Sorpresa tornano i boschi di Sergio Cecchi

Gloria Riva è una giovane giornalista che nel 2014 pubblicò un bell’articolo sull’Espresso, in cui esponeva come l’abbandono di campi coltivati e di pascoli ha aperto degli spazi al ritorno delle formazioni boschive. Quel servizio sul settimanale mi ha fatto venire l’idea di approfondire l’argomento.

Dal 1990 in poi, è andato aumentando l’interesse della comunità internazionale nei confronti delle risorse forestali; molti accordi fra le nazioni hanno preso in considerazione le foreste, fra i quali la convenzione sulla biodiversità e quella sui cambiamenti climatici. Conoscere le risorse forestali e la loro evoluzione è importante a tutti i livelli, da mondiale a locale, sia in termini di produzione di ossigeno che di fissazione del carbonio.

È sempre più evidente che una politica ambientale seria non può prescindere da una considerazione delle foreste. Esse costituiscono buona parte dei sistemi naturali e semi-naturali presenti sulle terre emerse e hanno un ruolo cruciale per le forme di vita, contribuendo all’equilibrio globale del pianeta Terra. Da un lato, diventa sempre più importante la conoscenza delle superfici boscate; d’altra parte sono disponibili immagini da satelliti oltre che software capaci di interpretarle e gestirle, e ogni giorno di più possiamo avere dati aggiornati e precisi.

In Italia l’unica fonte di informazioni sulle superfici forestali era l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) il quale, dal 1933, pubblicava ogni anno un fascicolo dedicato alle statistiche forestali, in collaborazione con il Corpo Forestale dello Stato (C.F.S.). Bisogna dire però che alcune delle definizioni adottate dall’ISTAT non corrispondono a quelle oggi usate e che, di conseguenza, è difficile confrontare i dati del passato; comunque le statistiche forestali riportavano le superfici boscate, suddivise per tipi di bosco (fustaie o cedui) e per specie legnose (resinose, latifoglie, miste).

Ogni anno, l’ISTAT riportava le superfici, i prezzi di vendita del legname (da lavoro e da ardere) oltre a dati riguardanti gli incendi, i prodotti non legnosi e i vivai forestali. L’espansione del bosco è evidente, superiore al 20%, infatti si passa da

5.500.000 ettari del 1954 a 6.800.000 del 1990 (attenzione: calcolati secondo le definizioni ISTAT – attualmente sono conteggiate come forestali zone più ampie, come vedremo poi). Dal 1985 il C.F.S. svolge, insieme al Consiglio per la ricerca in agricoltura del Ministero (C.R.A.), un importante studio che è l’inventario forestale (I.N.F.C.); questa sigla vuol dire «inventario nazionale forestale e delle riserve di carbonio».

Perché il carbonio

Vorrei aprire una bella parentesi sull’importanza del carbonio, e per fare questo bisogna ricominciare dall’A-B-C della biologia. Il carbonio è parte essenziale della vita sul nostro pianeta, esso gioca un ruolo importante nella struttura di tutte le cellule viventi e nella loro nutrizione. Non ci sarebbe la vita se non ci fosse il carbonio. Esistono gli organismi autotrofi e quelli eterotrofi. Gli autotrofi sono quelli che si producono in proprio i composti organici necessari, usando il biossido di carbonio tratto dall’aria o dall’acqua; quasi tutti usano la radiazione solare come fonte di energia e il processo di produzione si chiama fotosintesi. Gli organismi autotrofi più importanti per il nostro pianeta sono gli alberi delle foreste e il plancton vegetale degli

oceani. Gli organismi eterotrofi, come dice il nome, hanno bisogno di nutrirsi di qualcosa prodotto da altri; per capirsi, gli animali sono eterotrofi ma anche i funghi. Il ciclo del carbonio è quel meccanismo dinamico attraverso il quale avvengono scambi di CO2 fra la geosfera (cioè la crosta terrestre), l’idrosfera (mari e oceani), la biosfera (gli esseri viventi), e l’atmosfera. Tutte queste porzioni della Terra sono a tutti gli effetti delle riserve di carbonio; la crosta terrestre, comprendendo anche i sedimenti e i combustibili fossili, è il maggior magazzino di carbonio presente su questo pianeta. Quando gli organismi eterotrofi si nutrono di altri organismi oppure di loro parti (per esempio frutti oppure foglie) il carbonio si trasferisce nella biosfera. Gran parte del carbonio lascia la biosfera attraverso la respirazione, oppure la combustione, per esempio incendi boschivi. Il carbonio – eccoci al punto – può essere immagazzinato per diverse centinaia di anni negli alberi, o addirittura migliaia di anni nel suolo. Attraverso la deforestazione, si ha l’utilizzo e quindi la diminuzione di questo deposito; la stessa cosa accade con l’estrazione di idrocarburi fossili, che in pratica corrisponde a un taglio netto delle riserve del sottosuolo.

L’inventario forestale

Tornando all’inventario, il progetto fu impostato su criterio statistico, con parametri diversi, includendo nelle foreste anche zone con funzioni di protezione, o paesaggistiche o anche ricreative, mentre prima si considerava solo la finalità di produzione di legname.

L’inventario del 1985, pubblicato ufficialmente due/tre anni dopo, ha fornito queste informazioni principali: superficie occupata dalle foreste italiane 8.675.100 ettari, di cui 3.858.300 boschi cedui, 2.577.600 fustaie, 2.239.200 altre formazioni. Come vedete, la superficie era molto superiore a quella calcolata dall’ISTAT, ma la differenza sostanziale era data proprio dalle “altre” e cioè boschi radi, arbusteti, macchia mediterranea, vegetazione di ripa, boschi rupestri.

L’inventario forestale del 1985 propose quindi uno scenario nuovo, che non smentiva i dati ISTAT ma li integrava con le superfici dei cosiddetti boschi minori. Lo studio del 2015, che è il terzo, è iniziato due anni fa ed è tuttora in corso, ma alcuni risultati sono già stati resi disponibili e pubblicati. Non chiedetemi per quale ragione è stato saltato il 1995, non lo so.

A questo punto, vi risparmio tutta una serie di informazioni tecniche sulle metodologie di rilevamento dell’inventario … basti dire che, in tutte le fasi, grande rilievo ha avuto la tecnologia: fotointerpretazione di cartografia digitale, programmi Web-Gis, sistemi G.P.S., computer palmari, eccetera. La procedura di rilevazione integrava le immagini telerilevate con l’osservazione a terra e con misure dirette.

La ripartizione della superficie secondo la composizione attestava che la maggior parte dei boschi italiani era di latifoglie con circa 80%, seguiva il 16% di conifere e il 4% di misti; invece il dato ISTAT diceva 74% latifoglie e 21% conifere, il che non è molto diverso. Le latifoglie più diffuse sono della famiglia delle querce (roverella, cerro, ecc.) e inoltre il faggio; la conifera più diffusa è l’abete rosso.

A livello nazionale, 71 – 72 % dei boschi si trova a quote inferiori a 1000 metri; fra 1000 e 1500 17 – 18% e oltre i 1500 abbiamo solo 8 – 9%; infine, c’è 1 % di foreste in alta quota (però a livello regionale ci sono alcuni dati notevoli, per esempio in Valle d’Aosta il 13 % delle foreste è sopra i 2000 metri).

La “forma di governo” dei boschi italiani vedeva la prevalenza dei cedui, cosa che fece affermare all’allora direttore generale del C.F.S., Alessandrini, la nota frase «l’Italia è un paese ricco di boschi poveri». Il rapporto, come già detto sopra, era nel 1985 del 44 % contro 30 % di alto fusto, il resto erano “altre”. Questa prevalenza di boschi “poveri” potrebbe essersi mantenuta anche nel rilevamento del 2015.

L’Italia ha una superficie di trentadue milioni di ettari e i boschi ne coprono dieci milioni e mezzo, quindi un terzo del territorio nazionale è occupato dal bosco, con un incremento annuale di poco inferiore all’uno per cento. È una buona notizia, perché

le “nuove” foreste sono un polmone ausiliario che ha permesso all’Italia di superare gli obiettivi posti dal Protocollo di Kyoto sulla riduzione dell’inquinamento. Secondo la Fondazione Sviluppo Sostenibile, l’Italia è riuscita a tagliare il 7 per cento di emissioni nocive in quattro anni; senza costosi interventi, il “bosco ritornato” ha assorbito circa 11 per cento dei «gas serra» e l’Italia ha risparmiato doppiamente, perché non c’è stato bisogno di spendere per ridurre e non è stata sanzionata dal Protocollo di Kyoto, per una cifra complessiva di 200 milioni di euro! D’altra parte, l’Italia ha pagato nel 2015 una multa di quaranta milioni alla comunità europea per non avere messo in sicurezza le discariche, ma questo è un altro discorso e in questa sede non ne parleremo. Questo ritorno dei boschi ha bisogno di una spiegazione, perché è accaduto, diciamo, involontariamente.

Espansione delle foreste italiane

Allora partiamo dalla metà del ventesimo secolo. Le foto aeree del 1954 sono a disposizione degli studiosi presso l’Istituto Geografico Militare di Firenze (dove ha lavorato mio padre per 35 anni) e si possono confrontare con quelle del 1995 e del 2005. I dati confermano che, dagli oltre otto milioni e mezzo dell’ottantacinque a 10.467.500 ettari del 2005, si è avuta una crescita del 17-18 per cento, e i boschi si sono diffusi su terreni che in precedenza erano pascoli, campi coltivati, frutteti e uliveti. Oggi è stata rilevata la presenza di 10.673.590 ettari di bosco, con un aumento apprezzabile, ma parecchio ridotto.

La cosa buffa è che una delle prime fasi di sviluppo della nostra civiltà si può far coincidere con la trasformazione delle foreste in terreni dissodati, quando gli esseri umani si sono evoluti da cacciatori- raccoglitori a agricoltori. Nel ventesimo secolo abbiamo assistito al fenomeno inverso.

Il primo spopolamento delle campagne si è avuto negli anni ’50 – ’60 e molti lavoratori dell’agricoltura si erano “inurbati” per andare a lavorare nell’industria; però molti avevano mantenuto il terreno in campagna e, nel tempo libero, facevano un po’ di quelle buone pratiche che mantengono i terreni in buone condizioni: per esempio ridurre al minimo il suolo nudo e il drenaggio dei terreni in pendenza, cose che contrastano l’erosione idrica. Aggiungiamo pure che la meccanizzazione delle attività agricole si può applicare solo su terreni pianeggianti e anche di grande superficie, con l’eccezione di coltivazioni di pregio come i vigneti in zone D.O.C. L’agricoltura nei terreni collinari si è così trasformata da attività principale a ausiliaria, nel senso del tempo libero come detto prima, per essere poi abbandonata del tutto.

Dal 1970-75 fino al 1990 – 95, l’abbandono delle campagne e delle colline si è affermato pienamente, con conseguenze in molti settori, sia a livello sociale che ambientale; ma, per quello che riguarda l’argomento di questo scritto, il bosco si è preso un ulteriore 6 per cento dei terreni in vent’anni.

In alcune zone appenniniche dell’Italia centrale, per esempio in Abruzzo, le formazioni boschive occupano oltre la metà dell’intero territorio regionale, con un aumento dell’undici per cento negli ultimi vent’anni. Si tratta in gran parte di terreni “difficili” che erano stati i primi a essere abbandonati e che i boschi hanno subito colonizzato; per terreni difficili, intendo appezzamenti situati in quota, oppure molto pendenti, o anche molto lontani dalle strade.

Per spiegare meglio, voglio fare due esempi recenti:

  1. La gelata memorabile del mese di gennaio del 1985, quando a Peretola il termometro scese a meno 23 (e io feci una camminata sull’Arno ghiacciato insieme a mia figlia che allora aveva 4 anni) aveva danneggiato tutti gli ulivi; non ne rimase uno sano. Tutti i terreni fino ai 400 metri di altezza avevano subito la gelata. Nell’anno successivo, fu necessaria un’opera di risanamento e sostituzione: alcune ceppaie erano rimaste viventi al di sotto della pianta uccisa dal gelo e allora fu eseguito un taglio drastico, all’altezza del suolo, in attesa che l’albero gettasse di nuovo; le altre piante, che erano irrecuperabili, furono sradicate e sostituite con piante nuove. Bene, in Toscana tutti o quasi i coltivatori di ulivi si misero all’opera nel modo che ho detto; ma negli uliveti in cui questo non è stato fatto, nel corso degli anni al posto degli ulivi sono cresciuti carpini, frassini, lecci, roverelle e altri alberi che si trovavano lì accanto e che hanno disseminato.
  2. Nella valle del Sestaione, gli impianti sciistici che almeno fino al 1994 erano ancora in funzione sono stati abbandonati. In seguito, è stata fatta un’opera di naturalizzazione del comprensorio, gli impianti sono stati smantellati e anche il rifugio di Campolino; furono portati via piloni, cavi, pietre, mattoni e tutto quanto. Provate a risalire a piedi la famosa pista «rossa» che scendeva dalle Tre Potenze in mezzo alla faggeta: già dai primi anni era colonizzata da piante giovani e adesso, se guardate da Selletta, quasi non si distingue più il percorso della pista in mezzo al bosco.

Ma ora è necessario entrare nel merito della composizione di queste foreste e quindi vi ammorberò con alcune definizioni.

Per superficie boscata si intende: «tutte le superfici coperte da alberi o arbusti forestali, a condizione che non siano utilizzate principalmente a fini agricoli o ad altri fini non forestali»; sono comprese anche le aree che svolgono prevalentemente una funzione protettiva o ricreativa, e anche le barriere frangivento e i filari di alberi all’esterno dei boschi; sono addirittura comprese nella superficie forestale le strade di servizio, i viali parafuoco e i depositi di legname! Bene, vi rendete conto che è definita «boscata» un sacco di roba … in pratica si fa prima a dire cosa non lo è: intanto le aree inferiori a 0,20 ettari (nel resto d’Europa il limite è 0,50), le superfici boscate che hanno una densità inferiore al 20 %, i frutteti, gli alberi isolati, i noceti e i castagneti da frutto, i singoli filari da alberi lungo corsi d’acqua e strade, i parchi, i giardini, ecco, questi no.

Vediamo un po’ le regioni italiane più boscose.

Il 34,7 % del territorio della penisola è ricoperto di verde. Le regioni più densamente «boscate» in proporzione sono la Liguria e il Trentino-Alto Adige, con percentuali di copertura rispettivamente del 62,6 % e del 60,6 %. In termini assoluti invece, la Toscana è la regione che contribuisce di più, con una massa arborea di 108 milioni di tonnellate di legno, che corrisponde a un «carbon stock» di 54 milioni di tonnellate; in questa graduatoria, seguono il Piemonte e la Lombardia. Abbiamo visto, all’inizio, che l’inventario forestale si occupa anche di quantificare le riserve di carbonio immagazzinate sulla superficie nazionale; la F.A.O., l’organismo internazionale che si occupa della nutrizione, è stata fra le prime a svolgere la sua indagine a livello mondiale e anche questa si occupa di rilevare quanto la massa degli alberi, delle radici, delle foglie, ecc. contribuisce alla riserva di carbonio. Le prime indagini della F.A.O., però, riguardavano soprattutto la produzione di legname; le altre funzioni delle foreste, e in particolare gli aspetti ambientali, sono state considerate a partire dal 1980.

Oltre al punto di vista naturalistico e di «riserva di carbonio» e quindi di vantaggio per l’umanità, c’è anche l’assetto del territorio: su base nazionale, nella categoria «bosco» la gran parte del soprassuolo non è interessata da fenomeni di dissesto idrogeologico; il 77%. Per quanto riguarda invece le situazioni di rischio, l’elemento più diffuso risulta essere la caduta di pietre con il 6%, seguito dagli eventi alluvionali (4,3%) e frane e smottamenti (3,3%).

Questi dati fanno capire che, nei terreni boscati, c’è molta più sicurezza.

La situazione in Toscana

La nostra è una regione ricca di boschi e questo l’ho già scritto sopra: il 47 % della superficie è infatti boscato, per un totale di oltre un milione di ettari, secondo i dati dell’inventario forestale regionale. Questa superficie mette la Toscana in testa alla classifica nostra regione in termini di superficie boscata assoluta, mentre in termini percentuali sono più boscate le regioni piccole come Liguria e Trentino … ma anche la Toscana è una regione «ricca di boschi poveri» con prevalenza di cedui e specialmente di selve invecchiate. La maggior parte di questo patrimonio è di proprietà privata per la precisione l’ 87 % e per lo più suddiviso in aziende medio-piccole, quasi tutte le aziende possiedono superfici forestali di dimensioni inferiori ai dieci ettari. Sul totale di 1.197.000, il patrimonio demaniale regionale ammonta a 111.572 ettari (suddivisi in 52 complessi forestali) ai quali vanno aggiunti 6.150 di proprietà di altri enti.

Le regioni del nord

Un’altra regione di cui voglio parlare è la Liguria; abbiamo detto che quasi due terzi del territorio sono boscosi, però bisogna distinguere. Foreste di cedui, che erano state sempre utilizzate per ricavare legna da ardere, con una costante manutenzione dovuta proprio all’utilizzo, sono da quarantanni abbandonate e si sono sviluppate eccessivamente; si è formato così un bosco fittissimo ma questa non è una cosa positiva, perché si possono avere cedimenti di vecchi alberi che crollano per il loro stesso peso. Quando gli alberi rovinano a terra, strappano le loro radici dal suolo e questo può innescare dei fenomeni di erosione; questi crolli di alberi si sono avuti anche in occasione della bufera di vento del 5 marzo. Inoltre il bosco impenetrabile e pieno di rami secchi fa aumentare il rischio di incendi; terza complicazione, diventa difficile la fruizione turistica di queste macchie intricate.

Il bosco ha bisogno di cure, in particolare di diradamenti, e dato che non esiste più un’attività remunerativa legata al legname, questa manutenzione non si fa più. Un tempo, le spese sostenute (per il taglio e specialmente per il trasporto al mercato della legna) erano compensate dal ricavato della vendita; da qualche decina di anni, questo rapporto costi/ricavi è diventato sfavorevole e i proprietari di boschi si occupano sempre meno del taglio e della raccolta del legname. Per la verità, un’attività di prelievo della legna da ardere esiste ancora ma a livello locale oppure privato.

Il legname da lavoro ha ancora un suo mercato, ma bisogna organizzare il trasporto alle strade, chiamare delle ditte specializzate con le macchine. Le aziende che operano nel settore forestale si attrezzano con macchinari sempre più all’avanguardia per velocizzare il taglio, la preparazione e l’esbosco e restare così sul mercato. Pure le aree da tagliare sono scelte in funzione dell’efficienza, per cui può capitare che si operi il taglio solo nelle parti di foresta vicine alla rete stradale. Visto che oggi non è più molto redditizio andare nel bosco a prelevare il legname, altre attività in grado di dare qualche guadagno potrebbero essere:

  • sfruttamento del legname per alimentare delle centrali a biomassa, in cui si produce calore per tutte le abitazioni di un paese, attività che sta per diventare rilevante in alcune regioni come l’Alto Adige;
  • impianto di specie che producano legname di pregio, con utilizzo ben preciso;
  • valorizzazione di altre caratteristiche, come i prodotti del sottobosco, funghi, tartufi, ribes ecc.

Allora si potrebbe verificare che le foreste siano trattate e tenute pulite dai rami secchi, che sono pericolosi per il rischio incendi come ho detto prima. Ma io di questa gestione economica dei prodotti pregiati del sottobosco non me ne intendo, conosco soltanto qualcosa per sentito dire e allora passo ad altro.

Ho accennato all’Alto Adige; ecco, questa è unica regione d’Italia in cui la manutenzione dei boschi è ancora attuata e di conseguenza non si verifica, se non in percentuali minime, l’aumento di superficie forestale. In questa regione, la Provincia autonoma di Bolzano integra con un finanziamento economico il reddito degli agricoltori che scelgono di continuare a occuparsi dei «masi» di montagna e quindi anche della manutenzione dei pascoli. Se le malghe e gli alpeggi rimangono in attività, è possibile preservare il paesaggio con un’opera continua di cure colturali. La pastorizia è un’attività che rende pochissimo; la pratica dello spostamento delle mandrie in quota migliora il prodotto, perché le mucche che si sono nutrite con le erbe di montagna danno latte più genuino; però questo non ha un riconoscimento da parte del mercato, cioè il latte e il formaggio sono venduti agli stessi prezzi. Ecco l’opportunità di un intervento da parte delle istituzioni per impedire quello che accade nel resto della catena alpina, cioè l’abbandono dei pascoli più alti. Su questo finanziamento, io esprimo un parere positivo, perché così si tutela il paesaggio, si salva la biodiversità di queste zone e delle razze animali e si porta, in conclusione, anche beneficio all’attività turistica.

Esempio invece sfavorevole riguarda due grandi regioni del nord: in Lombardia e in Veneto la superficie boscata non è aumentata in pianura, ma solo nelle zone montuose e di percentuali minime. La realtà delle zone vicine alle città di queste due regioni è sotto gli occhi di tutti, basta passare in automobile per le strade della piana di Belluno per accorgersene: da un lato, incessante cementificazione delle periferie e dall’altro aumento dell’agricoltura intensiva, che sommati insieme si prendono dodici ettari di terreno al giorno! L’ente regionale che gestisce le foreste lombarde e l’assessorato all’agricoltura della regione Veneto danno un contributo per sostenere le associazioni locali che cercano di arginare questi due fenomeni, sui quali il mio personale pensiero è negativo. La conclusione è comunque in chiaroscuro, ma con una prospettiva positiva: la natura, a piccoli passi, continuerà a conquistare tutto quello che l’uomo abbandonerà, anche in queste due regioni, anche se a un ritmo magari inferiore rispetto alle altre.

Gli animali

Nella zona del Salviatino, a due chilometri dalla nostra sede, di notte passeggiano i cinghiali … un giorno di luglio un capriolo è entrato in un negozio in piazza Antonelli! Sull’Appennino tosco-emiliano più volte sono state avvistate le aquile reali … un lupo si avvicinava alle case di Maresca. Questa è l’altra avanzata, lenta ma costante, che si affianca al ritorno del bosco, di cui si può dire con certezza essere una conseguenza diretta. È stato confermato il ritorno degli animali nelle zone verdi, ma a volte anche nelle periferie dei centri abitati: soprattutto cinghiali, ma anche daini e volpi. Il ritorno degli animali selvatici, scacciati dai loro habitat secoli fa, è un risultato importante dal punto di vista della biodiversità, che è un valore da difendere. Ogni specie ha un suo ruolo nel sistema ambiente; nei secoli, la scomparsa dei grandi carnivori ha portato a uno sbilanciamento della catena alimentare e a un aumento delle popolazioni degli erbivori. Rispetto a molti altri paesi, l’Italia va in controtendenza, con questo incremento che mai si era verificato negli ultimi cento anni; in particolare è la grande fauna che cresce di numero, come per esempio orsi, lupi, avvoltoi e persino le linci. Non tutte le specie animali sono in crescita, ci sono anche dei piccoli animali come il piviere e le varie specie di salamandre che invece rischiano l’estinzione.

Resta il problema di come far convivere l’uomo con gli animali, specialmente con i grandi carnivori; in Trentino, l’anno scorso fu eliminata l’orsa Daniza che disturbava la popolazione (ebbene sì, io penso che la morte dell’orsa non sia stata del tutto involontaria), quest’anno un podista che si allenava nel bosco è stato aggredito da un orso e si è salvato per miracolo. La scienza dispone degli strumenti per studiare questa convivenza e trovare il modo di far convivere l’uomo e gli animali selvatici, senza allarmismi inutili.

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