che sulla sinistra si inerpica verso il valico di Porta Sestrera (2.226 mt.) e prendiamo il sentiero che in saliscendi – superato un costone – conduce al piccolo Lago del Marguareis (1.928 mt.), ai piedi della fiumana di detriti del Canale dei Genovesi. E’ uno specchio d’acqua molto piccolo alimentato direttamente da alcune sorgenti. Le sue acque discendono il vallone del Marguareis e del Salto per confluire nel Pesio. In quelle vediamo riflesso il massiccio, ma il suggerimento non basta, sfiorarlo sembra facile, averlo rimane ancora un’impresa e allora la domanda irriverente sorge spontanea: ”Specchio, specchio delle mie brame, dimmi qual è la cima più alta del reame?”.

L'anfiteatro di roccia sotto punta Saline foto A.Mazzanti

A quest’altezza lasciamo il sentiero, che scende verso il vallone, per risalirlo, tra grandi rocce ed erbe montane. Arriviamo alla base del Canale dei Torinesi, compreso tra le pareti Nord del Marguareis e della Cima Bozano. Attraverso la variante, attrezzata con cavi d’acciaio e scalini, saliamo per il canale raggiungendo il Colle dei Torinesi (2.450 mt.). Da qui ci affacciamo sul versante Sud del massiccio, formato da prati e rocce arrotondate e ci indichiamo l’un con l’altro i disegni carsici. In questa zona, la roccia fuori appare gentile, dentro nasconde grotte che raggiungono anche i 50 km. di estensione e 900 mt. di profondità. Seguiamo il sentiero verso destra per compiere un largo giro fino a raggiungere la dorsale che dolcemente porta alla vetta.

E’ fatta. Un confine, due versanti, e tutto l’arco alpino occidentale davanti a sette animali da combattimento. Ai piedi della croce ci sdraiamo al sole, con il sorriso di chi pensa di averla sfangata (ma non sa ancora cosa lo aspetta) e nel frattempo si riconcilia con il mondo e con il suo stomaco. Il versante Sud, carsico, che giustifica il nome Carsene, è un altopiano morbido, il versante Nord è invece una parete verticale solcata da canali impegnativi. Sul versante Nord, il Rifugio Garelli e non lontano il piccolo Lago del Marguareis appaiono come minuscoli puntini.

Ma la meraviglia ha da venire.
Si scende dalla via normale. Stambecco ha una falcata che può lasciare solo il vuoto dietro di sé, per questo la lasciamo avanzare. Usiamo la massima attenzione per non far volare sassi e aspettiamo che il compagno sfili sotto di noi, prima di proseguire. La parete si lascia toccare e all’orizzonte vediamo Stambecco fuggire in libertà. E’ bello vederla danzare con il suo passo elegante. Scendiamo e la roccia cambia colore. Me ne rendo conto perché ci sbatto il viso e in questo téte-a-téte ravvicinato comprendo che è inutile continuare a guardare sotto di me, se voglio capire da dove arriva quella cascata rosa, devo alzare la testa. Mi fermo e non ci penso su due volte, sguardo in su, oltre le mie spalle.

Eccola, la meraviglia, la terza, tutta insieme che mi sovrasta. Un intero anfiteatro di roccia pura, da sinistra verso destra e da destra verso sinistra con sfumature di colore dal giallo ocra, al rosa, al rosso passando per la terra, il grigio e dalle venature più scure. Rimaniamo così, ammutoliti per un paio d’istanti e non capiamo più nulla. Uno Scrittore, un Bibliotecario che ne sa più di un botanico ma prende le distanze dai botanici, un Professore innamorato, Ferrari e Shottino. La nostra Cantante ha raggiunto Stambecco, ormai sono quasi sulla Cima delle Saline, ma chi se ne frega. Noi rimaniamo lì, convinti che, prima o poi, da qualche parte arrivi o spunti fuori anche un’orchestra di non so quanti elementi a chiudere la nostra meraviglia e ad iniziarne un’altra accompagnata dalla musica.

Continuiamo a scendere e quella sinfonia desideriamo sentirla, vorremmo che ci accompagnasse fino al Mongioie perché là ci sembra la sua naturale dimora. Ogni tanto ritorniamo con lo sguardo verso l’anfiteatro e ci aggrappiamo all’idea di essere ancora lì, in mezzo alle rocce, protetti e a casa.
Scendiamo ancora lungo la cresta est fino al colle del Pas (2.342 mt.) sul crinale di spartiacque Tanaro – Ellero che raggiungiamo con diversi e lunghi tornanti lungo il pendio di puro prato. Sono le 15.10 quando arriviamo al valico e Ferrari con lo sguardo attonito e fisso sulle indicazioni mi dice: “Sai quanto manca al Mongioie?”. E’ un attimo. Inizia a ridere e nonostante dentro di sé si faccia strada l’idea che l’autore dell’indicazione sia un simpatico umorista, non si fermerà più. Capisco dalla sua reazione che la faccenda si fa seria e quindi scruto il segnale con sospetto: Rifugio Mongioie (1.538 mt.) h. 4,10. L’acqua comincia a scarseggiare, il sole è sempre al suo posto e il mio umore pure, si tratta solo di preservarlo.

Per scongiurare la depressione ci poniamo varie domande, ma ad un tratto una diventa più frequente delle altre, giusto per farci del bene: “Tale pendio è atto per uno scialpinista?”. “E’ atto, è atto, fidati… è attissimo!”. E qualora tu non fossi uno scialpinista in quel momento lo vorresti diventare per sfidare il pendio e per immaginarti già ai piedi del Mongioie con gli sci appoggiati di taglio sulla spalla. Si scende tra fiori di ogni dimensione, colore, nome, profumo. Ogni esemplare è una realtà complessa, perché nasce da una moltitudine di fiori in miniatura. Se non ti fermi, non puoi rendertene conto, devi osservarli da vicino. Pur apprezzandone lo sforzo, la botanica non è la passione di Ferrari, almeno in questa circostanza. La capisco.

Alle nostre spalle ci sono tre uomini che esultano per ogni pistillo, per ciascun petalo, per ogni foglia leggermente rovesciata, ogni passo è una scoperta, ogni polline la deriva della riproduzione e una buona scusa per scattare una fotografia. A confronto Shottino e Ferrari si sentono degli animali in un recinto, a tratti pure delle scaricatrici di porto, si scambiano sguardi interrogativi perché sono lontane anni luce da quella dimensione naif e tentano di dare un senso alla sensibilità tutta e al 100% maschile. Shottino sorride, Ferrari non sa che pesci pigliare ma è così che si scende fino all’altezza del Rifugio Carlo Bossi (non custodito – 1.526 mt.) dove troviamo una fonte.

Eccola, la quarta meraviglia. E’ solo una piccola fonte, è solo acqua, ma è ciò che da ore avremmo voluto incontrare lungo i pendii in discesa. Tuffiamo le borracce, le mani, le braccia, i capelli e a occhi chiusi lasciamo che scorra sulla pelle beneficiando di quella sensazione e facendola scorrere in gola. E’ acqua, è solo acqua ma è tutto quel che serve per proseguire con la freschezza di cui ci si nutre al mattino. E’ quel che serve per tirare su gli zaini con tanto di picca e ramponi. Dopo dodici ore di cammino giungiamo al Rifugio Mongioie che immerge le sue radici nel Pian Rosso sopra il paese di Viozene, una frazione del Comune di Ormea tra le provincie di Cuneo e Imperia.

Arriviamo e il rifugio ci sembra un miraggio ma a dirla tutta quel che cambia il viso sono le spettacolari pareti del massiccio del Mongioie (2.630 mt.) che degradano verso il rifugio con formazioni calcaree – alte fino a 350 mt. – sulle quali poter arrampicare. Costruito dai soci della sezione CAI di Albenga, è stato inaugurato nel 1989. Silvano, il gestore del rifugio e il suo team stanno mangiando sul tavolo all’aperto quando al tramonto facciamo il nostro ingresso. Nel rifugio ci siamo solo noi ed è bello sentirsi compresi nella fatica e nell’appetito, soprattutto quando a cena ci vengono offerti due vassoi di pasta fatta in casa (…e non solo quelli! :).

Il rifugio prende il nome di Mongioie da ciuàia o ciuiéra, una specie di corvo che svolazza da quelle parti. La notte sotto il monte della gioia ha il sapore della festa, le stelle illuminano la parete di roccia, il selciato, la stessa gioia di esserci e la vita. Se tutto tace, lo si deve alla montagna che veglia su di noi addormentati.

E’ sabato … “E fu sera e fu mattina, terzo giorno”

Il mattino parte a rallentatore, ce la prendiamo con calma per dare un po’ di tregua alle gambe e riprendiamo il sentiero già percorso la sera prima per fermarci alla Grotta delle Vene. Come se fosse una finestra aperta su altro mondo ci affacciamo sul primo antro della grotta, ma non avanziamo. La grotta si sviluppa in cinque parti, solo le prime due sono visitabili con l’attrezzatura da speleo, per le altre occorre l’attrezzatura da spleleo-sub. Una volta all’interno e con l’attrezzatura adeguata è possibile attraversare alcune sale con sifoni e cascate. Valichiamo la Colla di Carnino e al bivio per il Passo delle Saline (1.500 mt.) proseguiamo a sinistra e, lungo il sentiero che taglia la strada, attraversiamo il villaggio di Carnino Inferiore (I Dë mégë – 1.380 mt.). Dalla piccola piazza, prendendo a destra in salita oltre il rio Saline, passiamo accanto al cimitero e arriviamo a Carnino Superiore (I Suràn – 1.397 mt.). In quest’antica borgata, le cui prime abitazioni risalgono al X secolo, tutto è rimasto come una volta o è stato salvaguardato perché lo fosse: la chiesa parrocchiale, dedicata alla Madonna della neve e i ruderi del mulino in comune al limitare del paese, la mulattiera o il tetto in paglia di segale che e? la parte più caratteristica di queste antiche case in pietra. Infatti, i timpani superano la copertura e formano così due cordoli, utili per creare una sponda in cui sistemare la paglia e permettere l’accesso al tetto. E’ questa la struttura tipica del tetto racchiuso. Da qui, imbocchiamo la mulattiera e saliamo nel vallone della Chiusetta fino alla Sella di Carnino oltre la quale il vallone, diventato più ampio, prende il nome dei Maestri. Attraversiamo Pian Sottano e Soprano della Chiusetta, camminando in mezzo a prati di alpeggi mentre la roccia ci sovrasta. Il verde è intenso, la pietra brilla e i fenomeni carsici la segnano trasformandola ovunque in mani dalle lunghe dita, in vene scolpite o radici contorte. Nel bel mezzo di questo panorama da fiaba ci fermiamo per raccoglierci davanti alla chiesetta di San Domenico, chiamata anche Sant’Elmo. Piccola di fronte alla parete di roccia alle sue spalle e minuscola di fronte al prato sterminato che si apre intorno a lei. Riprendiamo il sentiero per raggiungere il Colle dei Signori e poco avanti il Rifugio Don Barbera (2.079 mt.), inaugurato nel 2006.

Ci togliamo gli scarponi dopo nove ore di cammino e con un bicchiere di birra in mano sorridiamo per l’esito di questa giornata iniziata a rallentatore. La frutta secca si mescola ad arachidi salate, ce n’è per tutti i gusti e c’è posto per tutti. Si è alzato il vento e approfitto del consiglio del Bibliotecario per ascoltarmi un finto Bach su una sdraio del rifugio, mentre mi tuffo con gli occhi nel mare verde e di fronte a me le nuvole iniziano ad addensarsi. Bach rivisto e corretto è terminato e le mie gambe non stanno ferme. Propongo a Ferrari di raggiungere la croce sopra il rifugio, gli altri dormono. Siamo in ciabatte e andiamo su come se avessimo un appuntamento con qualcuno, io in effetti mi aspetto di trovarci qualcuno. E vengo ripagata.

Davanti alla croce uno splendido altare di legno, una tavola alta e spessa contro l’orizzonte. Noi eravamo lassù e la pace di Dio passava alta sulle nostre teste (Guido Rey – Guida alpina).

Don Umberto Barbera aveva sostenuto lo Scoutismo e creduto in quello che il movimento poteva offrire, dalla capacità di confrontarsi con la fatica alla gestione nelle e delle difficoltà, dal vivere l’esperienza delle notti in tenda al sapersela cavare nella vita di campo. Portava i ragazzi alla montagna perché ne assaporassero la fatica dell’ascesa, la gioia della cima, la ricchezza di panorami unici per la loro bellezza. Don Barbera regalava, da una parte, ai ragazzi l’esperienza delle Alpi, dall’altra creava per gli adulti occasioni nelle quali affrontare vette impegnative: il Bianco, il Cervino, il Rosa, il Gran Paradiso, la Marmolada. Chapeau.

Eccola, la meraviglia, la quinta e stavolta non mi stupisce. Tocco l’altare con un senso di gratitudine e alla croce sussurro: “Ciao!”. Di alpinisti come te non ce ne sono molti, di uomini forse ancora meno. Per scendere passiamo sull’altro lato della collina e dissipiamo ogni indugio perché il nostro viaggio in ciabatte sia completo. Alle 19.00 nel rifugio si accende la stufa e mentre il calore riscalda il viso intorno ai tavoli ci prepariamo per la cena. Solo il gestore, ogni tanto si affaccia alla porta, mancano degli ospiti, devono ancora arrivare e scruta il sentiero immerso nella nebbia. A notte fonda il rifugio sarà al completo, anche i ritardatari avranno preso il loro posto. A notte fonda il cielo si apre, anche le stelle vogliono la loro parte.

E’ domenica … “E fu sera e fu mattina, quarto giorno”

Al mattino partiamo con un’ora di ritardo a causa della grandine e della pioggia. Abbiamo aspettato con pazienza che il tempo aprisse una finestra utile per la via di fuga. Sono le 8.00, quando nebbia a parte, possiamo lasciare il rifugio e così ci addentriamo sul sentiero. La meta finale è il Rifugio Pian delle Gorre (1.032 mt.) da dove siamo partiti quattro giorni fa e altre sei ore di cammino non ce le toglie proprio nessuno. La nebbia avvolge la roccia, il sentiero e noi, le montagne e le loro cime. Il vento apre dei varchi e ogni tanto ciò che non avresti mai pensato possibile si presenta davanti ai tuoi occhi senza aspettarsi niente in cambio.

Eccola, la meraviglia. E’ la sesta. Quella che non avresti immaginato di trovare lì, sotto una coltre di nebbia. E’ come la neve cambia il paesaggio, lo trasforma, ma non per questo lo rende meno bello o meno appagante. Anzi. Regala quello che in una giornata di sole mai potresti vivere, una giornata di sole puoi recuperarla, una così non è affatto detto. Dal Colle dei Signori, sopra il rifugio seguiamo la strada militare fino all’alpeggio di Pian Ambrogi dove imbocchiamo il sentiero sulla destra che ci permette di raggiungere la Piana di Malaberga (2.219 mt.). Scendiamo fino al Gias dell’Ortica (1.855 mt.) e risaliamo a destra verso il Passo del Duca (1.890 mt.). Dal passo iniziamo una lunga discesa sulla vecchia via militare – circondati da rododendri, orchidee e gigli – che con ampi tornanti porta al Gias degli Arpi (1.460 mt.). Ci portiamo sulla destra giungendo così alle cascate e arriviamo poco dopo al Pian delle Gorre.

Qui rischio lo sterminio. Sul prato di fronte al rifugio che ricordavo verde e libero, si affastellano bambini, genitori, nonni, zii, cugini e amici. Dentro di me provo l’impulso di tirare fuori un kalashnikov per porre fine al rumore infernale prodotto. Condivido l’idea con Ferrari, ma il progetto non trova seguaci perciò mi limito a ignorare il caos e raggiungo la fonte. I nostri piedi immersi nell’acqua gelida sembrano assumere un altro colore, i nostri volti pure, siamo stanchi, bruciati dal sole, dalla fatica, fradici di sudore e di nebbia ma niente di ciò che è dentro di noi ha a che fare con il fuori.

Eccola, la meraviglia, la settima. Ognuno di noi, inconsapevolmente, ne rappresenta una, ma anche questa sarà una scoperta di cui avremo percezione e consapevolezza solo alla fine, quando a casa ci accorgeremo di chi abbiamo avuto accanto. Siamo in sette e ci sentiamo una meraviglia: uno Stambecco, uno Scrittore, un Bibliotecario che ne sa più di un botanico ma prende le distanze dai botanici, una Cantante, un Professore innamorato, Ferrari e Shottino.

Devi decidere come affrontarlo. Se percorrerlo attraverso le sue rocce e i suoi canali o esplorarlo calandoti nelle sue viscere. Il Marguereis non ha niente da nascondere – né dentro, né fuori – e la sua meraviglia sta in questo.

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