Il mio Nepal di Carlo Labardi

Come ha scritto Erri De Luca ”un innamorato di montagne, se può permetterselo, dovrebbe andare almeno una volta a visitare le più alte,Nepal, Karakorum, per devozione di pellegrino, non necessariamente con intento di arrembaggio”. Io ho avutola fortuna di andare più volte in quel meraviglioso e, al tempo stesso, poverissimo paese che è il Nepal.

Quando nello scorso mese di aprile un sisma di fortissima intensità lo ha colpito, e si rincorrevano le immagini sui vari canali televisivi, un senso di profonda tristezza mi ha pervaso e nella mia mente sono cominciati a rincorrersi ricordi e riflessioni su quello che potrà essere il futuro di questa gente che ha nel turismo una risorsa fondamentale. A prescindere logicamente da Katmandu dove le conseguenze del sisma sono state a tutti gli effetti disastrose, com’è ridotta la valle del Khumbu che porta al BC dell’Everest? Come le valli del Marsyangdi River e del Kali Kandaki o quella dell’Hongu e Ingkhu Khola? Per citare alcune di quelle che ho percorso per salire dei “trekking peaks” di oltre seimila metri. Nella valle del Lantang dove sono stato nell’autunno del 2012 per salire lo Yala Peak (mt. 5.540) con un gruppo di cui facevano parte anche gli amici Gianluca Zuppani, Nelusco Paoli e Luca Ciappi. Sappiamo per certo che è stata la più colpita dal sisma e che una frana di rocce e ghiaccio ha travolto il villaggio di Lantang distruggendolo quasi completamente con  centinaia di morti fra cui due speleologi italiani: Gigliola Mancinelli ed Oskar Piazza. Ricordo che avevamo fatto tappa in questo grazioso villaggio, accolti gentilmente dalla popolazione alla quale fra l’altro avevamo lasciato del materiale scolastico. Pensare che probabilmente gran parte di questi bimbi cui era destinato questo materiale non ci sono più a correre, scherzare e giocare con i loro visi sporchi e sorridenti mi fa venire un nodo alla gola.

La domanda che mi pongo è: quanto tempo occorrerà a questo paese per risollevarsi?

Conoscendo la filosofia di vita dei suoi abitanti in particolare la loro tenacia nel resistere alle avversità e auspicando altresì aiuti importanti da parte di tutti coloro che lo amano, una volta spentisi i riflettori iniziali, confido che ciò avvenga in tempi meno lunghi possibile. I contatti avuti recentemente con l’amico Carlo Marberto dell’Hymalaian Trailfilder mi fanno ben sperare a riguardo. Grazie ai contributi giunti dalla Comunità Europea e dagli USA, molti templi della valle di Katmandu sono già in via di avanzata ristrutturazione. Purtroppo ci mancheranno le decine di migliaia di morti.

Il sogno di vedere da vicino l’Everest, la montagna più alta del mondo, in nepalese Sagarmatha (Dea del cielo ) e in tibetano Chomolungma (Dea madre della terra ), si è avverato per me nell’autunno del 1997. Faccio parte di un gruppo di trekkers guidato da Marcello  Cominetti. Con il sottoscritto anche l’amico Alessandro Aiazzi, “Zolfino” del CAI di Sesto Fiorentino. Nostro obiettivo era il classico trek nel Khumbu e la salita alpinistica dello Imjatse ( Island Peak) di mt. 6.189. Le ghirlande di fiori profumati con cui ti cingono il collo quando arrivi a Katmandu, rituale che si ripeterà sistematicamente anche nei viaggi successivi, ti danno subito un’idea della gentilezza di questo popolo. Katmandu, città caotica ma affascinante, così diversa dal nostro mondo occidentale. Misteriosa e favolosa con i suoi odori di incenso e di altre spezie che ti permeano il corpo e che ti porterai fino in  Italia. Ovunque una grande spiritualità che non fa differenza fra induismo e buddismo, perfettamente integrati fra loro come lo sono le varie etnie presenti nella valle. Gli occhi dorati di Budda che ti scrutano dall’alto e quasi sembra vogliano interrogare la tua coscienza nei grandi stupa di Bodanath e Swayambunath, il  cosiddetto tempio delle scimmie, orlati da una miriade di bandierine di preghiera. Durbar Square la piazza che racchiude il cuore della città dove si raggruppano i templi principali in mattoni con tetti a file degradanti testimoni di secoli di storia, il vecchio palazzo reale, la casa della Kumari Reale una bambina venerata dagli indù come una dea vivente ma soprattutto la grande scultura nera raffigurante il dio Shiva nella sua forma più terrificante con centinaia di candele accese e una capretta incatenata, a fianco, in attesa di essere sacrificata.

I tanti tempietti e tabernacoli screziati con polvere color vermiglio e macchiati di sangue a testimonianza di offerte sacrificali durante quella giornata sacra per gli indù. Una fila interminabile di fedeli in paziente attesa di salire al tempio dedicato alla Dea Taleju. Ma ciò che maggiormente mi aveva impressionato era stata la visita a Pashupatinath sul Bagmati River, un fiume Gange in piccolo. Qui sorge il tempio più sacro dell’induismo in Nepal, tempio del XIII secolo dedicato a Shiva, il Dio che rappresenta il concetto dualistico della distruzione e della creazione. E’ proibito agli stranieri ma il suo vasto cancello non riesce a nascondere ai nostri occhi il colossale toro di rame inginocchiato nel cortile e il grande fallo (linga). Fuori ali di mendicanti lebbrosi assieme a Sadhu, asceti che dipendono dalla generosità dei devoti, con i corpi cosparsi di cenere e i capelli raccolti in lunghe trecce che non tagliano né lavano mai. Sul fiume il ricovero voluto da Madre Teresa di Calcutta che accoglie persone indigenti al termine della loro esistenza, una sequenza di pire con defunti avvolti in drappi colorati coperti di fiori. Dentro al fiume uno stuolo di persone di ogni età che fa abluzioni per purificarsi e setaccia il fondo alla ricerca di oggetti metallici di valore rimasti incombusti: la povertà e la fame giustificano questo ed altro.

Patan e Baktapur, le due vecchie capitali del Nepal, erano state poi un tuffo in un raffinato medioevo architettonico. Da Katmandu, pigiati fra sacconi, viveri e quant’altro, un grosso elicottero russo ci deposita in quel nido  d’aquila che è l’aeroporto di Lukla a 2.800 metri di quota. La pista ancora in terra battuta e in salita per rallentare la frenata dell’aereo che atterra. Per il decollo … “no problem“, la pista finisce nel vuoto. Il volo ci regala anche la visione ravvicinata di un 8.000, il Cho Oyu. A Lukla abbiamo un incontro con i portatori, fra cui tre donne, cuochi e gli scherpa con le guide Pasang e Phurba. C’è anche un mandriano, suddivisione dei carichi, file di yak , animale prezioso oltre che per il trasporto anche per la lana, il latte, la carne e da non dimenticare lo sterco che una volta essiccato è usato come combustibile. Si parte percorrendo la via principale del villaggio, lastricata e sporca. Ai lati negozietti, pezzi di carne appesi con ganci circondata da nugoli di mosche. Qualche spartano alberghetto. Non starò qui a fare un diario preciso di questo trek nel Khumbu, mi limito soltanto a dei flash di ricordi: il ricorrente “namastè “ (saluto il divino che è in te ), i muri mani che devono essere passati rigorosamente sulla sinistra con dipinto il mantra “on mani padne hum “, ovunque bandierine di preghiera che sventolano al vento, chorten   e stupa tibetani, rulli e mulini di preghiera, l’attraversamento dello spumeggiante Dudh Kosi su traballanti ponti, famiglie intente alla raccolta di patate nei campi, il rito che si ripete più volte nella giornata di bere “a cup of  tea“ e tanti, tanti bimbi con la “candela” al naso che dicono “pen, pen “. A riguardo ricordo di avere peccato allora d’inesperienza compiendo un errore non più ripetuto nei viaggi successivi. Attraversando un villaggio alla richiesta di “pen “ ho cominciato a distribuire alcune penne biro e subito sono stato assalito e sepolto da un nugolo di bimbi che parevano uno sciame d’api che cercavano di rovistare anche nel mio zaino.

Ma ecco Namche Bazaar a 3.500 metri di quota, la capitale degli sherpa, gente dell’est perché proveniente dal Tibet. E’ posta in un anfiteatro naturale al riparo dai venti del nord, con l’effige di un grande Budda dipinto su un masso del “loggione”. Ricordo di una pasticceria bavarese, che contrastava con gli squallidi negozi e lodge vicini, dove abbiamo gustato dell’ottimo strudel e un tazzone di cioccolata calda. Sempre a Namche avevamo incontrato dei trekkers italiani di Macerata di ritorno dal Kala Pattar (mt. 5.545) la maggior parte dei quali non era riuscita a raggiungere per mal di montagna e il forte freddo umido. Una cosa che ci aveva impensieriti non poco. Non è sabato altrimenti avremmo potuto vedere un importante mercato che si tiene in questo giorno della settimana nel piano alla base dell’anfiteatro.

Ricordo che a Namche, dov’è consuetudine trascorrere un giorno per acclimatarsi e mentre ancora mi trovavo in tenda, un altoparlante fece richiesta di un medico. Accompagnato da Augustine, la compagna argentina di Marcello che fungeva da interprete, siamo andati in uno squallido alberghetto dove il gestore ci ha introdotti in una cameretta dove un trekker indiano, in preda ad un violento dolore al fianco, si contorceva sul lettuccio al lato del quale un compagno non sapeva che pesci prendere. Diagnosticata una colica renale, dopo avere praticato una fiala di “Ketolarac” endovena, la colica si risolse quasi immediatamente e l’indiano non avrebbe mai finito di ringraziarmi con ripetute genuflessioni.

La classica giornata di acclimatamento a Namche la sfruttiamo per andare al gompa di Thame, villaggio divenuto famoso per avere dato i natali allo sherpa Tenzing Norgay che con il neozelandese Hillary fu il primo uomo a raggiungere la vetta del Monte Everest. Il gompa di Thame si trova in un posto meraviglioso al cospetto di una catena di montagne, che segnano il confine con il Tibet, dove lo spirito si integra perfettamente con la natura che lo circonda. Il giovane monaco capo Rimpoche (reincarnato tre volte ) è assente perché a Katmandu. Ci fa da guida il suo maestro che  gentilissimo ci mette ba disposizione alcune monache che, nel frattempo, avevano interrotto il loro lavoro nell’orto. Una bevanda tipo thè medicinale molto gustosa  accompagnata da biscotti, il tutto seduti all’aperto al cospetto di un panorama da urlo. Un posto del genere mi riconduce con la mente all’eremo di Camaldoli, nelle foreste Casentinesi, dove vige l’imperativo “ora et labora“. Tanto lontano ma tanto vicino per certi aspetti a questo luogo.

Ma ecco l’alto Khumbu aprirsi come un album ad offrirci le sue immagini più spettacolari. Dopo una salita fra foreste di conifere e rododendri, con file di yak che stavano scendendo in un nugolo di polvere e che i primi scampanii ci  facevano spostare prudentemente sempre a monte del sentiero perché stando a valle c’era il rischio di essere spinti giù, eccoci arrivare sul pianoro prativo dove si trova Tengboche. Il monastero più grande e attivo ricostruito dopo il disastroso incendio del 1989, che ospita una sessantina di monaci buddisti, alcuni dei quali provenienti dal Tibet dopo l’invasione cinese. Di  questo luogo paradisiaco avevo sempre sentito parlare e finalmente mi si parava davanti agli occhi con l’impressionante dente di roccia e ghiaccio dell’Ama Dablam (Madre degli dei) il 6.000 più spettacolare del Nepal che in prossimità del tramonto si tinge di rosso. E’ seguito dalla cresta del Nuptse, Lotse e per ultimo da sua maestà l’Everest, mentre dietro le spalle il Thamserku ed il Kang Taiga, altri giganti dell’Himalaya erano già in ombra. “ Tengboche è uno dei posti più belli del mondo” queste le parole di John Hunt, capo della celebre spedizione all’ everest del 1953.

Proprio in quell’occasione il monastero di Tengboche, remoto e inaccessibile, fu scoperto dagli occidentali. Ma anche oggi,  malgrado il flusso turistico, è percettibile la malìa del luogo, un  misto di incanto paesaggistico e valori religiosi. Al suo interno una statua di Buddha alta quattro metri, numerose cassette di preghiera, preziosi intarsi lignei e dipinti dai vivaci colori. L’atmosfera è ancora di tipo medioevale con una luce flebile, aria satura del fumo delle lampade votive e impregnata dell’odore del burro che le alimenta mentre i monaci  recitano cadenzati  mantra senza tempo. Essendo tutti i posti sul prato antistante al monastero occupati, andiamo alla località di Deboche, poco distante, dove al mattino successivo abbiamo avuto la sorpresa di trovare tutte le cime intorno imbiancate da una nevicata notturna e tuttavia con un cielo sempre azzurro.

In successione ecco l’altro monastero di Pangboche dove per due secoli era stato conservato lo scalpo dello yeti, l’abominevole uomo delle nevi, che è risultato poi essere nient’altro che quello di un  orso. Da lì  l’Ama Dablam appare veramente imponente sulle nostre teste, nel momento in cui una cordata di alpinisti francesi come formiche si trovano sul luccicante scivolo di ghiaccio sommitale. Ecco la piana di Periche (mt. 4.240) dove il terreno battuto dai venti del nord appare sempre più desertico. Tutto il gruppo sta abbastanza bene in virtù di una progressione lenta, di un buon acclimatamento e dell’impiego preventivo di  Acetazolamide che combatte l’alcalosi del sangue legata al respiro accelerato. Ciò nonostante non poteva mancare una visita alla piccola clinica gestita dalla Himalayan Rescue Association, utilizzata da trekkers, alpinisti e portatori colpiti da mal di montagna, aperta da maggio a ottobre.

Dopo il campo di Periche ricordo una sosta per un thè,nella località di Duglha (mt. 4.620) in una spartana e fumosa casa tibetana gestita da parenti del nostro sherpa Phurba. Da qui una bella vista sul tozzo Tawoche (mt. 6.540) e il più aguzzo Cholatse (mt. 6.440). Ci inerpichiamo, da qui, sulla morena del Khumbu costellata da monumenti in pietra eretti in ricordo di scalatori caduti, per la maggior parte sherpa. Più avanti dei vecchi rottami di un elicottero e quindi tanti fagiani conosciuti come Danphe “Uccello dai nove colori “ che appunto vivono fra le alte montagne. Infine ecco Lobuche a 5.050 metri di quota, dove nel rifugio all’interno della Piramide del CNR, ideata dall’alpinista bergamasco Agostino Da  Polenza, attiva dal 1990 e autosufficiente, dal punto di vista energetico, grazie a pannelli solari e miniturbine, abbiamo finalmente la possibilità di fare una doccia, mangiare un piatto di spaghetti e patate fritte anzichè il solito riso. Ma anche comunicare con le nostre famiglie grazie a un telefono satellitare e dormire in un ottimo letto.

Gestore della Piramide, che ha ospitato per ricerche scientifiche geologi, medici, fisiologi, glaciologi, psicologi, biologi e studiosi di variazioni climatiche,è la guida Gianpietro Verza, anch’egli di Bergamo ed esperto in telecomunicazioni. Al suo attivo il Pumori e l’Everest. Si dimostra gentilissimo, io ricambio aiutandolo a fare una cernita dei medicinali lasciati dalle varie spedizioni. Gianpietro ci racconta di avere condotto via radio alla salvezza, proprio quella stagione, lo sloveno Tomaz Humar dopo che il compagno Janez Jeglic era stato strappato via da una raffica di vento sulla cima del Nuptse, l’elegante quasi 8.000 dirimpettaio alla  Piramide. Purtroppo  questo fortissimo alpinista sloveno, le cui sfide solitarie sulle pareti Himalaiane facevano trattenere il fiato, è morto nel 2009 durante una scalata del Lantang Lirung, un settemila nepalese vicino allo Shisha Pangma. Gianpietro, pochi giorni prima, aveva anche salvato con il sacco iperbarico una turista nepalese colpita da edema polmonare acuto.

Arriva il fatidico giorno del mio primo 5.000: il Kala Pattar (Pietra Nera ). Percorrendo lentamente il sentiero sulla morena lungo il ghiacciaio del Khumbu, facendo attenzione a non cadervi dentro, con lo sfondo dominato da una delle cime più eleganti del pianeta, il Pumori, presso Gorak Shep dove nel 1953 Tenzing e Hillary avevano posto il campo base, ho potuto toccare con mano la solidarietà che vige fra i portatori di una stessa etnia. Ho visto un portatore, fortunatamente “small”, portato a valle nella gerla da un suo compagno. Non era più in grado di camminare né tantomeno di portare dei carichi, un bell’esempio di portatore portato.

Giunti tutti finalmente sulla vetta della Pietra Nera fra un susseguirsi di abbracci e, non lo nego, un accenno anche a delle lacrimucce, nel bel mezzo di uno sventolio di bandierine di preghiera, ecco davanti agli occhi pararsi da sinistra a destra il triangolo scuro del tetto del mondo, stavolta veramente vicino. Il Colle sud, il Lotse, la vela del Nuptse e in basso il BC dell’Everest affollato di tende ai margini della rischiosissima seraccata del Khumbu detta anche Icefall. Un sogno è diventato realtà.

Dopo un secondo pernottamento confortevole e rigenerante nella Piramide del CNR, è la volta della tappa a Chukung (mt. 4.730). Adesso la fiducia nelle mie possibilità è aumentata, alla luce anche di quanto dettomi da Gianpietro, che avrei sicuramente salito l’Island Peak, visto che sul Kala Pattar non avevo avuto nessun sintomo di mal di montagna. Chukung è un campo stupendo, fra l’imponente sud del Lotse e il versante nord dell’ Ama Dablam che dopo il tramonto una nitida luna piena sembrava fosse andata a rendergli omaggio. Giuseppina, una componente del gruppo, colpita da sindrome febbrile con mal di gola e tosse è costretta a rimanere in uno spartanissimo lodge con uno sherpa, dopo che Le ho fatto prendere aspirina e degli antibiotici. Il giorno successivo arriviamo al BC dell’Island Peak a 5.087 metri. Ci sono molte tende dai più svariati colori e dato si è trattata di una tappa breve, con Alessandro e Manuela siamo saliti sulla morena del Lotse Glacier a fotografare degli stupendi laghetti glaciali sottostanti. Soprattutto la bianca cupola del Cho Polu (mt. 6.700) alla testata della valle, indorata dagli ultimi raggi del sole. Tornati al campo apprendiamo che quattro del gruppo hanno deciso di non salire l’Island Peak, compresa Augustine, che alle salite su ghiaccio preferisce le arrampicate sulle rocce dolomitiche e della sua nativa Bariloche. L’indomani Marcello con Marco e Loris, i più forti, vanno direttamente in vetta posizionando una corda fissa di circa 150 metri sul pendio sommitale a 50°. Il sottoscritto  con Alessandro, Manuela, Bepi, Nicola ed Enere, accompagnati dallo sherpa Phurba che ha al suo attivo due volte l’Everest, saliamo in poco più di un ora al campo intermedio a 5.400 mt. Quattro tende in altrettante quattro piccole piazzole su fondo sassoso sconnesso. C’è tempo sufficiente per riposarsi e migliorare l’acclimatazione. Curiosa la storia raccontataci da Phurba di uno sherpa che avendo salito venti volte l’Everest era venerato come un Dio eppure morto banalmente cadendo e affogando in un torrente vicino a casa di ritorno da una cena dove aveva ecceduto nel bere. Nel pomeriggio si aggiunge a noi Marcello che ha fatto la vetta, mentre Marco e Loris, anch’essi con la vetta nel sacco, scendono al campo base. Dopo avere ingozzato della brodaglia calda, tutti in tenda nel calduccio dei sacchi a pelo all’ora delle galline, pensierosi su come sarebbe andata l’indomani. Quando finalmente giunge, dopo una notte insonne, ci vede dapprima arrancare su sfasciumi in un canalone e dopo avere percorso delle cengie e un lungo crestone roccioso, arrivare finalmente a porre piede sul ghiacciaio a circa 5.900 metri. La quota comincia a farsi sentire ed Enere, uno dei componenti del gruppo, si ferma non più in grado di proseguire. Percorsa una parte del ghiacciaio io, Sandro,Manuela e Bepi guidati da Phurba risaliamo con i Jumar il tratto ripido attrezzato con corde fisse, seguiti da Marcello e Nicola. Arrivati sulla cresta sommitale lasciamo gli zaini nel buco di un grosso crepaccio e la percorriamo fino alla sospirata vetta a

6.188 mt. La nebbia, nel frattempo sopraggiunta, se da un lato ci impedisce di vedere la dirimpettaia sud del Lotse, dall’altro ci nasconde i grandi precipizi ai lati di essa, motivo questo di maggiore tranquillità psicologica.

Abbracci e foto, come da copione per questo nostro primo seimila, mentre Phurba ci fa notare di esserci stato la prima volta all’età di 18 anni facendo abbassare a tutti la cresta. La temperatura è fortunatamente di soli – 10°. Nella stessa giornata ritorno al campo base, dopo avere recuperato le corde fisse ed Enere che nel frattempo si è ripreso e subito a Chukung. Andiamo a trovare  Giuseppina nel lodge, fortunatamente è sfebbrata e sta molto meglio. Poi tutti in tenda stanchi morti. Giunti dopo due giorni a Namche Bazaar, festeggiamenti d’obbligo con un’ottima torta preparata dal cuoco, mentre sherpa e portatori iniziano a ballare danze nepalesi al ritmo di suoni di percussione su bidoni, tamburi d’occasione, coinvolgendo anche noi. Al mattino successivo una nevicata di trenta cm. ci comprime nelle tende canadesi, se questa nevicata fosse venuta all’andata il discorso sarebbe stato diverso. Prima di abbandonare questa Namche in una veste invernale lascio, come promessogli, tutti i miei medicinali al dottore nepalese responsabile  dell’ospedale e pronto soccorso del vicino Khunde che avevamo avuto occasione di visitare e apprezzare con l’amico Alessandro, tecnico di radiologia.

Nel tornare a Lukla la neve, che nel frattempo si è trasformata in acqua, ci bagna da capo ai piedi. A Lukla un elicottero russo ci riporta a Katmandu. Qui, nel quartiere di Thamel dove alloggiamo, cena d’addio all’Everest Steak House Restaurant. Ricordo altresì di avere fatto il volo di ritorno con la PIA (Pakistan International Airlines ) e di avere alloggiato a Karachi in uno squallido alberghetto nell’area aeroportuale, essendoci stata sconsigliata, per motivi di sicurezza, la visita della città. Erano presenti anche due fortissimi alpinisti Sergio Martini e Fausto De Stefani di ritorno dal Lotse, il loro 13°ottomila.

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