Monte Kenya – Montagne d’Africa di Nelusco Paoli

Ho sognato il Kenya leggendo il libro di Felice Benuzzi “ Fuga sul Kenya”. Cresciuto nella Trieste di Comici, Benuzzi aveva praticato e si era appassionato all’alpinismo fino da giovanissimo; aveva arrampicato sia nelle “sue” Alpi Giulie, in Dolomiti e si era spinto fino alle Alpi Occidentali. Nel 1943 mentre si trovava da poco prigioniero di guerra in un campo inglese, a Nanyuki, in Kenya, in un mattino sereno vide splendere all’orizzonte una montagna coperta di ghiacci e per reagire all’inedia ed alle frustrazioni della prigionia concepì la folle idea di scalarla.

Non aveva alcuna conoscenza della montagna; non sapeva chi l’aveva scalata, quali erano le “vie” aperte, non conosceva gli accessi per raggiungerla. Era solo in possesso di un disegno della montagna, del versante sud, impresso su una scatoletta di carne e di uno schizzo del suo versante, il nord nord-ovest, fatto di nascosto dal campo nel quale era recluso.

Sondando cautamente per non scoprire i propri piani, riusci a convincere due compagni di prigionia a fuggire dal campo per scalare la montagna che prepotentemente lo attraeva. Il primo era il medico Giovanni Balletto detto Gùan, genovese, anche lui esperto alpinista; occorreva inoltre un’altra persona per aiutare gli alpinisti nella sorveglianza dei campi dalle bestie feroci. Fu trovato in Enzo Barsotti, privo di ogni minima conoscenza montana ma audace e amante dell’avventura. Si erano procurati l’attrezzatura utilizzando del ferro recuperato dai rifiuti e lavorato da un fabbro recluso nel campo; lo stesso avevano fatto per      il vestiario pesante (necessario sulla montagna dato che scintillava di neve), trasformando le coperte in caldi abiti.

Avevano inoltre accumulato del cibo con scambi con gli amici e risparmiando sul vitto. Quando furono pronti iniziarono la fuga che, romanzesca e avventurosa, durò diciassette giorni. Evasero di notte, con sulle spalle  carichi pesantissimi, e seguirono il corso del fiume Nanyuki, sempre vigili ed attenti a non farsi catturare e al pericolo degli animali feroci – una notte un enorme elefante si presentò sul fiume ad abbeverarsi, vicino a dove avevano posto il campo, e dopo aver soddisfatto la sua necessità, senza degnare i nostri di uno sguardo, placidamente se ne tornò nel folto. Con fatica e grandi sforzi raggiunsero le pendici del versante nord del Batian la cima più alta del Monte Kenya. Fissato il “campo base” lasciato in custodia a Enzo, Felice e Gùan tentarono la cima da nord – ovest, settore che aveva messo in difficoltà alpinisti del calibro di Shipton e Tilman, ma dovettero desistere sotto una violenta bufera. La stanchezza e la scarsità di viveri li fece ripiegare il giorno successivo sulla punta Lenana sulla quale piantarono con orgoglio il tricolore italiano.

Riuscirono a rientrare nel campo di prigionia senza essere catturati e il giorno dopo, puliti ed in ordine, si presentarono al comandante inglese. Questi assegnò loro la punizione prevista per la fuga: ventotto giorni di reclusione completa. Venuto a conoscenza dell’impresa il comandante revocò la pena dopo solo sette giorni di punizione “per buona condotta in cella”; probabilmente lo spirito sportivo ebbe il sopravvento sul regolamento. Finita la guerra Benuzzi rientrò in Italia per abbracciare la carriera diplomatica. Ricoprì vari incarichi a Parigi, a Karachi, a Berlino e a Montevideo. Si adoperò infine per conto del Ministero degli Affari Esteri di condurre i negoziati relativi all’Antartide, fino alla firma del trattato nel 1981. Fu tra i soci fondatori di Mountain Wilderness. Morì a Roma il 4 luglio 1988.

Anche il dottor Balletto rientrò in Italia ma aveva contratto un’inguaribile malattia: si era preso il “mal d’Africa”. Tornò ad esercitare la propria professione in Somalia e successivamente in Tanganica. Innamoratosi del Kilimanjaro (che scalò innumerevoli volte da ogni versante) si trasferì alle sue falde per curare la popolazione Chagga. L’amatissimo “John”, come lo chiamavano i locali, morì a Himo nel 1972.

Quando ho pensato di attuare il sogno di scalare il Kenya, ho avuto bisogno di un compagno di cordata e mi è venuto spontaneo il nome di Marco. E’ stato l’amico delle più belle avventure giovanili; eravamo una coppia affiatata e forse un po’ azzardosa (Rolando, ci aveva soprannominati Garibaldi e Nino Bixio). Con lui ho praticamente iniziato ad arrampicare; oltre alle “vie” del Procinto ho “fatto” la mia prima lunga arrampicata: l’Oppio-Colmaghi al Pizzo d’Uccello (ripetuta quasi sempre con lui). Ho condiviso con Marco la felicità e l’appagamento delle belle arrampicate fatte sulle Alpi, dopo una lunga corsa in autostrada, al venerdì sera, e la stanchezza soddisfatta del rientro a Firenze la sera della domenica.

Non ho faticato molto a convincere Marco. Siamo stati in palestra un paio di volte, abbiamo fatto qualche escursione e sebbene non fosse molto in forma, con il consueto ottimismo, ha condiviso il mio desiderio. Per preparare l’ascensione del Kenya mi ero potuto documentare e, a differenza di Benuzzi, impossibilitato a farlo dalla prigionia, avevo una buona conoscenza delle vicende alpinistiche della montagna. Sapevo che per primo era stata avvistata dal pastore protestante dottor Johann Ludwig Krapf il 3 dicembre 1849, confratello di quel Rebmann che l’anno precedente aveva avvistato la cima del Kibo. Anche al Krapf “la gigantesca muraglia che si estendeva da nord a sud, sulla cui sommità si elevavano due torri d’un aspetto grandioso e maestoso” aveva fatto nascere nell’animo pensieri sublimi, ed anche alla sua scoperta la Royal Geographic Society aveva attribuito lo stesso scetticismo ed il medesimo sarcasmo riservati a quella del Rebmann.

Per aver ragione e vedersi riconosciuta la scoperta il reverendo Krapf avrebbe dovuto attendere ben trentaquattro anni. La spedizione che avrebbe potuto appurare la verità fu impossibilitata a farlo; nel 1877 il naturalista tedesco J. M. Hildebrandt soggiornò a Kitui, da dove si poteva vedere il Kenya, ma non poté confermare la scoperta del reverendo Krapf poiché, come accade spesso durante la stagione delle piogge, il monte rimase invisibile a causa delle nebbie che stazionarono sulle cime per l’intero periodo. La conferma a quanto visto da Krapf avvenne soltanto nel 1883 con la spedizione del naturalista scozzese Joseph Thomson. Come dichiarerà nel suo libro Attraverso il paese dei Masai, mentre inseguiva un leopardo sulla catena degli Aberdare vide una montagna “ splendente di candore, dalle pareti luccicanti che scintillava con la bellezza superba di un colossale diamante”.

Per conquistare il Batian, come sarebbe stata chiamata dai primi salitori la vetta principale del Kenya, fu necessario attendere la fine del secolo. Ma dal 1883 al 1899 ben cinque spedizioni si recarono alle pendici del Kenya. Non raggiunsero la vetta ma aumentarono considerevolmente la conoscenza della montagna e dell’Africa.

A cavallo fra il 1884 e il 1885 visitò la zona la spedizione del medico tedesco G.A.Fischer. Anche questi contribuì ad avvalorare la scoperta del Krapf, riferendo di aver scorto di sfuggita “la punta meridionale nevosa”.

Nell’anno 1887 fu la volta del conte ungherese Samuel Teleky de Szék accompagnato dal tenente di vascello della marina austro-ungarica Ludwig von Hoehnel.

Arrivavano dal Kilimanjaro dove  von Hoehnel aveva raggiunto l’altezza di 5.250 metri. La spedizione portò alla scoperta dei laghi Rodolfo (ribattezzato Turkana, dal nome di una tribù locale) e Stefania, così chiamati in onore del figlio e della nuora dell’imperatore d’Austria. Von Hoehnel redasse inoltre una mappa dettagliata di tutto il territorio esplorato. Ebbero molte peripezie; mentre von Hoehnel cadde malato e fu costretto a restare al campo a fronteggiare i minacciosi Masai, Teleky affrontò, con i soli portatori, l’ascensione. Superò la fascia di bambù, definita “pressoché impassabile”, e raggiunse la quota di 4.680 metri in quella valle che oggi porta il suo nome.

Ludwig von Hoehnel tornò in Kenya con l’inglese Astor Chander nel 1892 per tentarne di novo l’attacco. Anche in questa occasione riuscì a vedere il Kenya soltanto da lontano; per poco non morì dissanguato dalla carica di un rinoceronte ferito. Un ammutinamento dei portatori costrinse la spedizione a sciogliersi e von Hoehnel e Chander riuscirono a malapena a salvarsi.

Peggior sorte capitò quattro anni dopo al medico e naturalista tedesco  George Koble. Appassionato di caccia grossa, non riuscì a colpire a morte un rinoceronte che lo travolse e lo uccise.

Nel 1893 fu la volta di un vero alpinista J.W Gregory. Si spinse fino alle pareti dell’attacco ma non riuscì a salire sulla cima. Contribuì alla conoscenza della zona scoprendo alcuni ghiacciai che battezzò Darwin, Tyndall, Heim e Forrel. Come era avvenuto per il Kilimanjaro anche il Kenya fu vinto dalla costanza e determinazione di un uomo di scienza con l’apporto essenziale di esperti alpinisti. Nel 1899 Halford John Mackinder, geografo di fama con cattedra ad Oxford, organizzò una spedizione con il naturalista G. B. Hausburg, E Saunders e C. F. Compburn. Mackinder si avvalse anche dell’opera, che risultò determinante al fine della conquista della vetta, di due esperte guide valdostane Cesare Ollier e Giuseppe Brocherel. La spedizione iniziò sotto cattivi auspici. A Mombasa vennero trattenuti in quarantena a causa di una epidemia di vaiolo. Riuscirono a recuperare parte del tempo perduto grazie all’utilizzo dell’erigenda ferrovia, che avrebbe collegato la costa con i grandi laghi. In soli tre giorni di treno raggiunsero Nairobi; anche li infuriava l’epidemia del vaiolo e dovettero lasciare la zona in tutta fretta, senza potersi rifornire del necessario. Imperversava inoltre la peste bovina che aumentò le difficoltà di reperire il cibo per la spedizione.

Su consiglio dell’amministrazione britannica il laibon dei Masai, Lenana che comandava diecimila guerrieri aveva fatto spostare tutta la sua gente con le mandrie nell’interno. Quando Lenana incontrò Mackinder, per ringraziarlo del consiglio ricevuto dagli inglesi che aveva consentito al suo popolo di salvare i preziosi bovini, gli consegnò il suo bastone di comando da usare come lasciapassare in caso di bisogno. La carovana di 170 persone, fra le quali due guide Masai, iniziò la marcia fra paludi e fitte foreste sotto una continua pioggia battente. Le diserzioni fra il personale, non avvezzo e poco equipaggiato per quel clima erano quotidiane.

Inoltre la scarsità di cibo e l’impossibilità di comprarne, nella zona c’era una pesante carestia, induceva i portatori ai furti; gli indigeni al contempo vedevano nella carovana una fonte di cibo. I contrasti sfociarono in imboscate e rimasero uccisi diversi portatori. La carovana dovette impugnare la armi; perfino Mackinder per poco rischiò di morire con una freccia avvelenata che fortunatamente lo sfiorò. Come era accaduto alle spedizioni precedenti anche la carovana Mackinder venne caricata in due diverse occasioni da rinoceronti.. Vincendo tutte le avversità riuscirono ad arrivare ai piedi del massiccio e per risparmiare cibo che diventava sempre più scarso, rimandarono indietro sessanta portatori. Le guide Masai furono rimpiazzate da quelle valdostane, che seguendo le piste degli elefanti e aprendosi la strada a colpi di accetta riuscirono in un solo giorno a superare la foresta e a stabilire il campo base a circa 3300 metri, alla confluenza delle valli Mairi e Hohnel. Il giorno successivo Mackinder con i valdostani effettuò una ricognizione durante la quale localizzarono la Punta Piggott e il picco sommitale. Sulla via del ritorno provocarono involontariamente un incendio che si sviluppò durante la notte e il giorno successivo fino a devastare la Teleki Valley ed il versante di destra della Hohnel Valley. Soltanto con un lungo lavoro di badile e picozza arginarono le fiamme e a stento riuscirono a salvare l’accampamento . Ulteriori contrattempi occuparono Mackinder, efecero rinviare l’ascensione alla vetta. Dovette tornare indietro per procurare del cibo e sedare una feroce lotta fra i portatori e gli abitanti della valle.

In sua assenza si provvide ad allestire un campo avanzato ed al suo ritorno venne effettuato un primo attacco, che abortì di fronte ad un’impervia parete verticale. In tale occasione Mackinder provvide a nominare le cime principali della montagna. Sebbene anche lui forre prigioniero della “cultura” europea che riteneva l’uomo bianco di gran lunga superiore alle popolazioni africane, rese un giusto omaggio alla terra che lo ospitava nominando Batian, e Nelion, dal nome del grande laibon Masai e di suo fratello, le cime principali del Kenya. In omaggio al laibon che l’aveva aiutato, affidandogli il bastone di comando, chiamò Lenana la terza cima del monte. Nominò inoltre Sendeyo, fratello di Lenana e figlio di Batian, un’altra cima più in basso. Il secondo tentativo di scalata venne compiuto da Hausburg insieme alle guide valdostane. La vetta non venne raggiunta ma aggirando il massiccio fu scalata la punta Lenana. L’ultimo tentativo, dato che la spedizione aveva finito i viveri ed era urgente rientrare, venne effettuato da Mackinder, Ollier e Brocherel.

Attraversarono il Lewis glacier, scalarono una parete di roccia, effettuarono due traversi e un tiro verticale, ma il sopraggiungere della notte li costrinse ad un bivacco. Il mattino successivo raggiunsero il filo di cresta, traversarono il ghiacciaio Darwin fino ad una cresta rocciosa e iniziarono a seguirla, pensando di poter raggiungere la cima del Nelion da dove intendevano raggiungere il Batian. Dopo circa mezz’ora dovettero arrendersi al ghiaccio che si impennava; si diressero allora verso la cima del Batian scavando gradini nel ghiaccio. Le guide gradinavano sul ghiacciaio sospeso imprecando per la sua durezza. “è duro come un diamante”, e diamante, Diamond in inglese, rimase il nome del ghiacciaio. Finalmente quasi a mezzogiorno del 13 settembre 1899 raggiunsero la vetta. A differenza di Meyer, Mackinder non osservò alcuna solennità, si limitò soltanto a scattare alcune fotografie.

Conclusa l’esperienza africana, Mackinder si dedicò all’attività di insegnamento e ricerca nei campi della geografia, dell’economia e della politica. Morì a Bourmemoth il 6 marzo del 1947. Ollier e Brocherel tornarono in Africa dopo sette anni ma rividero la cima da loro conquista soltanto da lontano, senza potersi riaccostare. Erano in viaggio verso l’Uganda, per conquistare con il Duca degli Abruzzi e Giuseppe Petigax le vette inviolate del Ruwenzori.

Anche il massiccio del monte Kenya ha origini vulcaniche; si è formato approssimativamente 3 milioni di anni dopo l’apertura della Est African Rift. Prima della glaciazione era alto 7.000 metri ed è rimasto ricoperto da un cappello di ghiaccio per centinaia di anni. La fine della glaciazione ha lasciato pareti scoscese e numerose valli che si irradiano dal centro ed una grande serie di laghetti, chiamati turn. L’area, oggi parco nazionale, è vasta 715 kmq; a differenza del Kilimanjaro che ha l’aspetto di un enorme panettone, è un affascinante affastellamento di picchi, torri, canaloni e ghiacciai, che richiamano le Alpi. Il Kenia è praticamente sull’equatore e i sui versanti nord e sud presentano un fenomeno particolare, del quale l’alpinista deve tener conto: quando il sole si trova nell’emisfero boreale, la nostra estate, la parete nord del Kenya si trova in condizioni estive, mentre il versante sud è coperto da neve e ghiaccio, viceversa durante l’estate australe, il nostro inverno, è la parete sud ad trovarsi in condizioni estive mentre la nord è abbondantemente ghiacciata e innevata.  Con ancor vivo il ricordo della bella esperienza del Kilimanjaro mi sono imbarcato, con Marco e mia moglie Daniela, per Nairobi dove ci attendevano i compagni con i quali avemmo condiviso il trekking del Kenya. Per assaporare appieno luoghi ed atmosfere avevamo concordato di muoverci contromano rispetto alle rotte suggerite da quasi tutte le agenzie; era stato stabilito di partire da sud-est, dal piccolo villaggio di Chogoria, scegliendo varianti evidenti in completa solitudine. Per poterci acclimatare pensavamo di procedere piano piano fra savane di alta quota, piantando le tende su laghi cristallini per godere di una integra atmosfera di montagna. Il programma prevedeva di girare attorno al massiccio per visitare anche il versante nord e concludere il safari per la Sirimon route. Nella spedizione era prevista anche la salta alla Punta Lenana; in quel giorno, mentre Daniela avrebbe raggiunto la vetta con la compagnia, avevo progettato di scalare il Nelion con Marco, per la via normale.

Dovettero passare circa trent’anni dall’impresa di Mackinder e dei valdostani perché anche la vetta del Nelion venisse conquistata, perché l’orma umana calpestasse di nuovo la neve della cima del Batian e perché venisse effettuata la traversata integrale, ovest- est del massiccio. Fu opera di tre alpinisti inglesi, che diverranno noti per le loro imprese himalayane e che il caso fece incontrare nella colonia britannica del Kenya. Percy Wyn Harris, fortissimo alpinista himalaiano, famoso per aver partecipato alla spedizione britannica all’Everest del 1933 e per aver ritrovato la la picozza di Mallory e Irvine, scomparsi sul tetto del mondo nel 1929, era un funzionario del Colonial Civil Service e nel 1929 si trovava in Kenya  come commissario distrettuale del Colonial Service di Kakamega.

Nel 1928 arrivò in Kenya Eric Earle Shipton. Tutto il mondo alpinistico conosce le imprese di questo eccellente scalatore: il Kamet nel 1931, la partecipazione alla spedizione inglese del 1933 dove raggiunse senza ossigeno la quota di 8400 metri e sopratutto la scoperta, nel 1951 , della via del Kumbu e del Colle Sud che avrebbero permesso a Tenzing e Hilary la conquista dell’Everest. Quando arrivò in Africa aveva ventidue anni e desiderava impiantare una coltivazione di caffè. Aveva alle spalle diverse esperienze alpinistiche e dato che anche in Africa c’erano montagne si era portato la completa attrezzatura per arrampicare. L’anno successivo si mise in contatto con Wyn Harris per tentare  di aprire una nuova via al Batian. Fecero un primo tentativo sulla grande parete nord-est, ma dovettero rinunciare a circa 100 metri dalla vetta. Il giorno successivo fallisce anche un altro tentativo per la parete sud-est del Nelion. Ma i nostri sono tipi tosti; il 6 gennaio sono di nuovo all’attacco della parete sud-est del Nelion  e alle 11,15 si stringono la mano sulla fino allora inviolata  vetta, aprendo quella che diverrà la via normale di salita. Da lì ridiscendono verso Porta delle Nebbie, come Mackinder aveva chiamato la forcella che se para il Nelion dal Batian, e raggiungono, per la seconda volta, la vetta  del Batian alle 13, 45.

Il terzo personaggio della nostra storia è Harold Willian (Bill) Tilman, colui che in seguito alle ascensioni africane formerà con Shipton una delle più famose coppie della storia dell’alpinismo. Anche lui partecipò alle spedizioni britanniche all’Everest: quella del 35 e quella del 39, dove ricoprì il ruolo di capo spedizione. Vinse, con Shipton, il Kellas Rock Peack nell’Himalaya e nel 36 scalò con l’americano Odell il Nanda Devi nell’Himalaya del Gardhwal, la più alta vetta mai scalata fino allora. Shipton aveva in programma di compiere la traversata integrale del Mount Kenya toccando le vette principali. Lo attraeva la lunga cresta nord-ovest che parte da una sella fra la punta Piggot ed il picco principale. Nel luglio del 1930 partì con Tilman da Nanyuki e si accamparono alla testa della valle Mackinder, in una caverna chiamata in seguito Shipton Cave. Per esaminare la via di salita scalarono  una punta innominata, che chiamarono Dutton (5.907 m.) e successivamente la più bassa e difficile punta Peter. Il giorno precedente l’ascensione Tilman e Shipton prepararono, scavando una serie di gradini nel ghiaccio, la via per raggiungere il Firmin Col. Il 1° agosto del ’30 risalirono la traccia preparata e affrontarono le grandi difficoltà della scalata che mise a dura prova le capacità tecniche e le doti di coraggio dei due alpinisti. Alle 16,20 la vetta del Batian veniva calcata per la terza volta. Iniziarono la discesa dal Nelion, sulla parete sud, seguendo la via che Shipton ben conosceva per averla “aperta”. In discesa Shipton si sentì male in seguito ad intossicazione per aver ingerito carne di una scatoletta avariata, inoltre la parete sud era coperta di neve e di ghiaccio ed anche la discesa divenne un incubo. Solo all’alba del 2 agosto raggiunsero il ghiacciaio Lewis da dove poterono rientrare al campo. Anche la traversata completa del massiccio era stata portata a termine.

Al mattino del 30 gennaio 2007 a Chogoria il sole splende in un azzurro cielo africano. Mentre i portatori caricano le jeep i compagni d’avventura ciondolano nel giardino dell’albergo, desiderosi di partire. Anch’io ho voglia di muovere le gambe; sono in forma per il trekking e a dispetto dei nomi importanti che hanno aperto la via Nelion mi sento in grado di affrontarla. Ho corso per acquisire resistenza, ho arrampicato su difficoltà superiori a quelle che dovrò affrontare, mi sono studiato lo schizzo della via, mi sono tradotto dall’inglese anche la  descrizione (della traduzione ho chiesto conferma alla mia vicina americana, data la mia modesta conoscenza della lingua) e della relazione e dello schizzo ho la fotocopia nello zaino. In passato, con Marco, abbiamo affrontato con piacere vie lunghe di modesta difficoltà: lo spigolo nord del Badile, la Dimai sullo spigolo est della Grande di Lavaredo, sempre sulla Grande abbiamo fatto la Mazzorana sullo spigolo ovest, la Pompanin-Alverà al primo spigolo di Tofana, il Crozzon del Brenta. Insomma i settecento metri di dislivello del Nelion mi sembrano  una Oppio a oltre 4000 metri, con la possibilità  eventuale di riparare in un piccolo bivacco nei pressi  della cima. L’unica modesta preoccupazione è per Marco; lo trovo un po’ sovrappeso, ma lui sopperisce spesso alle carenza fisiche con grande forza di volontà. Mentre sono assorto in queste riflessioni iniziamo a muoverci. Per traversare la fitta foresta che cinge il massiccio, popolata ancor oggi da elefanti, bufali e da qualche felino, che aveva creato tanti problemi e richiesto molto tempo ai primi esploratori, ci  impieghiamo poco più di un’ora seguendo un’orribile carrareccia. Arrivati all’entrata del parco si inizia a procedere a piedi. Fortunatamente non facciamo nessun brutto incontro perché durante il giorno gli animali se ne stanno rintanati nel folto della foresta, ma ne avvertiamo facilmente la presenza; l’escremento di elefante è davvero inconfondibile anche per chi lo vede per la prima volta.

Procediamo fra una fascia di pascoli e bosco che si spegne nella macchia arbustiva, fra vasti scenari  costituiti da colline e tavolati; dobbiamo raggiungere l’Ellis Turn, un ameno laghetto a 3400 metri dove pianteremo il nostro primo campo. Ci fermiamo per lo spuntino del pranzo a mezzogiorno e mezzo circa, il cielo è coperto e lattiginoso. Noto che un portatore sta velocemente cercando di montare la tenda mensa, come riparo per la pioggia. Lo guardo con stupore e gli dico: “I don’t think it’s going to rein”. Mai profezia risultò più sbagliata. Il ragazzo non fa neppure in tempo a rispondermi perché improvviso si scatena un  acquazzone e ci infiliamo precipitosi nella tenda non ancora completamente montata. Protetti con giacche a vento, mantelle e con qualche ombrello riprendiamo il cammino quando la violenza dell’acqua diminuisce e arriviamo al campo con le ultime gocce. Mentre i portatori montano le tende con Piero e Alberto, una vecchia conoscenza del Kilimanjaro e dell’Ararat, raggiungiamo la cima della Mugi Hill (3.450 m.), una collina vicina che era stata la direttrice del percorso per l’intera giornata. La mattina successiva ci svegliamo nel giardino dell’Eden. Siamo soli sulle sponde di un laghetto turchese dove si specchiano le colline circostanti, il cielo  è blu con una nube bianca sullo sfondo che nasconde le cime più alte del Kenya. Partiamo per una gita di acclimatamento, Seguendo il fiume Nithi raggiungeremo le omonime cascate per rientrare al campo con un giro circolare. L’ambiente è bellissimo, procedendo fra alte erbe incontriamo i primi seneci e le prime protee e in lontananza avvistiamo un gruppo di gazzelle.

Arrivati alle cascate, circa a mezzogiorno, facciamo appena in tempo a scattare qualche foto che si aprono le cateratte del cielo. Nonostante indossi la giacca a vento in pochi minuti mi trovo completamente zuppo, compresi gli slip, ed il freddo mi entra nelle ossa. Aumento il passo per raggiungere il campo e poter indossare abiti asciutti e penso a cosa sarebbe potuto succedere se quest’acquazzone mi avesse preso mentre stiamo arrampicando. Mi sorgono dubbi sull’opportunità di effettuare la prevista ascensione e la paura si insinua dentro di me. “Sarà un evento straordinario”, sto pensando, “ma è successo anche ieri alla stessa ora; inoltre ho riscontrato questi fenomeni nella lettura di quasi tutti gli episodi relativi all’ascensione di questa montagna”. Tento di rassicurarmi rimandando: “ vedrò cosa succederà domani” e per adesso decido di non comunicare questi dubbi a Marco. La pioggia continua scrosciante per oltre un’ora. Quando raggiungo il campo battendo i denti, la bufera sta spegnendosi in una leggera pioggerella ed in cielo gli squarci di blu si fanno sempre più ampi. La tenda si è trasformata in un lago ed appena arriva Daniela ci mettiamo di lena ad asciugarla. Per fortuna gli abiti sono rimasti asciutti e i portatori hanno acceso un bel fuoco per asciugare quelli bagnati.

Il terzo giorno riprendiamo il cammino. Un sentiero risale dolcemente la montagna ed entra nella Gorge Valley da dove si scende per porre il campo nell’incanto del Michaelson Turn. Il paesaggio muta gradatamente. La macchia arbustiva va scomparendo per lasciare il campo alla nuda roccia dove spuntano i seneci giganti e le lobelie. Il consueto temporale delle 12 e trenta è molto più leggero, inoltre sopra la giacca a vento ho indossato la mantella. La pioggia tuttavia rafforza i dubbi di ieri e la baldanza che avevo alla partenza si trasforma in timore. “Altro che Oppio-Colnaghi. Non deve essere piacevole arrampicare su una grande montagna con questo tempo”; inoltre la possibilità di un bivacco, tutto zuppo, nel freddo dei 5000 metri mi spaventa. Decido di tenere ancora per me questi timori, anche se mi pare che Marco abbia già intuito le mie titubanze. Alla luce del mattino della quarta giornata il campo sul lago Michaelson è veramente splendido. E’ bellissimo contemplare l’azzurro del lago circondato da ciuffi di erba giallo-verde, incastonato fra pareti strapiombanti.  Si procede salendo in una prateria, fra innumerevoli seneci, in un incredibile anfiteatro fra le cime. Mano a mano che aumenta l’altitudine la vegetazione scompare ed entriamo nel regno delle rocce, della neve e del ghiaccio. Il panorama è spesso coperto dalla nebbia che si sposta con le folate del vento e a tratti nevica e piove. Una breve schiarita ci permette la visione dei Gallery Turn e dopo poco raggiungiamo la nostra meta, l’Austrian Hut base di partenza sia per la normale al Nelion che per salire sulla modesta punta Lenana. La capanna è posta su un ghiaione a 4750 metri, sotto la Punta Lenana, di lato al Lewis Glacier ed offre una splendida vista della parete est del Nelion.

Mentre sono con Marco fuori dalla capanna, per vedere se una schiarita ci consente la visione del Nelion, gli comunico le mie paure e la decisione di rinunciare alla scalata. Con poco entusiasmo si adegua alle mie esigenze e decidiamo di seguire la compagnia sulla Lenana.Alle quattro, dopo una notte insonne a causa della quota, siamo tutti in fila, con la luna piena e le pile frontali. Si procede fra sfasciumi e nevai ed alle sei raggiungiamo la vetta. E’ ancora buio e fa un freddo “equatoriale”, ma lo scenario della luna sulla scura sagoma del Nelion è favoloso. Dopo una ventina di minuti è apparso il sole che ha pennellato di rosso e di giallo tutte le cime del Kenya; sono brevi attini, all’equatore le albe ed i tramonti sono molto veloci, ma le sensazioni sono indescrivibili e valgono l’intero trekking. Ridiscesi alla Austrian abbiamo fatto colazione e siamo scesi nella Teleky Valley. Passiamo sotto l’intera parete sud del Kenya e il cielo limpido del mattino ci mostra le torri grandiose del Nelion, del Batian e la Punta John. E’ inverno boreale e la parete sud del Kenya è coperta da poca neve ma si nota la preoccupante diminuzione dei ghiacciai: il Diamond, che Ollier e Brocherel avevano trovato durissimo, da meritare quel nome, e che scende ripido fra le torri del Batian e del Nelion è quasi scomparso e si è molto ridotto, rispetto alle immagini di riferimento anche il Lewis Glacier, sotto alla punta Lenana. Raggiungiamo abbastanza presto il Mackinder lodge e al coperto assistiamo al consueto acquazzone pomeridiano.

Alle 8 nella luminosa mattina del nostro sesto giorno di trekking risaliamo il versante sud della valle sotto l’imponente punta Piggott, arriviamo in un pianoro costellato da laghetti e seguendo una larga cengia raggiungiamo una breccia, la Western Terminal che ci immette nella testata della Hausberg Valley. Saranno state circa le 11 e una fitta nebbia ha coperto tutto. Siamo scesi sul ghiaione senza vedere niente e mi sono accorto di essere arrivato nella valle soltanto quando mi sono trovato fra i seneci a percorrere la riva di un laghetto, probabilmente l’Hausberg Tarn (accanto c’è anche l’Oblong Tarn, scomparso fra le nebbie). Siamo poi risaliti ai 4.570 metri dell’Ausberg Col che ci immette nella Mackinder Valley dove è ubicata la nostra meta lo Sirimon Lodge. Sul colle sono iniziati a cadere grossi goccioloni che presto si sono trasformati nella consueta pioggia torrenziale. Sotto l’acqua e fra la nebbia siamo scesi velocemente in una valle, che dovrebbe essere bellissima, piena di seneci e di lobelie con sullo sfondo le guglie e le torri del versante nord del Kenya ricoperte di neve e di ghiaccio, fino al lodge dove siamo arrivati completamente zuppi.

Il trekking si concluderà fra due giorni ma praticamente la camminata di domani è l’ultima. L’ultima giornata prevede soltanto di un breve trasferimento su una larga strada in foresta. Timorosi dell’acquazzone che non ci ha mai risparmiati partiamo a buio, alle sei, percorrendo la Mackinder valley. Alle spalle abbiamo l’imponente versante nord che luccica sotto il chiaro di luna. Camminiamo veloci perché la strada da fare è molta. Quando arriviamo ad un colle che permette di lasciare la Mackinder per traversare un paio di rii e raggiungere l’Old Moses Lodge, ci fermiamo per rifocillarci e riposare qualche minuto e volgendo lo sguardo a nord-est ci appare per l’ultima volta l’affascinante vista del gigantesco cristallo che aveva attratto e stregato Felice Benuzzi.

 

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