Kilimanjaro, montagne d’Africa di Nelusco Paoli

Kily“Il Kilimanjaro è un monte coperto di neve alto 19.710 piedi e si dice che sia la più alta montagna africana. La vetta occidentale è detta “ Masai Ngàje Ngài”, Casa di Dio. Presso la vetta occidentale c’è la carcassa stecchita e congelata di un leopardo. Nessuno ha saputo spiegare che cosa cercasse il leopardo a quell’altitudine” (H. Hemingway – Le nevi del Kilimanjaro, I quarantanove racconti)

Sono sempre stato affascinato dagli immensi spazi, dalla natura selvaggia, dai colori e dagli animali dell’Africa ma delle sue montagne conoscevo solo questa frase che Hemingway ha posto a incipit del racconto “Le nevi del Kilimanjaro”. La proposta fattami da Carlo di salire il Kilimanjaro è stata lo stimolo e l’occasione per documentarmi e appassionarmi alle nevi dell’equatore, superando la pigrizia mentale che condannava quelle montagne a essere soltanto lo sfondo silente per un racconto di Hemingway e un luogo strano, dove fra le nevi e i ghiacci, è stata rinvenuta la carcassa di un leopardo. L’atlante geografico dice che il Kilimanjaro è un vulcano spento. Ha tre coni principali: il più alto, il Kibo (5.895 mt.) al centro, il Mawenzi (5.150 mt.) a est e lo Shira (4.106 mt.) a ovest. Soltanto il Kibo, il cono più recente, ha conservato l’aspetto di un vulcano. All’interno della caldera, grande cratere spento che si apre sulla cima, si trova, come in una matrioska, un cono vulcanico secondario chiamato Inner Crater all’interno del quale si apre un altro cono più piccolo (non tanto, dato che ha un diametro di 350 metri ed è profondo 130) denominato Ash Pit. La forma del Mawenzi e dello Shira è fortemente alterata dall’erosione. Il Mawenzi presenta una cresta frastagliata e ripida, mentre dello Shira non è rimasto che un montarozzo privo di rilevanza alpinistica.

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Nel febbraio del 2002, con Carlo, mi sono aggregato a una spedizione per salire il Kibo; nella notte del 17 ho raggiunto il lodge a Marangu, base di partenza per la programmata ascensione. Mi sono addormentato con i suoni e i rumori dell’Africa, senza poter vedere l’oggetto del mio desiderio. Solo all’alba la sospirata cupola si è affacciata fra il rosso degli ibiscus in giardino; sono rimasto affascinato e ho pensato alla meraviglia suscitata nel missionario tedesco Johann Rebmann quando, primo europeo, la vide dallo Tsavo occidentale nel 1848. Nella seconda metà dell’ottocento l’Europa non conosceva l’interno dell’Africa. I portoghesi avevano diffuso vaghe e leggendarie notizie dell’esistenza di un “Monte Olimpo degli Etiopi”, ove questo popolo riteneva fosse sepolto re Menelik figlio di Salomone e della regina di Saba. Il reverendo Rebmann dunque non sospettava l’esistenza di questa montagna isolata, candida, coperta di ghiacci fino al limite della foresta (nell’ottocento i ghiacciai si estendevano fino a 4.000 mt.) e tale fu la sua meraviglia che si mise in ginocchio e ringraziò Dio per tanta bellezza, recitando il salmo CXI.

Il missionario comunicò la scoperta a Londra, ipotizzando si trattasse dei monti della Luna di Tolomeo ma il suo racconto suscitò ostilità e sarcasmo nella Royal Geographic Society. Il presidente Desborough Cooley aveva elaborato un sistema per colmare le lacune della carta dell’Africa che non comprendeva alcuna montagna dove il reverendo Rebmann aveva visto invece quello che sarebbe stato nominato Kilimanjaro. Neppure la scoperta di un’altra grande montagna coperta di ghiacci a circa trecento chilometri a nord del Kilimanjaro, fatta l’anno successivo dal reverendo Johann Ludwig Krapf (confratello del Rebmann) valse a far cambiare opinione ai signori della Royal Geographic Society. Soltanto dopo il 1883 in seguito alle relazioni di Joseph Thompson e del viaggiatore tedesco dottor Fischer s’iniziò a riconoscere la scoperta del reverendo Rebmann. Due importanti associazioni scientifiche britanniche organizzarono dunque una spedizione sulla montagna sotto la guida di Harry H. Johnston; nonostante le difficoltà Johnston raccolse un’enorme quantità di dati scientifici e riuscì a raggiungere la ragguardevole quota di 5.700 mt.

Ho iniziato l’ascensione alla vetta del Kibo dopo un giorno di permanenza al villaggio di Marangu per organizzare la spedizione (il villaggio è per il Kilimanjaro quello che Chamonix è per il Bianco; tutti gli alpinisti vi soggiornano). Raggiunta l’entrata del Kilimajaro National Park iniziamo a salire “pole pole”, piano piano, come dicono gli africani. Percorrendo circa mille metri di dislivello ogni giorno con circa 5 o 6 ore di cammino, in tre giorni è possibile raggiungere la capanna Kibo, posta circa all’altezza del Bianco (4.703 mt.). Il primo giorno, avvolti da una lussureggiante e fitta foresta equatoriale, abbiamo raggiunto la capanna Mandara a 2.700 mt.; il secondo giorno abbiamo percorso la brughiera dove dominano le protee per arrivare fino alla capanna Horombo a 3.720 mt. Il terzo giorno il gruppo si è preso una giornata di acclimatamento camminando fra la vegetazione di alte erbe, dove predominano i seneci giganti e le lobelie, e fra i deserti di alta quota. Abbiamo raggiunto così la Mawenzi Hut, base per l’ascensione all’omonima cima, per poi rientrare alla Capanna Horombo; lungo il percorso ci siamo imbattuti nell’affascinante gambo striato di un enorme fungo di roccia: la Zebra Rock.

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Il quarto giorno, ben acclimatati, percorriamo la ventosa e fredda sella dei venti posta fra il Kibo ed il Mawenzi e raggiungiamo la capanna Kibo. L’ultimo giorno sveglia a mezzanotte e trenta, breve colazione e partenza per la Gilman’s Point, la breccia sul cratere a 5.685 mt. Nel buio e nel freddo ci indica il ripido sentiero Simon, guida e capo dei portatori, munito di una lanterna a petrolio. Poco prima dell’alba siamo sulla breccia; una fitta nebbia ci impedisce la vista del sorgere del sole sul Mawenzi e consente per solo brevi squarci la visione del cratere. E’ a questo punto che finisce l’ingaggio della guida ma io e Carlo decidiamo di proseguire; seguiamo il crinale del vulcano in un ambiente imbiancato dalla neve caduta nella notte, dove si individua a breve distanza un enorme ghiacciaio, e in circa un’ora e mezzo di cammino raggiungiamo l’Uhuru Peak, il tetto più alto dell’Africa. Anche sulla vetta la nebbia la fa da padrona. Si distingue soltanto il cartello con la scritta “ Congratulations! You are now at Uhuru Peak, Tanzania, 5895 M. A.M. Africa highest point”. Ci abbracciamo e ci stringiamo le mani, soddisfatti e felici. Durante la discesa Carlo rispondendo al “giuramento di Ippocrate” propina ai turisti e ai portatori, accasciati per la diarrea e per il mal di montagna, pastiglie antidiarrea e “punturoni” di una pozione che li rimette in condizioni di proseguire, mentre io fungo da infermiere, abbeverando i disidratati. Le cure hanno avuto un esito tanto positivo che sull’aereo di ritorno verso Amsterdam un orientale, probabilmente giapponese, assistito durante la discesa ogni volta che ci incrociava ci salutava riconoscente con profondi inchini.

Grazie alle capanne presenti sul percorso e ai portatori che si assumono i pesanti carichi e aiutano l’escursionista a risolvere ogni necessità, la salta del Kibo è diventata oggi, per persone allenate, un piacevole trekking di alcuni giorni. Anche l’ultima salita, con gli oltre mille metri di dislivello a quota 5.000, non mi è sembrata eccessivamente faticosa; molto meno delle grandi sudate e scalmanate fatte a sciare in Appennino sotto la guida dall’inflessibile “Bergfuhrer” Sergio. Ma all’epoca dei primi tentativi, negli anni ottanta dell’ottocento, l’ascensione al Kibo era impresa di tutto rispetto. Era già difficile percorrere il tratto che da Zanzibar porta a Maranu (l’attuale Marangu): si dovevano superare le resistenze degli indigeni Chagga e dei loro re umorali e capricciosi, decisamente ostili agli europei; attraversare la lunga fascia di fitta foresta equatoriale, popolata di varie belve feroci (oggi esistono soltanto erbivori e scimmie che evitano ogni contatto con i turisti); infine si poneva il non facile problema di raggiungere la breccia sul cratere aprendosi una traccia fra la neve ed i ghiacci. Nonostante queste difficoltà gli europei continuarono a organizzare spedizioni alla montagna che aveva affascinato il reverendo Rebmann. Dopo Harry H. Johnston, nel 1887 due diverse spedizioni tentarono, senza successo, la cima del Kibo ed esplorarono le pendici del Kilimanjaro: quella del conte Teleki von Szék ed una successiva di pochi mesi, organizzata e guidata dal geologo tedesco Hans Meyer.

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Meyer. nato a Hildburghausen il 22 marzo del 1858 è il personaggio che sarà determinante per la conquista del Kibo. Grande viaggiatore e appassionato di montagna, si era prefisso lo scopo, come fedele suddito del Kaiser, di conquistare per i tedeschi la vetta del Kilimanjaro, montagna avvistata per primo da un tedesco e inclusa nel territorio dell’Africa Orientale Tedesca. Con grande difficoltà riuscì a organizzare una spedizione al Kilimanjaro che non ebbe successo. Soltanto per superare la fitta foresta che cinge la montagna, quella che oggi si compie con una piacevole passeggiata di cinque o sei ore, impiegò cinque giorni. Nella zona superiore, intorno ai cinquemila metri il suo compagno, in preda al mal di montagna, rinunciò a proseguire e infine anche Meyer dovette desistere di fronte ad una parete di ghiaccio per superare la quale non era attrezzato. Non si diede per vinto. Tornò in Africa l’anno successivo, nel 1888. Anche questa spedizione si concluse malamente. Meyer e il suo compagno, il geografo austriaco Baumann furono catturati e fatti prigionieri da una sceicco arabo che pretese un riscatto per il loro rilascio.

Il terzo tentativo di questo esploratore ostinato e intrepido avvenne nel 1889. In quest’occasione Meyer si avvale della collaborazione di uno fra i più forti alpinisti del momento: l’austriaco Ludwig Purtsheller. Nato a Innsbruk il sei ottobre del 1849 era solito arrampicare principalmente sulle montagne di casa, le Dolomiti, in cordata con Emil e Otto Zsigmondy; con loro aveva fatto molte scalate e aperto la prima via alla Cima Piccola di Lavaredo. Anche se le Dolomiti erano il terreno principale, Purtsheller si era misurato, dimostrandosi alpinista completo, anche con i ghiacci delle Alpi occidentali; sempre in cordata con i fratelli Zsigmondy aveva salito il Canalone Marinelli (allora privo di nome) nel gruppo del Rosa, effettuato la prima traversata del Cervino (12/06/1885) e quella della Meje nel Delfinato. Facendo tesoro dell’esperienza acquisita con le spedizioni precedenti Mayer e Purtsheller partirono da Zanzibar e in meno di un mese iniziarono la scalata.

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Affrontarono la fitta foresta avvalendosi dei portatori per poi rimanere con una sola guida. Arrivati alla base del Kibo, lasciarono la guida alla tenda e da soli iniziarono la scalata del ghiacciaio incontrando non poche difficoltà. Superarono la parete di ghiaccio che aveva vanificato il primo tentativo di Meyer, scavando gradini nel ghiaccio durissimo fino a raggiungere il cratere. I nostri erano arrivati sulla cima del vulcano ma non sulla vetta più alta. Stanchi e affaticati dovettero rientrare al campo. Due giorni dopo rifecero il cammino percorso e individuato il punto più alto della montagna ci si diressero contornando il bordo del cratere. In un’ora e mezza di salita fra neve granulosa, rammollita dal sole, lo raggiunsero e rilevarono che la lettura dell’aneroide segnava 6.000 mt. Nella sua relazione Meyer ci racconta: “ Con un triplice Urrà! energicamente sostenuto dal signor Purtsheller, piantai la bandiera tedesca, portata con me nel sacco, esclamando con esultanza: “con il diritto del primo salitore, battezzo Punta Kaiser Wilhelm questa finora sconosciuta e innominata cima del Kilimanjaro, punto culminante della terra africana e tedesca!” (Hans Meyer – Ost-Afrikanische Gletscherfrten – Lipsia 1890)

Nonostante la conquista, il Kilimanjaro continuò ad affascinare il dottor Meyer tanto da indurlo a organizzare, dopo nove anni, un’altra spedizione. Nel 1898 esplorò le pendici della montagna scoprendo tre ghiacciai che scendono dalla calotta sommitale del Kibo sul versante nord -ovest e tornò sulla vetta con una via diversa da quella percorsa nell’89. Hans Meyer si spense a Lipsia il 5 luglio del 1929. Raggiunta l’indipendenza, la Tanzania ha cambiato il nome alla vetta da lui conquistata e intitolata al Kaiser Wilhelm, ribattezzandola Uhuru Pick, Picco della Libertà.

Purtscheller non rimase affascinato né dall’Africa né dal Kilimanjaro. L’ascensione del Kibo fu uno fra gli episodi della sua intensa attività alpinistica. Continuò ad arrampicare ed esplorare altre montagne; si spinse fino al Caucaso dove nel 1891 raggiunse la cima dell’Elbrus. Si spense a Berna il 3 marzo del 1900 in seguito ad una caduta durante una salita all’Aiguille du Dru nel massiccio del Monte Bianco.

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