I vulcani di Whymper di Carlo Labardi

I vulcaniUn tempo fra le malattie più comuni dei viaggiatori c’era il cosiddetto “mal d’Africa“. Una malattia allora un pò elitaria. Negli ultimi anni la nostra contraddittoria società ha dato a molti la possibilità di ammalarsi di vari tipi di “mali“ associati a viaggi in paesi lontani. Io sono stato colpito da quello del Sud America, quando nel 1994 sono approdato in Patagonia .Malattia poi sviluppatasi con particolare virulenza con la salita, sempre in Argentina, dell’ Aconcagua, del Cotopaxi e Chimborazo, i vulcani di Whimper in Ecuador. E’ questo un paese poco più piccolo dell’Italia, meraviglioso a vedersi per la sua grande biodiversità: costiera e isole, andina con l’altipiano e la selva amazzonica.

Indossavano scarpe basse, abbigliamento normale, non avevano guanti, soffrivano di giramenti di testa,emorragie gengivali, malessere generale e difficoltà respiratorie”. Così scrisse Alexander Von Humboldt nel suo diario, descrivendo tra l’altro per la prima volta i sintomi del mal di montagna. Nel giugno del 1802 il ricercatore tedesco tentò di salire con i suoi accompagnatori il Chimborazo. A 800 mt. dalla vetta gettarono la spugna. La fatica dovette essere insopportabile sulle pareti coperte di ghiaccio del vulcano alto 6.310 mt., l’aria inaspettatamente rarefatta, l’attrezzatura assolutamente inadeguata alla montagna. Comunque si trattava di una quota mai raggiunta fino allora.

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Al sottoscritto, due secoli dopo, autunno del 2002, le cose sono andate molto meglio. Infatti, con una spedizione ideata dal CAI di S. Caterina Valfurva e diretta dalla guida alpina Plamen Shopsky, nato in Bulgaria ma adottato da molti anni dalla Valfurva, abbiamo salito il Cotopaxi (5.897 mt.), il vulcano attivo più alto del mondo, e il Chimborazo (6.310 mt.) inattivo da molto tempo, la montagna più alta dell’Ecuador. Ancora ai tempi di Humboldt, esattamente duecento anni fa, era considerata la montagna più alta della terra. In un certo senso lo è benché misuri circa 2.600 mt. meno dell’Everest, poiché all’equatore il diametro della terra è al suo massimo, la vetta del Chimborazo rappresenta il punto del globo più distante dal centro del pianeta. Sono chiamati anche i vulcani di Whimper perché l’inglese, con l’amico rivale Jean Antoine Carrel e Luigi Carrel, nel 1880 aveva compiuto la prima ascensione del Chimborazo e la terza del Cotopaxi otto anni dopo la prima ascensione da parte del tedesco Reiss e del colombiano Escobar. Si è trattato di un viaggio attraverso una delle regioni montane più affascinanti del nostro pianeta. La “Avenida de Volcanos” così Alexander Von Humboldt definì il tratto che collega Otavalo a nord e Cuenca nel sud del paese, passando per Quito posta fra la cordigliera occidentale e orientale. In nessun altro luogo della terra si susseguono uno dopo l’altro altrettanti vulcani per di più così alti. Dei venti distribuiti su 400 km, nove superano i cinquemila metri con ghiacciai perenni e otto sono ancora attivi. Gli abitanti di molti villaggi situati alle loro pendici vivono costantemente in allerta, pronti alla fuga. La prima cosa che salta agli occhi del viaggiatore sono i coni perfetti dei vulcani che spuntano, sparsi qua e là, su un altipiano verdeggiante, una visione inconsueta, non un ammasso di cime, pinnacoli, ghiacciai come nelle alpi od in Himalaya, ma montagne distaccate una dall’altra come volessero mostrare la loro bellezza a 360°, fiere, imponenti,belle a guardare.

Nove i partecipanti alla spedizione di cui quattro Plamen, Luciano, Enrico (Chicco) e Christian provenienti dalla Valtellina, Dimitri e Annibale da Torino, Stefano da Genova , Filippo da Gubbio e il sottoscritto da Firenze. Questa, oltre a finalità ludiche, si prometteva anche uno scopo assistenziale portando numerosi scatoloni di medicinali e materiale tecnologico per l’associazione “Ayuda directa“ fondata da Michele Urbani e che opera in Ecuador tramite i Salesiani di Gaudenzio Sosio di origine valtellinese. Che si propone fra l’altro di togliere i giovani delle famiglie più povere dalla strada insegnando loro un mestiere (falegname, elettricista, meccanico). Partiti da Milano Malpensa, arriviamo a Quito dopo quattordici ore di volo (sei ore di differenza di fuso orario con l’Italia) con scalo a Madrid e Caracas. Sorpresa, al recupero bagagli troviamo solo gli scatoloni di materiale assistenziale, mentre i nostri sacconi arriveranno il giorno dopo per l’eccessivo carico dell’aereo. Un occhio di riguardo andrebbe dato giustamente anche ai poveri, come ricorda papa Francesco. Si viene anche a sapere che pochi giorni prima del nostro arrivo uno strato di cenere grigia dovuto all’eruzione del vulcano Reventador aveva bloccato l’aeroporto.

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Troviamo ad aspettarci Marco Cruz una leggenda dell’alpinismo sudamericano, guida internazionale di alta montagna e naturalistica, amico personale di R.Messner con cui ha salito il Cotopaxi e Chimborazo. E’ un pioniere del turismo in Ecuador. Dirige l’impresa Expediciones Andinas di cui ci avvarremo e cerca di immaginare un futuro possibile per le popolazioni di montagna del suo paese dando lavoro a molti che altrimenti sarebbero costretti ad abbandonare le valli. Dedichiamo un giorno a visitare Quito la capitale dell’Ecuador, due milioni di abitanti sui ventiquattro di tutto il paese con 5% d’indios puri, 50 % di bianchi e 45% di meticci. Quito si estende sull’altipiano a 2.800 mt. di quota per 40 km di lunghezza fra le due cordigliere con il Pichincha ad ovest e l’Antisana e Cotopaxi ad est. Contende a Cusco in Perù il titolo di città coloniale meglio conservata delle Ande, anche conosciuta come la Firenze delle Ande e dichiarata dall’Unesco fin dal 1978 patrimonio dell’umanità. Trovandosi alla metà del mondo ci sono sempre dodici ore di luce e dodici di notte e si possono sperimentare le quattro stagioni nella stessa giornata con un’escursione termica anche di 20° C. Il periodo che abbiamo scelto per andarci, a cavallo fra novembre e dicembre è il migliore perchè il clima è più secco. Siamo saliti dapprima sulla panoramica cima del colle tondeggiante detto Panecillo dove secoli prima c’era il tempio del Sole e l’osservatorio astronomico degli Incas, adesso c’è, da paese cattolicissimo com’è l’Ecuador, la grande statua della Vergine alata di Quito nell’atto di schiacciare un serpente. Da tenere presente che gli Ecuadoriani furono l’ultimo popolo ad assoggettarsi, dopo cruente battaglie, all’impero Incaico, pochi anni prima della devastante invasione spagnola, e quell’orgoglio antico lo si legge ancora oggi tra le strade di Quito, come nei villaggi abbarbicati sulle montagne sui volti degli indios. Un atteggiamento serio e riservato tanto distante dalla festosa espansività del Perù e della Bolivia. Colpisce la presenza di tanti bambini.

In Ecuador l’età media degli abitanti è di 18 anni. .Il sistema sanitario è accessibile solo ai ceti più abbienti. Nel centro della città vecchia la presenza di blindati, di gruppi di manifestanti contro provvedimenti governativi, le lunghe file di povera gente in paziente attesa davanti ad istituti bancari per ricevere un misero sussidio mensile di 12 dollari, raffrontato ad uno stipendio mensile medio di 200 dollari, stanno a dimostrare il grande disagio sociale di questo paese. Visitiamo la Plaza della Indipendencia (1822) con il settecentesco palazzo del governo dove attraggono la nostra attenzione le guardie in alta uniforme ottocentesca con sul cappello un grande pennacchio con i colori del generale Simon Bolivar (rosso, blu e giallo), la bandiera dell’ Ecuador con il condor, il Chimborazo, il mare con un veliero a testimonianza della sua biodiversità, la chiesa settecentesca della Compagnia di Gesù, rivestita di tonnellate d’oro, patrimonio dell’umanità dell’ Unesco e la piazza e chiesa di San Francesco, la più antica perchè cominciata subito dopo la fondazione della città nel 1534 con il candore dei suoi campanili. Non può mancare una foto ricordo accanto al monumento Mediomundo a nord della città sulla strada panamericana che con i suoi 17.000 km. unisce l’Alaska con la Patagonia.

Per salire i vulcani di Whimper è necessaria una buona acclimatazione ed ecco come da programma fare un’escursione sul vecchio Pichincha (4.698 mt.), vulcano inattivo vicino alla città di Quito da non confondere con il nuovo Pichincha (4.794 mt.), vulcano attivo con una caldera profonda 800 mt. la cui ascensione è vietata .Partiti dall’albergo di Quito su un pulmino per una stradina tortuosa e con fondo sempre più sconnesso fra terrazzamenti coltivati a cipolle e patate, con favolosi scorci panoramici sulla città siamo arrivati a quota 3.700 mt. Qui guidati da Marco Cruz in rigorosa fila indiana abbiamo fatto questo primo trek di circa un migliaio di metri di dislivello e svariati km di sviluppo sul Paramo. E’ questo un ecosistema dell’altipiano importantissimo in quanto la vegetazione assorbe CO2 ed acqua che poi restituisce offrendo altresì rifugio a molti animali. Passiamo vicino a rocce basaltiche e dopo quattro ore raggiungiamo la vetta del vulcano, 4.698 mt., immerso nella nebbia .Qui a detta di Marco Cruz si può arrivare ad una escursione termica giornaliera di 30° C. Sono soddisfatto perchè mi sento bene, come del resto tutto il gruppo. In discesa si ripetono i bellissimi scorci sulla sottostante città di Quito, mentre il Pichincha vecchio si allontana dietro le nostre spalle liberatosi nel frattempo delle immancabili nubi pomeridiane. Dopo questa escursione è stata la volta della salita dell’Illiniza Northe (5.116 mt.). Partiti nuovamente in pulmino da Quito e percorso un tratto della panamericana verso sud, dopo averla lasciata, siamo entrati nel parco degli Illinizas.

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A quota 3.600 mt. i sacconi vengono trasferiti su un fuoristrada che li porterà al campo base quattrocento mt. più in alto, mentre noi li percorriamo a piedi per migliorare l’acclimatazione calpestando il famoso “paramo”, passando vicino a dei cartelli che ne ricordano il significato e l’utilità, mentre ai lati su campi scoscesi un brulicare di coloni intenti alla raccolta di patate, in Ecuador ne esistono ben duecento varietà. Incontriamo bimbi che ci osservano curiosi e uno “chagra “ il cow boy delle Ande. Al campo base troviamo già montate sei tende da due, una tenda cucina ed un tendone che servirà per mangiare, deposito per i nostri sacconi e dormitorio per i portatori. Da qui avanti in tenda dormirò sempre con Filippo in quanto ho trovato subito con lui affiatamento vuoi perchè Toscana e Umbria hanno molto in comune, vuoi perchè io medico e lui farmacista. Pranzo a base di pannocchie di mais ed una zuppa di “locro“ tipica zuppa andina con patate e avocado.

Nel pomeriggio controllo e prova del materiale alpinistico. Al tramonto le nuvole si dileguano e compare improvvisamente e inaspettatamente la perfetta cupola innevata del Cotopaxi. Alle quattro del mattino successivo dopo una abbondante colazione si parte per questa nostra seconda avventura. In tre ore arriviamo al rifugio Nuevos Horizontes a 4.750 mt. di quota, tutto incrostato di ghiaccio. Il tempo è incerto con nevischio e forte vento. Stefano e Annibale che non si sentono molto bene decidono di tornare al campo base accompagnati da un portatore. Questo rifugio è posto fra l’Iliniza Northe (5.116 mt. ) e l’Illiniza Sur (5.263 mt.), quest’ultima è forse una delle più interessanti montagne innevate dell’Ecuador, la sua cima presenta gigantesche cascate di ghiaccio, ma anche qui, come riferitoci da Marco Cruz, c’è stato un progressivo ritiro del ghiacciaio. La prima scalata fu compiuta dai due fratelli italiani Carrel nel 1880, Whimper ci aveva provato senza esito, mentre gli ecuadoriani misero piede per la prima volta sulla cima il 26 marzo del 1961. Il nostro obiettivo l’Illiniza Northe (5.116 mt.) è molto più facile del fratello dirimpettaio trattandosi di una tipica vetta da trekking, però oggi con le sue rocce incrostate di ghiaccio ci incute un pò di timore anche perchè abbiamo solo scarpe da trek senza ramponi. Il percorso è reso facilmente riconoscibile da una successione di ometti di pietra su terreno detritico. Raggiunta la dorsale della montagna, la progressione è più difficoltosa per il forte vento e la presenza di neve fresca; aggiriamo il Picco Villavivencio sulla destra, anticima della vetta in onore dell’ecuadoriano Villavivencio che il 3 maggio del 1912 aveva salito per primo l’Illiniza Northe. Seguendo una sequenza di corde fisse posizionate da Marco Cruz ed i suoi portatori raggiungiamo finalmente la croce di vetta incrostata di ghiaccio a 5.116 mt. di quota. Il secondo obiettivo è stato brillantemente raggiunto e sono felice.

Anziché ripassare dal rifugio Nuevos Horizontes facciamo una discesa diretta per roccette ed un canalone di neve su corde fisse con successiva traversata verso destra su un ghiaione fino a raggiungere il sentiero percorso in salita all’alba e successivamente le tende del campo base. Sono molto stanco e dopo aver cenato mi infilo nel sacco a pelo. Il giorno successivo con tempo bellissimo scendiamo dal B.C. all’Haciendas Illinizas a 3.600 mt., dove una coperta andina con figura di puma stesa al sole fa bella mostra di se. In pulmino riprendiamo la panamericana con deviazione d’obbligo alla stupenda Hacienda la Cieneca, un complesso fondato nel 1742 e dove soggiornò nel 1802 Alexander von Humboldt. Luogo paradisiaco con fontane, fiori, viali,una cappella con portale in legno dorato con stupende decorazioni, piante giganti di eucalipti importati dall’Australia. Ritornati sulla panamericana la lasciamo in seguito per raggiungere su una sterrata il Gate del parco del Cotopaxi, il vulcano attivo più alto del mondo, la Garganta di fuoco o gola di fuoco come viene chiamato dagli indios.

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Raggiungiamo poi a piedi il B.C. che i portatori hanno nel frattempo piantato a 3.800 mt. ci aspetta una cena finalmente nostrana con bresaola valtellinese, grana padano, bistecca di maiale e pomodori di albero tipici dell’Ecuador. Per salire il Cotopaxi abbiamo bisogno di fare il pieno di combustibile. Prima di salire il vulcano dedichiamo un giorno a un trek nel parco con stupende visioni oltre che della perfetta cuspide del Cotopaxi, del vulcano Ruminahui (4.712 mt.), che vuol dire montagna di pietra perchè non ha nevi perenni e dell’innevato Antizana (5700 mt.). Arriviamo fino alla bellissima laguna Limpiopungo a 3.800 mt., allietati dalla visione di cavalli selvaggi e di una variegata flora. Dopo avere costeggiato tutta la laguna arriviamo alla sterrata che conduce al rifugio Iosè Ribas del Cotopaxi. Un fuoristrada ci riporta alle tende del B.C. dopo una cena anch’essa oltremodo calorica a base di bresaola, zuppa di orzo, patate, cipolle, tonno e papaya è arrivato finalmente il momento di salire questa piramide di quasi 6.000 mt. Sono nel contempo preoccupato e curioso. E’ ragionevole avere paura?

Ogni montagna è pericolosa, un vulcano attivo ancora di più, anche se la sua eruzione più devastante risale a cento anni fa con la completa distruzione del paese di Latacunga distante 35 km. Breve riposino in tenda e di nuovo in fuoristrada per la sterrata che ci porterà al parcheggio del Cotopaxi a quota 4.600 mt. Sono le ventidue circa quando sotto un cielo stellato ci incamminiamo con una temperatura sugli zero gradi. Alle ventitre passiamo dal rifugio Josè Ribas a 4.800 mt. di quota a quell’ora chiuso. La salita del Cotopaxi come del resto quella del Chimborazo si effettua in notturna perchè l’intenso irraggiamento del sole equatoriale, l’equatore qui dista solo 45 km, ammorbidendo la neve può rendere poco solidi e più infidi i ponti di neve sui crepacci e fare cadere addosso candelotti ghiacciati e sassi. Da non sottovalutare inoltre il fatto che in tarda mattinata arrivano inesorabilmente le nuvole Muniti tutti di frontale. Verso mezzanotte arriviamo all’inizio del ghiacciaio a circa 5000 mt., qui dopo avere calzato i ramponi e messo l’imbraco formiamo due cordate una con Plamen, Filippo, Annibale, Dimitri ed il sottoscritto l’altra con i valtellinesi Cristian ,Luciano, Chicco ed il genovese Stefano.Procediamo lentamente su pendenze attorno ai 45 gradi. C’è luna piena e in lontananza una striscia di luci stanno ad indicarci la Quito night-ly nei salti ghiacciati più ripidi sono state posizionate delle corde fisse e ci aiutiamo con autobloccanti. Alle sei circa arriviamo sul cratere sommitale, una voragine nera fumante, profonda 400 mt. che contrasta con il bianco della neve circostante Aria frizzantina, siamo a -5° C, odore di zolfo, ci abbracciamo felici e facciamo una foto di gruppo .Sotto di noi un mare livellato di bianche nubi da cui in lontananza emerge la inconfondibile sagoma del Chimborazo nostro prossimo obbiettivo. Annibale non sta tanto bene, è molto stanco ed accusa delle vertigini. Nel perdere quota aiutato da Plamen ed il sottoscritto migliora nettamente. Alle dieci circa siamo nuovamente al rifugio Josè Ribas dove una birra tanto agognata diviene realtà. Tornati al BC festeggiamo a cena la salita con due ottime bottiglie di vino saltate fuori improvvisamente e pertanto oltremodo gradite .quindi un meritato riposo nel sacco a pelo in una tenda dove regna un disordine indescrivibile .Il giorno successivo ci trasferiamo in pulmino verso sud. Le incerte condizioni del tempo inducono Plamen a rinviare la salita del Chimborazo, per cui dopo essere stati ospiti di Marco Cruz e della sua giovanissima moglie Ximena nella bellissima Hacienda che possiedono alla periferia di Riobamba, ci dedichiamo alla visita dei mercatini di Pujili e di Guamote.

Girovagare per i mercatini è la maniera più genuina per venire a contatto con la cultura e tradizioni degli indios ecuadoriani. Il mercato di Guamote a 3.100 mt. di quota è uno dei più importanti dell’Ecuador. E si tiene settimanalmente. Una vera festa di colori. L’offerta è vasta dalla frutta tropicale papaya, avocadi, manghi, banane al mais, patate, cipolle, pomodori, suini di varia taglia tenuti a guinzaglio come cani, pecore, polli, e tanti porcellini d’india che fatti arrosto costituiscono il piatto nazionale delle feste con grossi mazzi di erba per ingrassarli. Tanti bimbi e donne dai variopinti vestiti molte con il piccolo fasciato sul dorso. Camion stracolmi di gente mescolati a pecore e maiali che saluta ,.quelli meno fortunati devono tornare a piedi ai loro villaggi impiegando anche 4/5 ore. Per salire il Chimborazo siamo andati in pulmino al BC che si trova a quota 4.000 mt. in una zona di una bellezza unica: la valle di Tortorillas a sud della montagna che si erge di fronte imponente .Qui Marco Cruz ha realizzato un vero paradiso .In una zona recintata pascolano 200 capi di camelidi, (alpaca e lama che sono domestici) mentre vigogna e guanaco sono selvatici, con bungalow di legno e pietra tipo ”choza” con tetto di paglia rispettosi dello stile architettonico locale, per gli ospiti. Dopo una doccia ristoratrice sono andato a trovare la moglie del custode del campamento che ha otto figli mentre stanno riportando in un recinto gli animali per proteggerli notte tempo dal lupo del paramo.

Ho offerto loro delle caramelle al latte e miele e si sono fatti gentilmente ritrarre con una foto. Cena a base di zupita e trote con patate. Il rio del parco è ricco di salmonidi. Il cielo nel frattempo si è rasserenato e Plamen con Ector il vice di Marco Cruz decidono che si può tentare la salita al Chimborazo il cui nome deriva dagli indios Chimpus che lo abitavano anticamente ed in ragione del suo eccelso “razo“, voce “chichua“ per neve e ghiaccio. Annibale che era stato male sul Cotopaxi e il giovane Stefano forse intimorito rimangono al B.C. Alle 22 arriviamo con un fuoristrada sul piazzale del rifugio Carrel a 4.800 mt. di quota già imbracati .Intendiamo salire la via normale Whimper del versante sud ovest . Siamo in sette più quattro portatori ed Ector. Passiamo dal rifugio Whimper a 5.000 mt. Saliamo con le frontali per un sentiero in mezzo a pietraie e notiamo a distanza dei punti luminosi che ci osservano, sono gli occhi dei lupi del paramo come precisatoci da Ector. Risaliamo poi un pendio ghiaioso sotto un’incombente parete rocciosa ricoperta da minacciosi e giganteschi stalattiti di ghiaccio. Non fa molto freddo. Sopra un nevaio ci leghiamo e calziamo i ramponi, facciamo due cordate, una con Plamen, Filippo, Dimitri e il sottoscritto, l’altra tutta valtellinese con Cristian, Luciano e Chicco. A 5.600 mt. circa vengono poste dai portatori delle corde fisse.

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La quota comincia a farsi sentire, la nostra cordata procede lenta con frequenti soste. A un certo momento Dimitri si mette seduto sulla neve e afferma di non essere più in grado di salire. Allora Plamen lo fa tornare indietro con un portatore e costringe anche Filippo, suo malgrado, a fare altrettanto, affermando che non sarebbe arrivato in vetta o che comunque vi sarebbe giunto molto tardi e pertanto la discesa nelle ore più calde sarebbe stata oltremodo pericolosa. Io sono dubbioso sul da farsi, ma Plamen fuga tutti i miei dubbi convinto com’è che ce l’avrei fatta e ciò mi dà sicurezza e rafforza la volontà di proseguire .Ridotti così di numero riprendiamo la salita .Sopra di noi le stelle sembrano aumentare di numero e di brillantezza in perfetta sintonia con le luci sotto di noi di Riobamba. La pendenza del ghiaccio non è eccessiva. Ogni tanto ci sono delle piccole seraccate da aggirare e scavalcare dei “penitentes” sculture glaciali forgiate dal caldo equatoriale e dal vento. A circa 6000 mt. la stanchezza comincia a farsi sentire, cammino più lentamente ed ogni tanto sono costretto a fermarmi, ma anche i valtellinesi non sono da meno. Un portatore prende il mio zaino. Così alleggerito cammino più spedito Sembra sempre di arrivare sulla vetta, ma poi con grande disappunto si presenta sempre dietro un dosso glaciale più alto. Alle sette di sabato 30 novembre la cima Ventimiglia 6.300 mt. è finalmente raggiunta, siamo su un lungo plateau di piccoli penitentes .

Foto d’obbligo sulla vetta con il gagliardetto del CAI di Santa Caterina Valfurva. La discesa non crea problemi e alle ore 11 siamo nuovamente di ritorno al rifugio Carrel. Apprendiamo nel frattempo da Filippo che Dimitri in discesa è stato male, intensa stanchezza e dolori precordiali, per cui arrivato al parcheggio è stato portato con un’autoambulanza militare al BC. Una volta rientrati abbiamo avuto la fortuna di vedere Dimitri stare apparentemente bene. Ho però convinto Plamen a portarlo per controlli in una clinica di Riobamba in considerazione dei disturbi accusati e in effetti è stato poi trattenuto in clinica per un infarto miocardico di modesta entità. Tornati al BC il giorno successivo, lo impieghiamo per un suggestivo viaggio appollaiati sul tetto di un trenino che richiama il Far West fino al Nariz del Diablo (naso del diavolo) partendo dal paesino di Alausi, passando su ponticelli larghi quanto le rotaie con un buffo stridio di ferraglie e con gli avanti indietro per superare ripidi tornanti ed un dislivello complessivo di mille metri .Dopo avere visitato a Colta la chiesa più antica di tutto l’Ecuador del 1534 dedicata a Maria della natività, torniamo a Riobamba. Dimitri sta bene, ma per lui il viaggio è finito. Plamen mette in moto il meccanismo assicurativo e potrà comunque tornare in Italia con il nostro volo accompagnato da un medico inviato dall’assicurazione. Lasciamo definitivamente l’altipiano e Riobamba per visitare un Ecuador agli antipodi di quello visto fino adesso ovvero la selva come qui è chiamata e cioè l’Amazzonia. Passiamo da Banos una ridente località termale a 1.800 mt. di quota ai piedi del vulcano Tungurahua “piccolo inferno” in lingua Quechua con le sue spettacolari eruzioni quotidiane, in una del 1999 tutti i ventimila abitanti dovettero lasciare la cittadina ricoperta di ceneri. Bellissimo il santuario della Nuestra Senora de Agua Santa. Andiamo a vedere l’orrido scavato dal Rio Pastaza affluente del Maranon che viene dal Perù e che assieme al Rio Napo che nasce dal Cotopaxi dà origine al rio degli Amazzoni. Percorrendo con un pulmino una strada da brividi senza protezioni su impressionanti dirupi, perdiamo progressivamente quota nella valle del Rio Pastaza circondati da una vegetazione tropicale completamente diversa da quella del “paramo“ con un susseguirsi di bellissime cascate. Il suspense trova il suo apice nell’attraversamento su una piccola teleferica sospesa nel vuoto della profonda valle del Rio. Allietati poi dalla vista di bellissime orchidee e dall’assaggio di gustose banane alla griglia .

A Puyo la discesa ha termine. Altri 90 km. su strada sterrata e sconnessa fra piantagioni di banane, canna da zucchero, e case su palafitte per arrivare alle Cabanas Isla Amazzonia sul Rio Napo dove alloggiamo .Cena con un piatto tipico della giungla:pollo con carote,fagioli e spezie cotto dentro foglie di banane sulla brace. Notte insonne per insetti a iosa nel bungalow con tetto di foglie di palma e canne di bambù. Il giorno seguente, calzati degli stivaloni, con una guida indigena munita di macete facciamo un giro nella foresta vero polmone di ossigeno con 20.000 specie botaniche, 3.800 specie di vertebrati, 1.500 specie di uccelli, 200 di serpenti e 4.500 di farfalle. Ci sono stati anche tentativi di deforestazione, ma fortunatamente non dell’entità di quelli brasiliani e di estrazione di petrolio di cui il sottosuolo è ricchissimo, ma che ha trovato forti opposizioni quando è stato visto che solo la fiamma pilota portava alla scomparsa della vita nella giungla nel raggio di 2 km. Foto alla pianta di elicorno, di caucciù, ad una famiglia Quichua ed a un tentativo di Filippo di imitare Tarzan.Raggiunto il fiume Arajuno affluente del Rio Napo lo si discende in una canoa a motore .Facciamo una sosta in un centro di recupero animali della giungla fra cui un Tucano gestito da volontari e dopo 30 km di navigazione raggiungiamo il Rio Napo e le nostre Cabanas con i colori di un tramonto che rimarranno per sempre scolpiti nella mia memoria..Qui nella selva piogge e sole si alternano ogni giorno .

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Gli indigeni vivono cibandosi di frutti esotici come meloni, ananas, banane,mango, papaya, noci di cocco , cacciano e pescano, coltivando altresì caffè, cacao, di cui l’Ecuador è uno dei maggiori produttori al mondo e canna da zucchero .Le donne Indios dell’ Amazzonia portano i bimbi piccoli con una fascia sul davanti, quelle delle montagne con una fascia sulla schiena, ciò che ha una sua giustificazione .Incontro anche con uno sciamano che è il primo “dottore” ad essere interpellato e mi lascio porre, non senza qualche timore, un serpente boa attorno al collo. Foto di gruppo con una maglietta regalataci da Plamen e ritorno poi in pulmino a Quito attraverso un valico a 4000 mt sotto il vulcano Antisana. La spedizione in Ecuador si conclude con una cena offertaci da Marco Cruz.

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