(*) GIANCARLO DOLFI – CAI Firenze – Istruttore Nazionale di Alpinismo Emerito
Giulio Gabrielli non è stato solo un grande compagno di cordata è stato anche un uomo di una simpatia infinita, un amico sempre disponibile.
Ci siamo conosciuti l’ultimo giorno dell’anno 1957, un giorno passato nella malga Rolle sotto il Cimon della Pala di San Martino di Castrozza, proponendoci di effettuare, nel giorno successivo, la prima invernale della via Andrich alla parete Nord Ovest.
Nei giorni precedenti era nevicato molto e per salire alla malga usammo dei lunghi sci da fondo con vere pelli di foca fissate alla suola con laccini di cuoio con fibbia. In attesa di salutare l’anno vecchio con il tradizionale brindisi, parlammo a lungo delle nostre esperienze approfondendo un pò la nostra breve amicizia. All’alba la giornata si presentava fredda ma con tempo buono, calzammo di nuovo scarponi e sci e iniziammo a salire verso l’attacco della via.
Arrivati sotto la parete lasciammo gli sci e calzammo degli scarponi più leggeri. La parete, nella prima parte più facile, era ricoperta di neve che ostacolava la progressione, nella seconda invece più verticale, era il ghiaccio a creare problemi. I pochi chiodi presenti infissi nelle fessure erano per lo più nascosti dalle incrostazioni di ghiaccio e spesso non potevamo usarli. Naturalmente le difficoltà aumentavano e rallentavano la salita.
Le giornate d’inverno si sa sono corte e il sole cominciava a tramontare. La situazione era abbastanza critica, eravamo in piena parete verticale e abbastanza in alto, forse due o tre ore sarebbero bastate per uscire in vetta ma avevamo ormai esaurito tutti i chiodi di scorta che avevamo portato con noi. Sopra di noi, a pochi metri, una roccia un pò strapiombante formava uno spuntone. Giulio lo raggiunse, ci passò sopra la corda a doppio e ci legammo penzoloni. In quel punto la parete formava un piccolo diedro verticale, Giulio riuscì a sedersi su un sasso incastrato nel fondo, io mi accovacciai sullo spigolo esterno sopra la matassa della seconda corda posata su un una tacca di dieci centimetri. Ci volle più di un’ora per entrare nei pesanti sacchi letto di capoc che ci eravamo trascinati dietro. I movimenti dovevano essere calcolati in maniera che le corde che ci sostenevano fossero sempre in tensione. Se si fossero allentate avremmo potuto scivolare dallo spuntone con gravi conseguenze! Un cordino ai piedi attaccato in vita per sostenere le gambe, un cordino sotto le ascelle e fissato in alto alle corde, per non far cadere il torace in avanti.
Era il primo giorno dell’anno 1958, il sole era già tramontato, le stelle si accendevano da tutte le parti, la luna faceva capolino nascosta dalle cime delle Pale. Più di mille metri sotto s’intravedeva serpeggiare la strada di Passo Rolle. Eravamo veramente sospesi nel vuoto. La stanchezza prese il sopravvento e ci addormentammo, di certo perché ognuno di noi aveva sentito russare l’altro. Il termometro che usavo per scegliere le scioline da usare per gli sci, nelle gare di fondo, era attaccato fuori dal sacco letto; segnava quindici gradi sotto zero. Per fortuna non tirava un soffio di vento.
La mattina presto tutti intirizziti dal freddo e dalla posizione scomoda non riuscivamo a muoverci, finché il tepore emanato da un raggio di sole, ci rianimò.
Calammo in corda doppia fino alla base, ma gli sci non c’erano più. Il Parroco di S. Martino, bravo alpinista e amico di Giulio, come da accordi precedenti, era venuto a prenderli per portarli in cima al Cimone, se avessimo raggiunto la vetta sarebbe stata una bella sciata.
Giulio abitava a Predazzo in una casa caratteristica, un antico maso, suo padre teneva un negozio di articoli sportivi situato sulla via principale del paese. Ogni qual volta andavo in Dolomiti, la prima tappa era la bottega, mi fermavo a salutare il Pa’ di Giulio e a vedere le ultime novità sui materiali alpinistici. Poi in paese a incontrare gli amici che erano in villeggiatura e che, con Giulio, portavamo ad arrampicare al Gardeccia, alle Torri del Vajolet o al Passo Pordoi, su vie classiche come, ad esempio, la Maria.
Il nostro regno erano tuttavia le Pale di San Martino, all’epoca un po’ meno frequentate, dove progettavamo di aprire delle vie nuove. Al ritorno dalle ascensioni in quel Gruppo eravamo obbligati a sostare in Bellamonte, ridente località tra Passo Rolle e Predazzo, per salutare altre amiche di Giulio che tifavano per noi. Per gli allenamenti ci avventuravamo nello vicina Valle del Travignolo, formata da rocce porfiriche, ricche di fessure, camini e diedri lisci come gli specchi. Il motto di Giulio era “dove c’è un appiglio buono l’alpinista bravo passa!“.
Alla fine della stagione alpinistica, ci trovavamo a Trento in casa di altre amiche. Allora si ballavano i balli ”sul mattone” e in seguito anche il famoso twist. Giulio spopolava, aveva un gran successo per la sua espressiva generosità accompagnata sempre da una goccia di spirito. Un giorno in montagna, durante un bivacco, gli chiesi: “Ma come fai con tante ragazze!“, mi rispose: “Ma, sai nel mio cuore c’è sempre un posticino per tutte!“.
Nel dopo guerra l’alpinismo trentino era ricominciato con i giovani, emuli dei grandi del passato. Una corda di canapa, una manciata di chiodi e quattro o cinque moschettoni. L’assicurazione del compagno veniva effettuata in piedi, con la corda passata sulla spalla e sotto l’ascella opposta, o in vita, se seduti con i piedi ben puntati. La discesa: in arrampicata, sulle rocce facili, o in corda doppia se c’era uno spuntone di roccia o un chiodo per ancorare la corda.
Legarsi insieme era un vincolo di vita o di morte. Ci voleva una grande fiducia, parecchia incoscienza e soprattutto molta fortuna! Il nodo più usato è sempre stato il “bulino”o “gassa d’amante”. I movimenti delle dita, delle mani, dei polsi per costruirlo, costituisce, ancora oggi un rituale che presuppone una concentrazione assoluta. Ai corsi di roccia e nelle salite più impegnative avevamo cominciato ad usare, alle soste, l’autoassicurazione a un ancoraggio come uno spuntone, una clessidra o un chiodo.
Naturalmente con l’uso delle staffe e di parecchi chiodi, per superare i passaggi strapiombanti e poveri di appigli, l’autoassicurazione era da considerarsi quasi automatica. In questi casi si usavano due corde di diametro inferiore, che potevano scorrere meglio nei moschettoni e servire per manovre particolari come i pendoli, traversi, discese. Nella progressione a “forbice” le due corde non passavano nei chiodi accoppiate ma semplici e alternate, formando la figura caratteristica delle forbici aperte. I chiodi per la roccia calcarea erano di ferro più o meno dolce. Quando si conficcavano nelle fessure ne seguivano l’andamento e in base al suono, che nel battere con il martello si liberava nell’aria, si poteva valutarne l’affidabilità. L’arrampicata è sempre stata un arte, la buona chiodatura la sublimava. Anche i moschettoni erano di ferro, di forma ovale e pesavano assai. In fondo alla valle, percorsa dalla strada che da Predazzo porta al Passo Rolle, si staglia una parete gialla.
Nel 1958 non era ancora stata scalata; è la parete Sud Ovest della cima dei Burelloni. Alla fine di agosto si parte. Viene con noi anche la Vittorina, la ragazza del Campanile Basso. Dalla Capanna Segntini, giù in Val Venegia, poi per la cengia dei Camosci, grande traversata sotto il Cimon della Pala, la Cima Vezzana, fino alla base della cima tanto agognata.
Si arrampica sulla parte più bassa della parete. Uno zoccolo di 350 metri di terzo e quarto grado, sfruttando le fessure e le strutture più facili. Il recupero dei pesanti zaini è molto laborioso e ci rallenta molto. Raggiunta la comoda cengia sovrastata dalla gialla parete strapiombante, si sistema il materiale e mentre la Vitti prepara un pasto caldo io e Giulio saggiamo il punto migliore per l’attacco. L’ambiente che ci circonda è unico e di indescrivibile bellezza, se ci voltiamo verso la valle che abbiamo percorso per salire si rimane senza fiato dallo stupore. Ci siamo legati con due corde e Giulio, piantando qualche chiodo, è già salito alcuni metri anche se le difficoltà sono notevoli e per proseguire dobbiamo usare le staffe. Il sole è tramontato e un profumino di minestra ci riporta alla realtà. La giornata è finita, si riprenderà domani.
Ci vuole una mattinata di lavoro per superare il grande strapiombo. “Vieni su a vedere” esclama Giulio “porta tutti i chiodi che ci sono rimasti“. Salgo più velocemente possibile, ma quando arrivo alla sosta fatta da Giulio rimango di stucco.
Un’enorme placca gialla sbarra la via di salita, proviamo a deviare a destra e a sinistra ma non c’è verso di conficcare un chiodo. “Ci vogliono i chiodi a pressione” dico io, ma non li abbiamo. Seduti sulla, cengia si fanno delle ipotesi. “I chiodi a pressione sono stati fabbricati dalla ditta Cassin, proprio quest’anno e forse al negozio del babbo di Giulio qualcosa c’è!” dice la Vitti. Mi viene proposto di ritornare a valle per procurarne un pò ma io non sono d’accordo, ci vogliono molte ore di cammino, ci sono da attraversare due o tre canali ghiacciati e da solo, senza piccozza e ramponi, proprio non me la sento. Intanto s’è rifatto buio, oltre ai chiodi anche il cibo è finito e si decide, con molto dispiacere di interrompere l’ascensione e ritornare tutti giù a Predazzo.
Ormai siamo alla fine di agosto e qui la stagione sta per finire, non potremo più tornarci fino all’anno prossimo e poi Giulio, per quest’anno, non è più disponibile. La Vitti era proprio demoralizzata, le sue ferie stavano per terminare, il sogno di poter aprire una via importante, si era infranto. Il tempo prometteva bene e avendo ancora qualche giorno disponibile decidemmo di andare in Lavaredo per fare qualche salita piacevole: il 3 settembre, scalammo la Cima Grande per la via Dibona-Stùbler, e il 5 la Cima Piccola per la via Comici sullo Spigolo Giallo.
Soddisfatti ci salutammo con la speranza di rivederci l’anno prossimo, insieme a Giulio, per terminare l’impresa. L’8 Settembre stavo per ripartire da Predazzo per Firenze, quando vidi arrivare Giulio.
“Aspetta ci sono delle ragazze alle quali avevo promesso di portarle ad arrampicare, aiutami” “D’accordo” risposi e afferrata una corda e un poco di materiale, saltai in macchina. Partimmo in direzione del Passo Pordoi. Le due ragazze sedute dietro venivano dalla Spagna, erano in villeggiatura in val di Fassa, e le avevo conosciute qualche giorno prima. Facemmo due cordate e scalammo la via Piaz al Pilastro Pordoi.
Un’ascensione classica, molto ambita. Fu l’ultima volta che passai una piacevole giornata alpinistica con Giulio. Francesca, la sua fidanzata, trentina molto bella e in gamba, era la segretaria del la “SOSAT”, Gruppo Studentesco della SAT di Trento, che organizzava i Corsi di Roccia e gite in montagna.
Arrivato a Firenze trovai una lettera del Provveditorato agli Studi che mi concedeva l’Incarico per l’insegnamento dell’Educazione Fisica per l’anno scolastico. Accettai con molto entusiasmo, perché era il lavoro che si addiceva di più alle mie attitudini e mi dava la possibilità di non mollare completamente l’attività alpinistica. Giulio, nello stesso periodo, superò brillantemente gli esami di Magistratura e mise in programma una serie di salite da effettuare nell’anno successivo prima di cominciare ad esercitare il lavoro di Magistrato. Così disse e così fece!
L’inverno passò velocemente, il mio nuovo lavoro mi teneva molto impegnato. Le gite scolastiche, gli esami di Stato alle Scuole Medie e Superiori. Nei ritagli di tempo, sulle Alpi Apuane, riprendevo l’attività alpinistica. Finalmente ai primi di Agosto, con la Scuola di Alpinismo “T.Piaz”, al Vajolet, per un Corso di Roccia. Con Guido Ridi aprimmo una via sulla Torre Est del Gruppo, che per l’epoca fece molto scalpore.
Giulio arrampicava con Toni Masè ed era entusiasta per le tante ripetizioni di vie classiche effettuate in Dolomiti, secondo il suo programma, gli era rimasto da scalare la Via Soldà alla Marmolada. Era già Settembre e con Guido avevamo deciso di ripartire per Firenze quando il papà di Giulio ci chiamò. “Non sono ancora ritornati” esclamò “andate a cercarli“.
Ci precipitammo a Predazzo al negozio dove il papà di Giulio aveva preparato delle coperte e dei viveri e caricati gli zaini ci accompagnò a Canazei dove si stava formando una squadra di soccorso. Aggregati al gruppo di quattro guide partimmo immediatamente per il Lago Fedaia e la seggiovia Marmolada. Da ieri pomeriggio e durante la notte il tempo era peggiorato, le alte cime erano imbiancate. A due, a due, salimmo sui “bidoni” e raggiungemmo Pian dei Fiacconi. Un manto di neve alto quaranta centimetri copriva tutto il ghiacciaio. Mentre le guide facevano il conto a chi doveva aprire la traccia per raggiungere la Cima Penia, mi caricai dello zaino e seguito da Guido iniziai a salire. Raggiunta la cresta terminale, le guide ci precedettero e insieme raggiungemmo la capanna in vetta.
Nessun cenno né segno di presenza di qualcuno. La cordata di Giulio non era passata da lì. Ci accomodammo sul tavolato del ricovero, e passammo la notte. All’alba della mattina seguente, dagli ancoraggi della Cima, si calò per circa cento metri una guida per cercare qualche traccia. Niente! Allora si decise di scendere alla base della parete, passando per la ferrata. Alcuni vecchi ancoraggi che spuntavano dal ghiaccio ci servirono per assicurasi nella discesa, la corda fissa non c’era più, sarà stata divelta dalle slavine. Arrivati alla forcella Marmolada ci dirigemmo verso il Rifugio Contrin.
Incontrai Marino Stenico e Settimo Bonvecchio che ci aggiornarono sulla situazione. Guardando la parete con i binocoli si vedeva poco per la nebbia. Qualcosa tra la cima e la seconda cengia, probabilmente stanno bivaccando? La mattina presto erano partite due cordate: una con Bepi De Francesch e una con Franceschini. E tanti altri alpinisti pronti ad aiutare.
Marino mi chiese di andare con loro per attrezzare le discese in corda doppia, accettai volentieri e rivolto a Guido lo consigliai di andare al Rifugio ad aspettarmi.
Avevano due matasse di corde “Cassin” di 120 metri ciascuna, diametro 12 mm. da installare in parete, ne presi una e ci avviammo verso l’attacco della via.
Superate alcune roccette Stenico si legò e iniziò a salire in direzione della prima cengia. Finita la corda, si spostò sopra un terrazzino e organizzò un punto di sosta.
Settimo ed io lo seguimmo e appena sistemati si rivolse a me dicendo “ora tocca a te, sei il più giovane“. Rimasi stupito e non capivo. Guardai avanti: un rivolo di acqua fredda scendeva dalla parete, erano le undici e mezzo, il ghiacciaio della Marmolada cominciava a sciogliersi. Mi feci coraggio: mi spogliai della camicia e camiciola, le riposi in un anfratto e indossata la giacca vento di cotone pesante, mi legai con la corda e iniziai a salire, arrampicando su roccia buona anche se abbastanza umida. Infatti, dopo una decina di metri cominciai a sentire degli schizzi, il ruscello era vicino, studiai bene il passaggio: la roccia buona, difficoltà sul V. Mi tuffai e in pochi attimi uscii fuori dallo scroscio ma l’acqua gelida che era entrata dalle maniche mi aveva inzuppato completamente. Non avevo tempo da perdere, dovevo percorrere ancora una quarantina di metri e la corda bagnata cominciava a pesare. Non conoscevo la via e dovendo trovare un buon punto di ancoraggio guardavo spesso in alto l’andamento della parete.
Ad un tratto mi sembrò di sentire un lamento e infatti più su, accovacciato su un terrazzo, c’era qualcuno.
Appena mi vide, con una voce flebile e tremolante, disse “sono Franceschini, aiutami, fammi scendere“.
Era quasi assiderato e tremava come una foglia. Partito la mattina presto, aveva cominciato ad arrampicare ma non essendo allenato si era fermato. Il suo compagno, invece, aveva proseguito aggregandosi alla cordata di Bepo De Francesc che li precedeva. Appena raggiunto, controllai l’ancoraggio e installata la corda a doppio, lo feci scendere verso i miei compagni che tenevano i capi della corda, la discesa era in diagonale. Avevo terminato il mio compito, da qui sarebbero scesi tutti quelli, soccorritori e soccorsi, che erano ancora in parete.
Cominciavo ad avere freddo, scesi giù. Passai sotto la cascatella e raggiunsi la sosta dove Marino mi stava aspettando. “Cosa cerchi? I tuoi vestiti l’ha presi Franceschini perché moriva di freddo. Vai, Vai, te li lascia al Rifugio“. Nella cameretta messa a disposizione dal gestore del Rifugio Contrin, ritrovai, tutti ripiegati per benino, i miei indumenti.
“Arrivano, arrivano!“
Per primo fu fatto scendere Toni Masè, il copagno di cordata di Giulio. Lo vidi alle ultime corde doppie, poi scomparso tra la folla di parenti e amici. Giulio irraggiungibile era rimasto lassù. Anche Cesare Maestri andato con l’elicottero, disse che non si poteva far nulla, troppo vento. Nel frattempo era ripreso a nevischiare e in alto infuriava la bufera. Dopo dieci giorni Cesare tornò con l’elicottero a recuperare la salma.
Dalle parole di Toni:
A causa del tempo incerto avevano aspettato ad attaccare la via. Verso le undici una schiarita; partono! Salgono veloci e in poche ore superano le maggiori difficoltà ma giunti al canalino di uscita comincia a nevicare. Giulio prova varie volte ma viene respinto dalla neve che si accumula e gli scivola addosso.
E’ tardi, bisogna tornare indietro. Giulio pensa di calare Toni sulla cengia, ma è lontana, allora unisce le due corde con un nodo. La parete strapiomba e Toni con un pendolo riesce a posarsi sulla cengia. In teoria le corde, anche se unite, sarebbero state corte ma con l’allungamento provocato dal peso arrivavano precise.
Con le corde tese al massimo Toni non si può muovere, è costretto a sciogliersi. Il capo gli sfugge dalle mani. E’ già buio, Giulio si prepara a scendere col sistema alla “fassana”, cordino piegato ad otto con moschettone all’incrocio e infilato nelle cosce. La corda di discesa veniva fatta passare nel moschettone, poi su una spalla, dietro la schiena e tenuta dalla mano opposta come già descritto sopra. Suppongo che Giulio, sapendo che Toni è salvo sulla cengia, si sentisse più sollevato e lo potesse raggiungere. Inizia la discesa, la corda che scorre sul corpo gli provoca un senso quasi di piacere e di speranza. E’ un attimo perché nella mano che guida la corda e da velocità alla discesa, arriva il famigerato nodo. Giulio è completamente nel vuoto, cerca di dondolarsi per arrivare alla roccia ma è troppo lontana. Toni intravede la corda che ciondola, circa quindici metri più in alto, è disperato, ma non può fare altro che incitarlo a non mollare. La mano non tiene più. La corda riprende a scorrere, il nodo che strisciando sulla schiena supera la spalla va a bloccarsi inesorabilmente nel moschettone. Con le ultime forze che gli rimangono cerca di farlo passare ma è proprio il peso del suo corpo a impedirlo. Tutti i tentativi sono inutili, probabilmente non possiede né materiale adatto, né le forze necessarie per tentare una manovra per superare l’ostacolo o perlomeno per sistemarsi per un bivacco di fortuna. Seguono alcune ore di indescrivibile sofferenza. Toni segue i suoi silenzi, i lamenti, poi con voce straziante, mamma, mamma…
L’estate successiva, in onore di Giulio, sono andato alla Cima dei Burelloni per cercare di completare la via iniziata con Lui e la Vittorina, sulla parete S.O. Arrivato allo strapiombo giallo, un amara sorpresa… Non c’èrano più chiodi!
Non mi persi d’animo e con molta pazienza, passai tutto il pomeriggio per rinchiodarlo. Le poche fessure buone erano state sciupate per levare i chiodi. Scesi in cengia per bivaccare e la mattina dopo ricominciai la salita.
Avevo portato un cordino lungo sessanta metri e un gancio particolare per recuperare il sacco con il materiale, che si sganciava dal chiodo con la trazione dall’alto della corda. Superato lo strapiombo,dopo qualche metro, mi ritrovai davanti alla placca che ci aveva fermato al primo tentativo, con la differenza di una fila di chiodi a pressione che mi facilitò molto la progressione.
In poche ore raggiunsi la vetta e giù verso la cengia dei Camosci. Al Passo Rolle mi fermai a salutare il “vecio” Paluselli, che conosceva Giulio fino dall’infanzia, mi guardò negli occhi e capì … Non disse nulla, mi salutò porgendomi la sua mano callosa che strinsi come un abbraccio e me ne andai con gli occhi luccicanti. Avevo effettuato la prima ripetizione e la prima solitaria della via aperta pochi giorni prima, da Quinto Scalet e compagni.